1. Il volto degli antenati
L’attività di autoriflessione di artisti e scrittori è fenomeno ben noto e prezioso per la critica letteraria, dal momento che negli spazi di autocommento spesso si annidano rivelazioni illuminanti sui testi e la loro genesi.[1] Se in molti casi gli autori sono stati parchi nel fornire commenti alle proprie opere, Italo Calvino, per contro, si è dedicato a tale attività in modo potremmo dire sistematico e cospicuo. L’autore ligure non soltanto ha frequentato in modo estensivo la forma saggio, autoinvestigando attraverso gli strumenti della saggistica le proprie scelte poetiche, ma in più occasioni ha dichiarato intenti e significati dei suoi scritti in introduzioni e prefazioni prodighe di dettagli e spiegazioni sui testi che accompagnavano.
La Prefazione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno è forse lo scritto più noto della produzione calviniana di autocommento. Non meno rilevanti e illuminanti, però, sono altri testi prefatori, come ad esempio i due scritti, uno edito e l’altro emerso grazie ai Meridiani mondadoriani, che illustrano genesi e significati della trilogia araldica dei Nostri antenati.
Nel 1960, in occasione della pubblicazione dei tre romanzi in un volume complessivo, Calvino sente infatti la necessità di illustrare le ragioni che fanno di queste opere un ciclo unitario e compiuto. I volumi che compongono i Nostri antenati, benché nati in momenti lievemente differenti (’52, ’57, ’59) – e fortemente ancorati alle circostanze storiche in cui vennero concepiti –, condividono una matrice genetica comune, sulla quale Calvino insiste sia nella versione edita della Postfazione sia nello scritto che non venne pubblicato: questi romanzi – come molte altre opere calviniane – non sono nati da concetti ben distinti e chiari per l’autore, che attraverso la trasfigurazione fantastica li ha voluti descrivere, sono sorti invece da tre immagini, dalle quali poi hanno preso forma delle questioni che in seguito rimangono sempre centrali per Calvino.
All’origine di ogni storia che ho scritto c’è un’immagine che mi gira per la testa, nata chissà come e che mi porto dietro magari per anni. A poco a poco mi viene da sviluppare questa immagine in una storia con un principio e una fine, e nello stesso tempo – ma i due processi sono spesso paralleli e indipendenti – mi convinco che essa racchiude qualche significato. Quando comincio a scrivere però, tutto ciò è nella mia mente ancora in uno stato lacunoso, appena accennato. È solo scrivendo che ogni cosa finisce per andare al suo posto.
Dunque da un po’ di tempo pensavo a un uomo tagliato in due per lungo, e che ognuna delle due parti andava per conto suo.[2]
La matrice visiva di ogni storia calviniana in queste pagine è dunque dichiarata,[3] come anche l’idea che la scrittura funzioni quale strumento per mettere a fuoco le immagini che danno il via al racconto. Partendo da un uomo tagliato in due per lungo, lo scrivere, il raccontare chiariscono i significati di tale immagine, in un rapporto di piena e totale sinergia. Non vi sarebbe scrittura senza la scintilla iconica di partenza e quest’ultima rimarrebbe sfocata senza la narrazione, che ne mette in ordine i margini e le dà pregnanza, la definisce.
Naturalmente anche per il secondo capitolo della trilogia Calvino descrive lo stesso processo creativo: «Anche qui avevo da tempo un’immagine in testa: un ragazzo che sale su di un albero; sale, e cosa gli succede? sale, ed entra in un altro mondo; no: sale, e incontra personaggi straordinari; ecco: sale, e d’albero in albero viaggia per giorni e giorni, anzi, non torna più giù, si rifiuta di scendere a terra, passa sugli alberi tutta la vita».[4] Di questa immagine di partenza Calvino fornisce un rapido schizzo, che con estrema essenzialità dà concretezza all’ispirazione visiva del racconto.[5]
Ultima icona della trilogia, icastica e per certi versi ancor più vivida delle prime due, «un’armatura che cammina e dentro è vuota».[6]
Nella Postfazione Calvino descrive con precisione da dove tali immagini siano nate, il frangente storico al quale ricondurle, e in che direzione lo abbiano condotto attraverso la scrittura. E in tutti e tre i casi egli chiarisce che la lettura più immediata è quella più banalizzante e distorta: l’uomo diviso in due non rappresenta il conflitto tra male e bene, ma il bisogno di completezza o i rischi di dimidiamento derivanti dalla modernità; il ragazzo che sale sugli alberi e decide di non scendere più non manifesta dei desideri di fuga e di allontanamento, piuttosto la decisione (dell’intellettuale) di partecipare ai problemi della società ‘dalla giusta distanza’; l’armatura vuota non raffigura l’assenza di volontà quanto il suo opposto. Tutte e tre le immagini ruotano però intorno a un unico soggetto:
Ho voluto farne una trilogia d’esperienza sul come realizzarsi esseri umani: nel Cavaliere inesistente la conquista dell’essere, nel Visconte dimezzato l’aspirazione a una completezza al di là delle mutilazioni imposte dalla società, nel Barone rampante una via verso una completezza non individualistica da raggiungere attraverso la fedeltà a un’autodeterminazione individuale: tre gradi di approccio alla libertà. [...] Vorrei che potessero essere guardate come un albero genealogico degli antenati dell’uomo contemporaneo, in cui ogni volto cela qualche tratto delle persone che ci sono intorno, di voi, di me stesso.[7]
Tre immagini di partenza differenti che contribuiscono però a delineare un ritratto unitario e complesso, un volto unico e molteplice, quello dell’uomo contemporaneo e del suo auspicabile anelito libertario. Nella descrizione di tale processo creativo ogni singolo elemento iconico si somma all’altro per definire un organismo armonico, un volto e un corpo solo. Sull’ispirazione iconica della propria scrittura, Calvino torna – come è ben noto – nella quarta delle Lezioni americane, nella quale la Visibilità viene posta quale valore essenziale proprio per le opere fantastiche:
Quando ho cominciato a scrivere storie fantastiche non mi ponevo ancora problemi teorici; l’unica cosa di cui ero sicuro era che all’origine d’ogni mio racconto c’era un’immagine visuale. Per esempio, una di queste immagini è stata un uomo tagliato in due metà che continuano a vivere indipendentemente; un altro esempio poteva essere il ragazzo che s’arrampica su un albero e poi passa da un albero all’altro senza più scendere in terra; un’altra ancora un’armatura vuota che si muove e parla come ci fosse dentro qualcuno.[8]
Anche in queste pagine, a distanza ormai di molti anni dalla Postfazione, Calvino pone l’accento sulla capacità di tali immagini di partenza di indirizzare la scrittura, forgiarla e orientarla trasformando ciò che in origine è meramente visivo in concetti e significati progressivamente sempre più nitidi. Solo attraverso questo passaggio obbligato dall’immagine alla parola, la scrittura si fa strada e conquista il predominio che le spetta.
Nello stesso tempo la scrittura, la resa verbale, assume sempre più importanza; direi che dal momento in cui comincio a mettere nero su bianco, è la parola scritta che conta: prima come ricerca d’un equivalente dell’immagine visiva, poi come sviluppo coerente dell’impostazione stilistica iniziale, e a poco a poco resta padrona del campo.[9]
In nessun caso, però, dall’autoriflessione calviniana emerge in modo esplicito che le tre ispirazioni iconiche della trilogia condividono la stessa sfera metaforica di partenza. Il realizzarsi come esseri umani passa attraverso il superamento di alcune limitazioni/metamorfosi del corpo:[10] la completezza, al di là del dimidiamento; la presenza, nonostante la distanza; l’essere/esserci, a dispetto dell’assenza. Dell’assenza, appunto, di un corpo: pura coscienza e volontà, ecco cosa nasconde l’armatura vuota di Agilulfo.
Il cavaliere inesistente è forse, in tal senso, il punto di approdo della trilogia, non già e soltanto per ragioni cronologiche, ma perché intorno alla corporeità come metafora della realizzazione umana ruota l’intero sistema dei personaggi.[11]
2. Teodora e la macchina del racconto
Prima di guardare più da vicino le immagini di questo corpo e della sua assenza, è opportuno un passo indietro per riflettere ancora sulla funzione fabulatoria che l’iconismo assume nella scrittura calviniana e come tale processo genetico nei Nostri antenati si leghi inscindibilmente alla corporeità. Come ha osservato Francesca Serra, l’immagine in Calvino è figura, macchina retorica che, creando delle imposizioni, delle regole, orienta e incardina la scrittura. Nei tre romanzi della trilogia le metafore di partenza si reificano, la narrazione fantastica elide il ‘come’ che congiunge i due termini del paragone, e prende sul serio la sovrapponibilità tra quei due termini: essere dunque realmente diviso a metà; avere la testa tra le nuvole, e decidere di vivere tutta l’esistenza tra gli alberi; e, infine, essere un uomo vuoto, che esiste soltanto grazie ad una armatura.[12]
Il dispositivo diegetico che regge il racconto è talmente centrale per Calvino da indurlo a metterlo in mostra, a esplicitare e concedere uno spazio privilegiato alla voce del narratore. Nei tre romanzi, egli delinea con minore o maggiore precisione la figura di colui che racconta le vicende dei protagonisti e in tal modo plasma uno spazio metanarrativo via via più rilevante ed esteso.
La presenza di un «io narratore-commentatore» fece sì che parte della mia attenzione si spostasse dalla vicenda all’atto stesso dello scrivere, al rapporto tra la complessità della vita e il foglio su cui questa complessità si dispone sotto forma di segni alfabetici. A un certo punto era solo questo rapporto a interessarmi, la mia storia diventava soltanto la storia della penna d’oca della monaca che correva sul foglio bianco.[13]
Se già nel Visconte dimezzato e nel Barone rampante Calvino aveva affidato la narrazione a due personaggi interni alla diegesi (il nipote del visconte e il fratello del barone), con il Cavaliere inesistente si assiste alla creazione di un eccezionale narratore, o meglio narratrice intradiegetica, al contempo etero e omodiegetica, che rende esplicito il funzionamento della macchina del racconto. Suor Teodora offre a Calvino il modo per continuare a riflettere su ciò che narrare per immagini comporti,[14] sui meccanismi stessi dell’iconostoria che ha concepito. La monaca-narratrice, come si ricorderà, si manifesta e reclama la propria funzione a partire soltanto dal capitolo IV:
Io che racconto questa storia sono Suor Teodora, religiosa dell’ordine di San Colombano. Scrivo in convento, desumendo da vecchie carte, da chiacchiere sentite in parlatorio e da qualche rara testimonianza di gente che c’era. Noi monache, occasioni per conversare coi soldati, se ne ha poche: quel che non so cerco d’immaginarmelo, dunque; se no come farei? E non tutto della storia mi è chiaro. Dovete compatire: si è ragazze di campagna, ancorché nobili, vissute sempre ritirate, in sperduti castelli e poi in conventi; fuor che funzioni religiose, tridui, novene, lavori dei campi, trebbiature, vendemmie, fustigazioni di servi, incesti, incendi, impiccagioni, invasioni d’eserciti, saccheggi, stupri, pestilenze, noi non si è visto niente. Cosa può sapere del mondo una povera suora?[15] (CI, pp. 979-80)
Seguendo il tòpos antico della figura del narratore/testimone, Calvino sta costruendo qui la voce del racconto; e – anche se intrisa della consueta ironia con egli tratta i «cavalieri antiqui» – la investe, sin da questa prima apparizione, della funzione onnisciente che è propria degli autori dei poemi cavallereschi e soprattutto di Ariosto. Non a caso, infatti, lo spazio riservato alla voce di Teodora sembra rifarsi, con geniale trovata intertestuale, ai proemi degli amati romanzi di Boiardo e Ariosto.[16] Le zone proemiali accolgono per statuto le riflessioni sulla materia che si sta raccontando, conferendole un valore universale, e al tempo stesso concedono spazio per esporre i meccanismi che governano la narrazione:
Ieri scrivevo della battaglia e nell’acciottolio dell’acquaio mi pareva di sentir cozzare lance contro scudi e corazze, risuonare gli elmi percossi dalle pesanti spade; di là del cortile mi giungevano i colpi di telaio delle sorelle tessitrici e a me pareva un battito di zoccoli di cavalli al galoppo: e così quello che le mie orecchie udivano, i miei occhi socchiusi trasformavano in visioni e le mie labbra silenziose in parole e parole e la penna si lanciava per il foglio bianco a rincorrerle. (CI, p. 992)
Il circuito sensoriale che alimenta la creazione letteraria si complica: i suoni della vita quotidiana del convento si trasformano in quelli della battaglia, da essi sorgono le visioni dei cavalli lanciati al galoppo e da qui di conseguenza trova la sua strada la parola, prima fiorita silenziosamente sulle labbra della narratrice e poi concretamente visibile come tratto nero sul foglio bianco, nuova immagine in cui il significante iconico si trasforma in significato verbale. Al contempo la compartecipazione di tutti i sensi alla creazione letteraria fa sì che la scrittura coinvolga anch’essa il regno dei corpi: la suora narratrice investe la penna del ruolo di mediatrice tra la corporeità delle esperienze e la traduzione in scrittura, in carattere iconico che si incide sulla superfice neutra della pagina.[17]
La stessa fisicità della scrittura, della narrazione sembra rinvenibile del resto nell’explicit del Barone rampante. Biagio prende per l’ultima volta la parola e con tono malinconico e nostalgico descrive il paesaggio, ormai mutato, all’interno del quale si sono svolte le vicende di Cosimo:
Ombrosa non c’è più. Guardando il cielo sgombro, mi domando se davvero è esistita. Quel frastaglio di rami e foglie, biforcazioni, lobi, spiumii, minuto e senza fine, e il cielo solo a sprazzi irregolari e ritagli, forse c’era solo perché ci passasse mio fratello col suo leggero passo di codibugnolo, era un ricamo fatto sul nulla che assomiglia a questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi si intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito.[18]
Il verde paesaggio di Ombrosa si trasforma nella pagina scritta, o meglio, il foglio prende la forma e la fisicità dei luoghi nei quali è passato il Barone. Al contempo la scrittura si converte nel leggero corpo piumato di Cosimo e da quel fanciullo-uccellino eredita l’agilità veloce e rampante: «corre e corre»[19] insieme al personaggio di cui descrive le avventure. E naturalmente anche qui l’inchiostro depositato sulla pagina diventa figura, reticolo iconico che ricama sulla superficie bianca che lo accoglie.[20]
Sulla metamorfosi di suoni in immagini e di immagini in parole, e sul valore visivo della scrittura, Teodora torna anche nel lungo prologo del capitolo VIII:
Libro, è venuta sera, mi sono messa a scrivere più svelta, dal fiume non viene altro che il rombo lassù della cascata, alla finestra volano muti i pipistrelli, abbaia qualche cane, qualche voce risuona dai fienili. Forse non è stata scelta male questa mia penitenza, dalla madre badessa: ogni tanto mi accorgo che la penna ha preso a correre sul foglio come da sola, e io a correrle dietro. È verso la verità che corriamo, la penna e io, la verità che aspetto sempre che mi venga incontro, dal fondo d’una pagina bianca, e che potrò raggiungere soltanto quando a colpi di penna sarò riuscita a seppellire tutte le accidie, le insoddisfazioni, l’astio che sono qui chiusa a scontare. Poi basta il tonfo d’un topo (il solaio del convento ne è pieno), un buffo di vento improvviso che fa sbattere l’impannata (proclive sempre a distrarmi, m’affretto ad andarla a riaprire), basta la fine d’un episodio di questa storia e l’inizio d’un altro o soltanto l’andare a capo d’una riga ed ecco che la penna è ritornata pesante come un trave e la corsa verso la verità s’è fatta incerta. Ora devo rappresentare le terre attraversate da Agilulfo e dal suo scudiero nel loro viaggio: tutto qui su questa pagina bisogna farci stare, la strada maestra polverosa, il fiume, il ponte, ecco Agilulfo che passa sul suo cavallo dallo zoccolo leggero, toc toc toc toc, pesa poco quel cavaliere senza corpo, il cavallo può fare miglia e miglia senza stancarsi, e il padrone poi è instancabile. Ora sul ponte passa un galoppo pesante: tututum! è Gurdulú che si fa avanti aggrappato al collo del suo cavallo, le due teste così vicine che non si sa se il cavallo pensi con la testa dello scudiero o lo scudiero con quella del cavallo. Traccio sulla carta una linea diritta, ogni tanto spezzata da angoli, ed è il percorso di Agilulfo. Quest’altra linea tutta ghirigori e andirivieni è il cammino di Gurdulú. […]. Qui in riva al fiume segnerò un mulino. […] Questa che disegno adesso è una città cinta da mura. Agilulfo deve attraversarla. […] Oltre la città questo che vado tratteggiando è un bosco. (CI, p. 1022)
La scrittura rivela il suo anelito di verità e al contempo si mostra quale operazione materiale, sovrapponibile al disegno, al segno iconico che si incide sulla pagina e la trasforma in qualcosa di concreto, visibile ma progressivamente tangibile; tanto tangibile da poter correre verso la verità e poi soccombere sotto il peso di un corpo che improvvisamente si fa pesante e incerto. A completamento della mobilitazione dei sensi innescata nel primo prologo, la narratrice giunge a metamorfosare la pagina in un paesaggio tattile e materico, dotato per un momento di tridimensionalità:
Vorrei correre a narrare, narrare in fretta, istoriare ogni pagina con duelli e battaglie quanti ne basterebbero a un poema, ma se mi fermo e faccio per rileggere m’accorgo che la penna non ha lasciato segno sul foglio e le pagine son bianche.
Per raccontare come vorrei, bisognerebbe che questa pagina bianca diventasse irta di rupi rossicce, si sfaldasse in una sabbietta spessa, ciottolosa, e vi crescesse un’ispida vegetazione di ginepri. (CI, p. 1036)
Tuttavia, questo tentativo di dare concretezza alla pagina scritta, di cercare la verità nella matericità del reale (qui rappresentata attraverso l’aggettivazione irta, spessa, ciottoloso e ispida e i vezzeggiativi rossicce e sabbietta)[21] non funziona, si trasforma in operazione distruttiva e non creativa: maciulla la pagina e le infligge ferite, grinze e scalfitture. Si torna quindi all’idea, sempre più rassicurante per Calvino, del racconto quale mappa, schema, scacchiera su cui i personaggi si muovono secondo traiettorie più o meno regolari.
Ma come posso andare avanti nella storia, se mi metto a maciullare così le pagine bianche, a scavarci dentro valli e anfratti, a farvi scorrere grinze e scalfitture, leggendo in esse le cavalcate dei paladini? Meglio sarebbe, per aiutarmi a narrare, se mi disegnassi una carta dei luoghi, con il dolce paese di Francia, e la fiera Bretagna, ed il canale d’Inghilterra colmo di neri flutti, e lassù l’alta Scozia, e quaggiù gli aspri Pirenei, e la Spagna ancora in mano infedele, e l’Africa madre di serpenti. Poi, con frecce e con crocette e con numeri potrei segnare il cammino di questo o quell’eroe. Ecco che già posso con una linea rapida nonostante alcune giravolte, far approdare in Inghilterra Agilulfo e farlo dirigere verso il monastero dove da quindici anni è ritirata Sofronia. (CI, p. 1038)
Il racconto carta geografica,[22] senza la polverosa consistenza delle cose, è più controllabile, si fa disteso paesaggio sul quale si muovono – come nel poema ariostesco, secondo la lettura calviniana[23] – dei paladini di carta, burattini arrendevoli nelle mani del poeta-Mangiafuoco; tuttavia, è pur sempre verso la compromettente e imprevedibile materialità della vita che la penna di Teodora (e di Calvino) sembra tendere:
La pagina ha il suo bene solo quando la volti e c’è la vita dietro che spinge e scompiglia tutti i fogli del libro. La penna corre spinta dallo stesso piacere che ti fa correre le strade. Il capitolo che attacchi e non sai ancora quale storia racconterà è come l’angolo che svolterai uscendo dal convento e non sai se ti metterà a faccia con un drago, uno stuolo barbaresco, un’isola incantata, un nuovo amore. (CI, p. 1064)
La penna giunge alla piena metamorfosi in corpo e corre sospinta da un anelito vitalistico e libertario. Il sipario della pagina bianca si solleva e dietro l’angolo c’è la vita, che stravolge l’ordinata sequenza del racconto. La stessa vita che ha alimentato le fantasie e le immagini del romanzo: un drago, uno stuolo barbaresco, un’isola incantata e naturalmente anche la passione di un nuovo amore.
3. Le metamorfosi di un corpo che non c’è
Al di là dello schema narrativo all’interno del quale Teodora e Calvino fanno muovere i protagonisti del racconto, un altro ‘disegno’ sembra orientarne la natura e le funzioni. Già negli altri due romanzi della trilogia il corpo è il campo nel quale ha luogo la sfida fabulatoria di Calvino. A partire da corpi che superano degli ostacoli, che ‘esistono’ a dispetto di tali limitazioni, egli costruisce la narrazione del Visconte e del Barone: Medardo vive nonostante il dimidiamento al quale è soggetto, e Cosimo, distaccandosi dal comune vivere sulla terra, trasforma la propria natura fisica adattandola a una esistenza sugli alberi. Tuttavia, è con il Cavaliere che Calvino tenta l’impresa più complessa: crea un personaggio che esiste senza avere un corpo. Ed è dunque intorno alla presenza-assenza del corpo che si costruisce tutta la vicenda. Agilulfo dichiara l’assenza del proprio corpo sin dalla prima scena del romanzo, durante la rivista dell’esercito alla presenza del vecchio e polveroso Carlo Magno:
- Dico a voi, ehi, paladino! - insisté Carlomagno. - Com’è che non mostrate la faccia al vostro re?
La voce uscì netta dal barbazzale. - Perché io non esisto, sire.
- O questa poi! - esclamò l’imperatore. - Adesso ci abbiamo in forza anche un cavaliere che non esiste! Fate un po’ vedere.
Agilulfo parve ancora esitare un momento, poi con mano ferma ma lenta sollevò la celata. L’elmo era vuoto. Nell’armatura bianca dall’iridescente cimiero non c’era dentro nessuno.
- Mah, mah! Quante se ne vedono! - fece Carlomagno. - E com’è che fate a prestar servizio, se non ci siete?
- Con la forza di volontà, - disse Agilulfo, - e la fede nella nostra santa causa!
- E già, e già, ben detto, è così che si fa il proprio dovere. Be’, per essere uno che non esiste, siete in gamba! (CI, pp. 957-58)
Il cavaliere che non c’è non ha pudore a mostrare la propria inesistenza; non esita a ‘far vedere’ a Carlo – come Calvino sembra voler sottolineare – l’assenza del corpo, che passa in secondo piano rispetto alla «forza di volontà», bastevole a riempire l’armatura vuota. L’esibizione della propria assenza, o meglio, dell’assenza della propria consistenza corporea però non è manifestazione di un rapporto del tutto pacificato con la fisicità della carne. Un ambiguo sentimento di attrazione e repulsione nei confronti della corporeità si esplicita in modo netto almeno in due momenti dedicati alla riflessione del protagonista sulla propria condizione. Durante lo splendido notturno che precede il giorno della battaglia, Agilulfo si trova a fronteggiare uno degli handicap della propria inesistenza: tutti dormono ma chi non c’è non conosce neanche l’abbandono e il ristoro del sonno. La bianca armatura vaga per l’accampamento illuminato dalla luce lunare e si trova così a poggiare il proprio sguardo indisturbato sull’umanità immersa nel torpore del riposo notturno:
Lo colpiva e inquietava di più la vista dei piedi ignudi che spuntavano qua e là dall’orlo delle tende, gli alluci verso l’alto: l’accampamento nel sonno era il regno dei corpi, una distesa di vecchia carne d’Adamo, esaltante il vino bevuto e il sudore della giornata guerresca; mentre sulla soglia dei padiglioni giacevano scomposte le vuote armature, che gli scudieri e i famigli avrebbero al mattino lustrato e messo a punto. Agilulfo passava, attento, nervoso, altero: il corpo della gente che aveva un corpo gli dava sì un disagio somigliante all’invidia, ma anche una stretta che era d’orgoglio, di superiorità sdegnosa. Ecco i colleghi tanto nominati, i gloriosi paladini, che cos’erano? L’armatura, testimonianza del loro grado e nome, delle imprese compiute, della potenza e del valore, eccola ridotta a un involucro, a una vuota ferraglia; e le persone lì a russare, la faccia schiacciata nel guanciale, un filo di bava giù dalle labbra aperte. Lui no, non era possibile scomporlo in pezzi, smembrarlo: era e restava a ogni momento del giorno e della notte Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, armato cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez il giorno tale, avente per la gloria delle armi cristiane compiuto le azioni tale e tale e tale, e assunto nell’esercito dell’imperatore Carlomagno il comando delle truppe tali e talaltre. E possessore della più bella e candida armatura di tutto il campo, inseparabile da lui. (CI, p. 961)
Come lo sguardo di Carlo si era posato sul vuoto dietro la visiera di Agilulfo, così adesso lo sguardo ‘inesistente’ si poggia e si sofferma sull’esercito immerso nel sonno. La vista del paladino si focalizza in primo luogo su un dettaglio, sul quale Calvino attira anche l’attenzione del lettore: i pieni «ignudi»;[24] poi lo sguardo si allarga sull’intero accampamento descritto come il «regno dei corpi». I paladini, privi dell’armatura, si mostrano per ciò che sono: «una distesa di vecchia carne d’Adamo», con chiaro ammiccamento al peccato primigenio che marca gli esseri umani. Tuttavia, è proprio qui che si manifesta l’ambivalenza di sentimenti che rende inquieto Agilulfo, e molto più profondamente Calvino: «il corpo della gente che aveva un corpo gli dava sì un disagio somigliante all’invidia, ma anche una stretta che era d’orgoglio, di superiorità sdegnosa». L’animo di Agilulfo è percorso da invidia mista a orgoglio e a sdegnosa superiorità: se il corpo privato dell’armatura è ridotto a carne corruttibile e corrotta, anche la corazza svuotata dei corpi si riduce a ferraglia, a involucro ammaccato. L’anelito verso la libertà della pura volontà espresso dal Cavaliere (e anche da Calvino) è animato dal desiderio di superare i rischi che derivano da una scelta ambigua, dal voler essere corpo e al tempo stesso armatura, elementi non perfettamente inscindibili ma fragilmente autonomi e imperfetti a causa di questa duplicità (la lettura politica di questa pagina è quasi inevitabile sullo scadere degli anni Cinquanta). Dunque, il primo correttivo al quale autore e personaggio sembrano ricorrere è la rinuncia alla parte più colma di difetti, più compromessa per natura, ossia al corpo,[25] ma senza che ciò si risolva in una scelta pacifica e pacificante.
Avanzava ai margini del campo, in luoghi solitari, su per un’altura spoglia. La notte calma era percorsa soltanto dal soffice volo di piccole ombre informi dalle ali silenziose, che si muovevano intorno senza una direzione nemmeno momentanea: i pipistrelli. Anche quel loro misero corpo incerto tra il topo ed il volatile era pur sempre qualcosa di tangibile e sicuro, qualcosa con cui si poteva sbatacchiare per l’aria a bocca aperta inghiottendo zanzare, mentre Agilulfo con tutta la sua corazza era attraversato a ogni fessura dagli sbuffi del vento, dal volo delle zanzare e dai raggi della luna. Una rabbia indeterminata, che gli era cresciuta dentro, esplose tutt’a un tratto: trasse la spada dal fodero, l’afferrò a due mani, l’avventò in aria con tutte le forze contro ogni pipistrello che s’abbassava. (CI, p. 963)
Perfino l’aspetto ibrido dei pipistrelli, misto tra topo e volatile, genera ancora la rabbia indistinta del cavaliere inconsistente, la cui armatura svela le proprie fragilità lasciandosi attraversare dal vento. Lo sguardo ambivalente di Agilulfo sembra essere condiviso anche da Rambaldo, proprio nel momento in cui i cavalieri dovrebbero apparire più infallibili, ovvero poco prima della battaglia:
Era suonata la sveglia. Il campo, nella prima luce, pullulava d’armati. Rambaldo avrebbe voluto mischiarsi a quella folla che a poco a poco prendeva forma di drappelli e compagnie inquadrate, ma gli pareva che quel cozzar di ferro fosse come un vibrare d’elitre d’insetti, un crepitio d’involucri secchi. Molti dei guerrieri erano chiusi nell’elmo e nella corazza fino alla cintola e sotto i fiancali e il guardareni spuntarono le gambe in brache e calze, perché cosciali e gamberuoli e ginocchiere si aspettava a metterli quando si era in sella.
Le gambe, sotto quel torace d’acciaio, parevano più sottili, come zampe di grillo; e il modo che essi avevano di muovere, parlando, le teste rotonde e senz’occhi, e anche di tener ripiegate le braccia ingombre di cubitiere e paramani era da grillo o da formica; e così tutto il loro affaccendarsi pareva un indistinto zampettio d’insetti. In mezzo a loro, gli occhi di Rambaldo andarono cercando qualcosa: era la bianca armatura di Agilulfo che egli sperava di rincontrare, forse perché la sua apparizione avrebbe reso più concreto il resto dell’esercito, oppure perché la presenza più solida che egli avesse incontrato era proprio quella del cavaliere inesistente. (CI, p. 968)
La natura ibrida dei paladini, corpo e armatura, si svela chiaramente attraverso questi momenti preparatori dello scontro; la parte corporea si disumanizza, diviene più simile a quella degli animali: piccole zampette d’insetti reggono il catafalco della armatura.[26] Più tardi perfino l’amata Bradamante viene descritta dal giovane innamorato come un incrocio tra crostaceo e donna, invertendo però i termini del paragone: l’armatura assume le fattezze di un organismo animale e invece il corpo che si mostra è quello della avvenente guerriera. Qui Calvino si diverte a giocare con la tradizione dei poemi cavallereschi, nei quali solitamente il disvelamento delle amazzoni avviene attraverso la caduta o la privazione dell’elmo.[27]
Giunse al greto, affacciò il capo tra le foglie: il guerriero era là. La testa e il torso erano ancora racchiusi nella corazza e nell’elmo impenetrabili, come un crostaceo; ma s’era tolti i cosciali i ginocchietti e le gambiere, ed era insomma nudo dalla cintola in giù, e correva scalzo sugli scogli del torrente. Rambaldo non credeva ai suoi occhi. Perché quella nudità era di donna: un liscio ventre piumato d’oro, e tonde natiche di rosa, e tese lunghe gambe di fanciulla. Questa metà di fanciulla (la metà di crostaceo adesso aveva un aspetto ancor più disumano e inespressivo) si girò su se stessa, cercò un luogo accogliente, puntò un piede da una parte e l’altro dall’altra di un ruscello, piegò un poco i ginocchi, v’appoggiò le braccia dalle ferree cubitiere, protese avanti il capo e indietro il tergo, e si mise tranquilla e altera a far pipì. Era una donna di armoniose lune, di piuma tenera e di fiotto gentile. Rambaldo ne fu tosto innamorato. (CI, 989-90)
Per Rambaldo dunque l’unico a non incorrere in questa spiacevole condizione di ibrido o di semi-metamorfosato è Agilulfo: l’assenza di un corpo o il completamento della trasformazione in pura armatura conferiscono al cavaliere inesistente la consistenza più solida. L’annullamento della componente corporea però non ha nulla a che vedere con l’inevitabile processo organico della morte. L’elisione della corporeità non corrisponde con la sua fine biologica, come emerge chiaramente dal virtuosistico dialogo con i morti che Calvino costruisce in seguito alla battaglia:
Agilulfo trascina un morto e pensa: «O morto, tu hai quello che io mai ebbi né avrò: questa carcassa. Ossia, non l’hai: tu sei questa carcassa, cioè quello che talvolta, nei momenti di malinconia, mi sorprendo a invidiare agli uomini esistenti. Bella roba! Posso ben dirmi privilegiato, io che posso farne senza e fare tutto. Tutto – si capisce – quel che mi sembra più importante; e molte cose riesco a farle meglio di chi esiste, senza i loro soliti difetti di grossolanità, approssimazione, incoerenza, puzzo. È vero che chi esiste ci mette sempre anche un qualcosa, una impronta particolare, che a me non riuscirà mai di dare. Ma se il loro segreto è qui, in questo sacco di trippe, grazie, ne faccio a meno. Questa valle di corpi nudi che si disgregano non mi fa più ribrezzo del carnaio del genere umano vivente». (CI, p. 998)
Il corpo si trasforma in carcassa, contenitore che non vale la pena invidiare a coloro che lo possiedono o meglio a coloro che sono tutt’uno con esso, e che da tale carcassa ereditano grossolanità e incoerenze.[28] Ecco che l’assenza della carne torna a essere una scelta di purezza, di estraneità alla prevedibile fallibilità di un sacco di trippe, vivo o morto, ma parimenti imperfetto. Lo scioglimento della storia però sembra puntare in altra direzione e soprattutto condurre all’assunto che tale desiderio di incontaminata purezza sia ugualmente imperfetto. Temendo di aver perso l’unica vera certezza sulla quale ha costruito la propria identità, ovvero il nome e i titoli, Agilulfo si vede costretto a sparire. Lascia la nuda armatura, come un guscio vuoto, in eredità al giovane Rambaldo; le parti che la compongono sono sparpagliate ai piedi di una quercia come quelle di Orlando che, in preda alla follia, si priva degli attributi cavallereschi:[29]
Tratteneva il fiato. Giunse a una radura. Ai piedi d’una quercia, sparsi in terra, erano un elmo rovesciato dal cimiero color dell’iride, una corazza bianca, i cosciali i bracciali le manopole, tutti insomma i pezzi dell’armatura di Agilulfo, alcuni disposti come nell’intenzione di formare una piramide ordinata, altri rotolati al suolo alla rinfusa. Appuntato all’elsa della spada, era un cartiglio: «Lascio questa armatura al cavaliere Rambaldo di Rossiglione». Sotto c’era un mezzo svolazzo, come d’una firma cominciata e subito interrotta. – Cavaliere! – chiama Rambaldo, rivolto verso l’elmo, verso la corazza, verso la quercia, verso il cielo, – Cavaliere! Riprendete l’armatura! Il vostro grado nell’esercito e nella nobiltà di Francia è incontestabile! – E cerca di rimettere insieme l’armatura, di farla stare in piedi, e continua a gridare: – Ci siete, cavaliere, nessuno può più negarlo, ormai! – Non gli risponde alcuna voce. L’armatura non sta su, l’elmo rotola in terra. – Cavaliere, avete resistito per tanto tempo con la vostra sola forza di volontà, siete riuscito a far sempre tutto come se esisteste: perché arrendervi tutt’a un tratto? – Ma non sa più da che parte rivolgersi: l’armatura è vuota, non vuota come prima, vuota anche di quel qualcosa che era chiamato il cavaliere Agilulfo e che adesso è dissolto come una goccia nel mare. (CI, pp. 1056-57)
Proprio quando potrebbe rivendicare la propria esistenza contro ogni obiezione, Agilulfo scompare: il crostaceo è svuotato e l’ingombrante eredità dell’armatura passa in mano al giovane cavaliere e al suo vitalismo ostinato. Per poter superare la pericolosa dicotomia tra uomo e corazza, anch’essa deve però subire una metamorfosi, deve perdere il purissimo e perfetto candore:
Rambaldo esce dalla battaglia vittorioso e incolume; ma l’armatura, la candida intatta impeccabile armatura di Agilulfo adesso è tutta incrostata di terra, spruzzata di sangue nemico, costellata d’ammaccature, bugni, sgraffi, slabbri, il cimiero mezzo spennato, l’elmo storto, lo scudo scrostato proprio in mezzo al misterioso stemma. Ora il giovane la sente come l’armatura sua, di lui Rambaldo di Rossiglione; il primo disagio provato a indossarla è ormai lontano; ormai gli calza come un guanto. (CI, p. 1058)
Lo scontro con la vita, le ammaccature e i graffi che l’esistenza infligge all’essere umano consentono il ricongiungimento finale tra armatura e corpo. Dal vuoto di Agilulfo e dal puro candore della sua corazza si può passare al pieno del giovane corpo di Rambaldo, che esiste dentro un nuovo involucro meno perfetto, ma che merita ugualmente l’amore di Bradamante:
È questo il momento di dirle: «Non sono Agilulfo, l’armatura di cui ti innamorasti guarda ora come risente della gravezza d’un corpo, ancorché giovane e agile come il mio. Non vedi come questa corazza ha perso il suo inumano candore ed è diventata un abito dentro il quale si fa la guerra, esposto a tutti i colpi, un paziente e utile arnese?». (CI, p. 1059)
La metamorfosi è avvenuta, adesso corpo e armatura possono convivere insieme senza che l’uno sia zavorra per l’altra, divenendo un tutt’uno inseparabile e armonico.
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1 In merito alle pratiche di autocommento si veda, per uno sguardo d’insieme sulla questione, M. Berisso, S. Morando, P. Zublena (a cura di), L’autocommento, atti della giornata di studi (Genova, 16 maggio 2002), Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004; insieme alla special issue ‘Self-reflection in Italian literature’, ed. by O. Santovetti, The Italianist, XXXV, 2015, n. 3.
2 I. Calvino, ‘Postfazione ai Nostri antenati (Nota 1960)’, in Id., Romanzi e Racconti, edizione diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto. Prefazione di J. Starobinski, I, Milano, Mondadori, p. 1210. In assenza di diverse indicazioni, tutti i corsivi contenuti nelle citazioni dagli scritti di Calvino sono da intendere come miei.
3 Sull’origine iconica della scrittura calviniana, benché ormai in molti abbiano affrontato l’argomento, rimangono imprescindibili le considerazioni di M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 1996; a cui affiancare almeno F. Ricci, Painting with Words, Writing with Pictures. Word and Image in the Work of Italo Calvino, Toronto-Buffalo-New York, University of Toronto Press, 2001. Più nello specifico sulla visività nella trilogia cfr. S. Zangrandi, ‘Segni visivi e percorsi linguistici in I nostri antenati di Italo Calvino’, Sinestesie, VII, 2009: http://www.rivistasinestesie.it/tuttaletteratura/zangrandi_calvino.pdf.
4 I. Calvino, ‘Postfazione ai Nostri antenati (Nota 1960)’, pp. 1213-14.
5 Si ha conferma della efficace pregnanza iconica dei tre romanzi anche grazie alle numerose edizioni illustrate e trasposizioni visive che della trilogia sono state fornite nel corso del tempo. Si pensi, ad esempio, alle edizioni della collana per ragazzi di Mondadori (Oscar junior), che vanta tra i suoi illustratori artisti del calibro di Lele Luzzati, per Il visconte dimezzato, Maria Enrica Agostinelli, per Il barone rampante e Federico Maggioni, per Il cavaliere inesistente. O ancora alla trasposizione visiva della trilogia realizzata da Aurora Ghielmini (http://www.auroraghielmini.com/); al Barone rampante di Yan Nascimbene, il quale ha anche dato conto della sua esperienza di illustratore delle opere di Calvino (cfr. Y. Nascimbene, ‘Italo Calvino. La vérité de l’image’, Italies, XVI, 2012, pp. 429-438 (https://italies.revues.org/4475). Si potrebbero fare molti altri esempi; per brevità mi limito a ricordare l’adattamento filmico del Cavaliere inesistente di Pino Zac (1971), su di esso rimando a P.P. Argiolas, ‘Animazione di un’armatura. Il cavaliere inesistente di Italo Calvino e Pino Zac’, Between, II, 2012, 4 (http://ojs.unica.it/index.php/between/article/view/818) e A. Boulé-Basuyau, ‘L’image au pied de la lettre? Il cavaliere inesistente de Pino Zac’, Italies, XVI, 2012, pp. 493-515 (https://italies.revues.org/4545); e infine il recente volume di sole illustrazioni dedicato da Roger Olmos al Barone rampante (Roger Olmos, Cosimo, Modena, logosedizioni, 2016). Mi riservo di ritornare in un prossimo contributo sulla questione delle metamorfosi corporee della trilogia in relazioni alle trasposizione iconiche ad essa ispirate.
6 Ivi, p. 1216.
7 Ivi, p. 1219.
8 I. Calvino, ‘Lezioni americane’, in Id., Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, I, Milano, Arnaldo Mondadori, 1995, pp. 628-735: 704.
9 Ibidem.
10 In merito al tema delle limitazioni o mutilazioni del corpo e alla sua presenza nella letteratura fantastica tra Otto e Novecento rimando a V. Roda, ‘Riflessioni su un tema del fantastico: la crisi dell’unità del corpo’, in Id., Studi sul fantastico, Bologna, Clueb, 2009, pp. 107-128.
11 Sulla rilevanza della corporeità all’interno dell’ultimo romanzo della trilogia ha già posto l’accento J. Obert, ‘L’écriture du corps dessiné dans “Il cavaliere inesistente”’, Italies, XVI, 2012, pp. 49-76 (https://italies.revues.org/4383).
12 Cfr. F. Serra, Calvino, Roma, Salerno, 2006, pp. 156-160.
13 I. Calvino, ‘Postfazione’, p. 1218.
14 «Suor Teodora è la figura alla quale Calvino ha delegato (per oggettivarla e per liberarsene) la propria parte di scrittore» (J. Starobinski, ‘Prefazione a Italo Calvino’, in I. Calvino, Romanzi e racconti, pp. XI-XXXIII: XVII).
15 Tutte le citazioni sono tratte da I. Calvino, ‘Il cavaliere inesistente’, in Id., Romanzi e racconti, I, pp. 953-1064 = CI.
16 In merito alla funzione delle zone proemiali nei poemi cavallereschi si veda la recente ricostruzione di A.R. Ascoli, ‘Proemi’, in Lessico critico dell’Orlando furioso, a cura di A. Izzo, Roma, Carocci, 2017, pp. 341-365. Aveva già accennato alla prossimità tra le riflessioni metanarrative affidate a Teodora e i proemi ariosteschi M. McLaughlin, Italo Calvino, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1998, p. 45; più di recente lo studioso è ritornato sui rapporti tra le opere calviniane e quelle ariostesche in Id., ‘«C’è un furto con scasso in ogni vera lettura». Calvino’s Thefts From Ariosto’, Parole rubate, VII, giugno 2013, n. 7, pp. 139-163. Più in generale sui rapporti tra Il cavaliere inesistente e la letteratura cavalleresca si veda B. Huß, ‘Il cavaliere intertestuale: Intertextuelle Relationen zwischen Italo Calvino und Ludovico Ariosto’, Romanische Forschungen, CXIII, 2001, 3, pp. 320-351; e A. Boule-Basuyau, ‘Calvino et la littérature chevaleresque: Pulci, Boiardo, l’Arioste et les autres... dans Il cavaliere inesistente’, in Diffusion et réception du genre chevaleresque, a cura di D. Fratani e J.L. Nardone, Toulouse, Presses de l’Université de Toulouse-Le Mirail, 2005, pp. 269-293.
17 Propone di leggere anche la figura di Suor Teodora attraverso la lente del corpo e della sua rappresentazione F. Scrivano, Calvino e i corpi. Il peso dell’immateriale, Perugia, Morlacchi, 2008, pp. 59-89. Si noti inoltre che Lene Waage Petersen per sottolineare le doti ecfrastiche della prosa di Calvino ha parlato di «corporalità del testo» (cfr. L. Waage Petersen, ‘L’immagine scritta: il significato della visibilità?, (numero monografico Italo Calvino. Dipingere con parole, scrivere con immagini, a cura di L.Waage Petersen e B. Grundtving), Nuova prosa, XLII, 2005, p. 31.
18 I. Calvino, ‘Il barone rampante’, in Id., Romanzi e racconti, I, pp. 547-777: 776-777.
19 Come si vedrà più avanti, anche la penna di Teodora in più luoghi «corre», proprio come un organismo antropomorfo dotato di gambe che lo sorreggono e sospingono in avanti.
20 In merito alla scrittura quale ricamo cfr. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, pp. 65-68.
21 Sulla straordinaria rilevanza dell’aggettivazione nella prosa calviniana cfr. P.V. Mengaldo, ‘Aspetti della lingua di Calvino’, in Id., La tradizione del Novecento. Terza serie, Torino, Einaudi, 1991, pp. 227-291.
22 «Il racconto del Cavaliere inesistente è una “carta geografica” e la narratrice ci rivela che solo dopo aver riempito pagine e pagine comincia il vero svolgimento della storia, che è quello che s’inscrive sulla superficie del foglio sotto forma di segno, poiché la storia deve trovare il suo ordine, un suo “disegno”, ben leggibile e bel comprensibile» (M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, p. 66).
23 Calvino ha efficacemente sottolineato la rilevanza del movimento nel poema ariostesco: «Fin dall’inizio il Furioso si annuncia come il poema del movimento, o meglio, annuncia il particolare movimento che lo percorrerà da cima a fondo, movimento a linee spezzate, a zig zag» (I. Calvino, ‘Ariosto: la struttura dell’Orlando Furioso’, in Id., Saggi 1945-1985, p. 762.
24 Si noti la maggiore pregnanza conferita alla descrizione dall’aggettivo letterariamente desueto.
25 In altri luoghi del romanzo Calvino ricorre al filtro dell’ironia per marcare le imperfezioni che contraddistinguono la fisicità dei soldati. Si pensi all’inizio della battaglia, quando una scena letterariamente connotata da una tradizione alta, viene rapidamente ‘abbassata’ dalla tosse da cui sono colti i soldati a causa del polverone sollevato dai cavalli: «Il segno che era cominciata la battaglia fu la tosse. Vide laggiù un polverone giallo che avanzava, e un altro polverone venne su da terra perché anche i cavalli cristiani s’erano lanciati avanti al galoppo. Rambaldo incominciò a tossire; e tutto l’esercito imperiale tossiva intasato nelle sue armature, e così tossendo e scalpitando correva verso il polverone infedele e già udiva sempre più dappresso la tosse saracina. I due polveroni si congiunsero: tutta la pianura rintronò di colpi di tosse e di lancia» (CI, p. 981). La stessa ironia sembra marcare anche la fine, ai limiti del ridicolo, dell’argalif Isoarre che senza occhiali «è perso» e la cui morte è anticipata dall’andare in frantumi delle lenti (si veda CI, pp. 984-85).
26 Si noti inoltri che già al principio del capitolo III l’intero esercito cristiano era stato paragonato a un grande animale argenteo: «Carlomagno cavalcava alla testa dell’esercito dei Franchi. Erano in marcia d’avvicinamento; non c’era fretta; non s’andava tanto svelti. Attorno all’imperatore facevano gruppo i paladini, frenando per il morso gli impetuosi cavalli; e in quel caracollare e dar di gomito i loro argentei scudi s’alzavano e s’abbassavano come branchie d’un pesce. A un lungo pesce tutto scaglie somigliava l’esercito: a un’anguilla» (CI, p. 971).
27 Cfr. M. McLaughlin, ‘«C’è un furto con scasso in ogni vera lettura». Calvino’s Thefts From Ariosto’, p. 147.
28 Sul dialogo con i morti che dopo la battaglia intessono Agilulfo, Rambaldo e Gurdulù e sulla centralità che il corpo vi assume cfr. N. Longo, ‘Il peso dell’imponderabile. Lettura del Cavaliere inesistente di Italo Calvino’, in Id., Letture novecentesche. Zeno, Agilulfo, Carlo Levi, Roma, Bulzoni, 2001, pp. 101-165: spec. 124-129.
29 Cfr. L. Ariosto, Orlando furioso, introduzione e commento di E.Bigi, a cura di C. Zampese, indici di Piero Floriani, Milano, BUR Rizzoli, 2012, (canto XXIII, 132, vv. 7-8 - 134), p. 790.