Per una metamorfosi della storia: utopie e rivoluzioni nel contro-cinema di Franco Angeli

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I film di Franco Angeli, realizzati tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, sono ancora poco esplorati. Il loro carattere frammentario e lacune documentative ne rendono difficile la ricostruzione. Questo studio, che attinge ad opere e testi inediti, fa luce sulla complessità della ricerca cinematografica dell’artista inserendola nel più ampio panorama del suo percorso creativo. L’analisi traccia dunque una linea che dalla tecnica della velatura pittorica, che Angeli elabora a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta, arriva a quella della sovraimpressione cinematografica. Se la prima immergeva il simbolo - svastiche, falci e martello, lupi capitoline, ‘mezzi dollari’ - nella densità della storia, la seconda attiva il controtempo della relazione tra soggetto e mondo per aprire a nuove possibilità del reale. Per entrambe si tratta di far emergere i fantasmi che increspano la superficie del presente. L’immagine subisce allora un continuo processo di stratificazione, che è luogo della memoria e spazio di trasformazione e metamorfosi del reale.  

Franco Angeli's films, made between late 1960s and early 1970s, are still unexplored. Their fragmented character and documentary gaps make reconstruction difficult. This study, which draws on unpublished works and documents, sheds light on the complexity of the artist's film research and connects it with the widest picture of his creative path. The analysis thus traces a line that from the technique of veiling, which Angeli develops between 1950s and 1960s, comes to that of cinematic double exposure. If the former plunged symbols - swastikas, sickles and hammer, capitoline wolves, 'half dollars’ - into the density of history, the latter activates the relationship between subject and world opening new possibilities of the real. The image thus makes the phantoms emerge to ripple the surface of the present: a continuous stratification process that is the place of the memory and the space of transformation and metamorphosis of the real.

 

Fare il cinema come atto di ribellione e di liberazione individuale; rigettarlo attraverso il disprezzo per raggiungere la capacità di amarlo. 

Franco Angeli, dattiloscritto inedito[1]

 

 

1. Le lacrime delle cose o la materia della memoria

«Non le cose ma le lacrime delle cose».[2] Così Cesare Vivaldi, nel 1960, descrive le opere monocrome che Franco Angeli presenta nella sua prima personale alla galleria La Salita di Roma, dove strati di bende trasparenti – calze di nylon, garza – [3] s’impongono su un colore di fondo creando un’immagine stratificata, complessa. Il dialogo con Burri, che Angeli aveva conosciuto tramite lo scultore Edgardo Mannucci, è già entrato in un territorio di superamento dell’informale dove la materia si alleggerisce nella trasparenza della velatura e il trauma rivive nella leggerezza di un’eco «innestando», come nota Luca Massimo Berbero, «un nuovo rapporto tra peso della materia e levità della percezione».[4] Ferite o memoria delle ferite? Continua Vivaldi:

Rotto lo schema informale burriano, attraverso il velo sottile ma tenace della materia, Angeli recupera pazientemente – mille volte interrompendosi, perdendo la traccia e tosto riconquistandola – le ‘forme’ del suo sentimento. Una difficile impresa, poiché una volta afferrata la forma si dissolve, non ne rimane che l’impalpabile alone: polvere d’ali, nostalgia, ‘assenza’.[5]

Un’assenza che tuttavia torna a turbare il presente, come i simboli comunisti e nazi-fascisti che a partire dai primi anni Sessanta Angeli inserisce nelle sue opere. Per lui, nato in una famiglia di salde convinzioni socialiste e antifasciste, che aveva vissuto da bambino l’occupazione tedesca e la liberazione americana, la strada è lo spazio di una memoria dove trauma, storia e ricordi d’infanzia si mescolano in suggestioni visive:

I camion americani erano colmi di scatolame e per noi era un gioco arrampicarsi e portare via il cibo necessario che andavamo a consumare in mezzo ai ruderi Romani, nel mausoleo di Augusto. Il contatto quotidiano e notturno con i Monumenti riemerse quando iniziai a fare i primi quadri: le Aquile, le Lupe, i ruderi, le lapidi appartenute alla mia infanzia facevano parte della mia memoria visiva, della mia cultura passata e presente.[6]

Una particolare variazione di quella ‘pittura di reportage’, per usare la definizione di Maurizio Calvesi, che non attinge alle immagini di massa della contemporaneità ma piuttosto a quelle che affiorano, in filigrana, dal passato. Come nota Nello Ponente nel 1964, anno in cui Angeli presenterà una delle sue opere più note, La lupa, a un’accesa Biennale di Venezia che assisteva inerme al dominio della Pop Art americana:

E però Angeli non si cura tanto della simbologia oppressiva del neocapitalismo, delle immagini forzatamente convincenti propagandate dall’economia di consumo, ma ne cerca altre, più mitiche ma non per questo meno pericolose. Le ripropone all’attenzione e, attraverso la sovrapposizione di velature distinte e altrimenti colorate, crea una pausa sufficiente per indurre ad una riflessione.[7]

La velatura è allora strumento che svela e nasconde allo stesso tempo, dando forma visiva alla distanza temporale e creando un’apertura che permette al passato di riaffiorare per trasformare il presente. È la storia come ʻjetztzeitʼ, quel «tempo riempito dell’adesso» in cui Walter Benjamin rintraccia, attraverso il «salto dialettico»,[8] possibilità rivoluzionarie.

Potremmo dire che Angeli compie un salto dialettico quando coglie l’attualità di simboli che nel decennio del benessere e della nuova società dei consumi apparivano sbiaditi e fuori tempo. Come nota ancora Ponente: «[Angeli] resta in contatto dialettico con i simboli e con le immagini, li sottrae all’abitudine e al conformismo».[9] Così in Napoleone (1963) la svastica nazista si stampa sulla bandiera francese insieme alla mezza luna e alla stella dell’Algeria libera, a ricordare la violenza di un imperialismo che impedisce l’autodeterminazione dei popoli, mentre la lupa capitolina, forse il simbolo più noto che il regime fascista ha preso in prestito dall’immaginario dell’antica Roma, porta in superficie, come un perturbante, il filo che lega la democratica società del dopoguerra alla dittatura del Ventennio.[10] D’altra parte, come ci ricorderà nella sua serie Half Dollar di poco successiva, è l’aquila a stamparsi sul retro della storica moneta americana da 50 pences, che già nel 1965 aveva sul fronte il volto di J.F. Kennedy. Nota a questo proposito Maurizio Fagiolo dell’Arco:

Ecco l’‘half dollar’ americano, con l’aquila inquietante […]. Tragica sinfonia per un massacro, non certo di ‘half dollars’ ma di simboli di potenza e giovinezza eterna: e l’allusione alle mitologie presidenziali USA, presto troncate, non potrebbe essere più chiara. Ma poi, è soltanto un caso il fatto che l’aquila sia simbolo del potere costituito ma anche leitmotiv dei nuovi miti del ‘Ku Klux Klan’?[11]

Stratificazioni, velature, sovrapposizioni e accostamenti sono allora gli strumenti che l’artista utilizza per interpretare il presente come spazio di una memoria inquieta, campitura in cui leggere le tracce di un passato insepolto. Muove in questa direzione anche l’interpretazione di Calvesi, che a questo proposito scrive:

Tutti infatti li leggeva questi simboli, e rileggeva attraverso il velo del tempo, con le sbavature, gli scolorimenti, le mutilazioni, dunque identificando la propria azione di ‘velare’ e allontanare con quella stessa del tempo, del tempo dell’esistenza e della storia come tutt’uno, come distanza che ogni cosa riconfonde dopo aver ciclicamente riproposto […]; del tempo esistenziale della storia così eternamente e bonariamente rappreso sui muri di Roma, ma così dilatato (‘urbi et orbi’) come un grande manto coprente di polvere, anche sullo spazio del mondo.[12]

Calvesi accenna chiaramente allo spazio murale, supporto che la pittura di Angeli ha evocato anche attraverso alcuni dei suoi dipinti monocromi con una stesura di colore disomogeneo a richiamare gli strati e i passaggi di intonaco, inserendosi così in una tendenza che da Cy Twombly — stabile nella capitale italiana dalla metà degli anni Cinquanta — approdava ai décollages di Mimmo Rotella.

Nella città dove più emergono le tracce della storia, il muro è infatti il campo da gioco di una partita millenaria. Residuo di antichi splendori e testimone di più recenti traumi, è il luogo dove si attivano le operazioni di ricostruzione e negoziazione identitaria, dove stratificazioni, cancellazioni, impressioni si mischiano come echi di tempi remoti. È lì che il gesto umano intreccia le epoche; è lì che la storia parla sempre al presente.

 

2. Dal muro allo schermo: il Sessantotto e il cinema come metamorfosi della storia

Non si hanno notizie precise sull’inizio dell’attività cinematografica di Franco Angeli. Quel che è certo, tuttavia, è che uno dei suoi film, Giornate di lettura, è presentato con data 1967 nel primo catalogo della Cooperativa Cinema Indipendente.[13] Nella difficile opera di ricostruzione che la filmografia di Angeli richiede,[14] Giornate di lettura appare come il prezioso tassello di un paesaggio scomposto e pieno di vuoti. Costituita da un montaggio di fotografie tratte da riviste d’attualità e riprese con camera a spalla, l’opera possiede un sapore teorico-saggistico poi abbandonato dai film successivi. Forse prima prova per un medium ancora da esplorare, Giornate di lettura ci aiuta comunque a marcare il percorso di Angeli verso un cinema politico. È l’autore ad offrircene una breve descrizione:

‘Giornate di lettura’ è un recupero di immagini fotografiche raccolte su vari giornali accumulati durante un anno. La condizione di impotenza e di inerzia provata di fronte agli avvenimenti drammatici, il semplice compiacimento verso la notizia, la forte suggestione prodotta dalla fotografia mi ha fatto nascere di conservare le piccole o grandi emozioni che ci vengono fornite ogni giorno dalla stampa.[15]

Il cinema come medium che indaga i media, strumento per addentrarsi a pieno titolo, quasi per omeopatia, in quella società mediale che l’Italia sperimentava con intensità crescente, e che dalla seconda metà degli anni Sessanta porta nella quotidianità levigata dal benessere industriale le increspature del sempre più criticato imperialismo americano. Le immagini drammatiche della guerra del Vietnam, in particolare, stampate su quotidiani e riviste settimanali o trasmesse dalle televisioni, diventano parte di un vocabolario visivo per una contestazione sul punto di esplodere. La stessa società di massa, fino a quel momento raccontata dagli artisti in un terreno anfibio tra fascino e critica, a quel punto diventa chiaro bersaglio di dissenso, dove le immagini strazianti della guerra si fanno spazio su cui imbastire una critica alla società mediale. Se Susan Sontag noterà nel suo Davanti al dolore degli altri che è proprio «da allora [che] le battaglie e i massacri filmati mentre si svolgono sono divenuti un ingrediente abituale dell’incessante flusso di intrattenimento domestico riservatoci dal piccolo schermo»,[16] il sociologo Henri Lefevbre notava già nel 1961 che «nella sua poltrona, l’uomo privato – che non si sente neanche più cittadino – assiste all’universo senza aver presa sull’universo, e senza preoccuparsene. Guarda il mondo. Si mondializza, ma solo in quanto puro e semplice sguardo.» È questo sguardo che abita le pellicole di Angeli. Riproduzione di riproduzione, la sua cinepresa coglie un’immagine che è già, per utilizzare ancora le parole di Lefevbre, «modalità nuova dello sguardo: uno sguardo sociale posato sull’immagine delle cose, ma ridotto all’impotenza, alla detenzione di una falsa coscienza e di una quasi-conoscenza, alla non partecipazione».[17] Un’impotenza che Angeli scova rivelando il carattere labile dell’immagine: infatti nonostante l’immobilità del medium fotografico questa sfugge perennemente; sfocata, sgranata, sbilenca, tagliata, l’immagine resiste allo sguardo meccanico. Eppure è proprio in questa resistenza che lo scarto tra immagine e realtà prende forma, rivelando di quest’ultima le proprietà trasformative. È solo l’inizio; negli anni dell’esplosione in Italia del cinema indipendente e d’artista, Angeli intraprenderà un dialogo serrato, non senza conflitti, con la macchina da presa.

È il 1968 l’anno che marca una svolta. Anno carico di eventi, ‘anno lungo’ nell’ormai nota definizione storiografica,[18] il 1968 a Roma è l’inizio di una rivoluzione che dalle università approda alle gallerie. Se a marzo i manifestanti si scontrano con la polizia nella nota Battaglia di Valle Giulia, a ottobre il gallerista Fabio Sargentini organizza la mostra Ginnastica mentale, «tentativo di trasformare il luogo ‘galleria d’arte’ in un altro luogo, nel caso specifico una palestra di ginnastica (invito al movimento)»,[19] mentre a maggio la galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis aveva ospitato Il teatro delle mostre, nove giorni di performance e ambienti di nove artisti diversi. E se sono vere le parole di Alberto Grifi, secondo il quale «il Sessantotto non ha prodotto arte perché l’arte vera era essere movimento»,[20] cosa può esserci più del cinema per cogliere il flusso della rivoluzione, di una realtà rimessa in circolo, restituita al tempo della vita individuale e collettiva?

È proprio nel contesto della mostra organizzata da De Martiis che Angeli realizza Opprimente,[21] opera purtroppo andata perduta e parte di un’installazione ambientale. Erano i caldi giorni del maggio francese e Angeli scelse, nella cornice dissacrante di un evento dall’identità ibrida e mutante, metà spettacolo e metà arte – «un pasticcio» come lo definì Goffredo Parise –,[22] di allestire uno spazio scomodo, faticoso, inospitale. Opprimente era a tutti gli effetti un ambiente, dove Angeli si era limitato ad abbassare il soffitto della stanza della galleria e registrare la reazione del pubblico con una macchina da presa piccolo formato fissata a un cavalletto. Forse l’avrebbe fatto con una telecamera a circuito chiuso se i tempi fossero stati maturi, amplificando l’effetto di smarrimento con la percezione straniante del tempo reale.[23] L’opera non è solo, come noterà Fernanda Pivano in un articolo dell’anno successivo, «l’intenzione di capovolgere un rapporto tradizionale […] riprendendo il pubblico anziché gli oggetti esposti»,[24] ma si configura anche come atto di trasformazione del reale, dove l’invisibile diviene visibile e riemerge il nascosto. Nel collocare il pubblico in uno spazio angusto, asfittico, ‘opprimente’, dove la presenza di una cinepresa funge da elemento di controllo e allo stesso tempo di spettacolarizzazione, Angeli compie il gesto rivoluzionario della rivelazione.

È la società dello spettacolo che l’anno prima Guy Debord aveva descritto nel suo omonimo testo e che l’artista romano attaccava, in quegli anni, nei suoi appunti contro il cinema commerciale:

Lo schermo è un’emanazione del parassita della distanza. Siamo stati allenati a incontrarci fuori, attraverso le immagini. Lo specchio fottuto ci cresce addosso. […] Non ci sono uscite di sicurezza. Adesso fuori, mentre prendono il morto per la testa e per i piedi e mi trascinano.[25] 

Una società da combattere in un atto di consapevolezza che passa attraverso il disagio dello svelamento:

Nella società degli uomini la verità ormai non consiste tanto in ciò che le cose sono, quanto in ciò che esse non sono. Al lume dell’esiliata verità le nostre verità sociali appaiono decisamente brutte e la bellezza è quasi impossibile se non è menzogna. 
Che fare? Noi che siamo ancora vivi per metà e abitiamo nel cuore, dal battito (credo) spesso alterato, di un decrepito capitalismo, possiamo fare qualcosa di meglio che riflettere lo sfacelo che è fuori e dentro di noi, e che cantare la nostra tristezza e amare canzoni di disinganno e di sconfitta? 
Ciò che ci abbisogna oggi, ciò in cui abbiamo fallito ieri, è la stessa cosa: fornire un resoconto umano sull’uomo che sia interamente autoconsapevole ed autocritico.[26] 

Ecco allora il senso di restituire al pubblico l’esperienza diretta di un cinema che coglie la realtà nel suo farsi, la seziona e ne rileva, se deve, la vacuità e l’inconsistenza. Cinema impietoso, scomodo, dissacratorio, dirompente e che pure attiva la scintilla della trasformazione.

Appena sei mesi dopo Angeli è a New York. Traccia della sua breve permanenza è Lo spirito delle macchine,[27] proiettato per la prima volta alla Biennale del 1970. «Sinfonia urbana alla fine dell’era meccanica», per citare la nota mostra che ne ispira il titolo,[28] il film è forse il più documentato tra quelli realizzati dall’artista romano. Così lo presentano le sue stesse parole:

Lo ‘Spirito delle Macchine’ è il risultato della mia breve permanenza, avida e solitaria, nella città americana della grande mela. Il titolo è stato suggerito dalla mostra al Museum of Modern Art (The Machine). Partendo da un’immagine di Marcel Duchamp, Rotary Demisphere, la pellicola ripercorre in modo ‘onirico’ un itinerario tracciato nella memoria durante l’adolescenza, quando l’America ce la immaginavamo, avendola vista attraverso le cinematografiche, moderna, dinamica, esaltante, fondamentalmente felice. Lo stesso itinerario, fatto di immagini di vecchi film che la TV ritrasmette ogni notte, il dinamismo delle voci pubblicitarie, la fretta delle persone nella strada, il culto dell’arte danno in realtà un risultato opposto, cioè che questa New York è una città preistorica, che il suo dinamismo è nevrotico, che l’esaltazione è una forma di follia inutile, che gli uomini sono in realtà profondamente infelici.[29]

New York con le sue strade affollate, i locali frenetici, le parate di un allunaggio annunciato, la violenza delle parole di Nixon nei piccoli schermi, ma anche la stanza del Chelsea Hotel abitata dalla sensualità di corpi femminili, la TV che trasmette senza interruzioni e illumina le notti, gli atelier degli artisti, le avanguardie europee – Duchamp, De Chirico, Léger – tra le stanze del MoMA. Quarantacinque minuti di colori e suoni in 16mm, dove l’immagine si assottiglia, si dissolve, si trasforma in quella «profondità di tempo»,[30] per utilizzare l’espressione che Sandra Lischi formula a proposito della metamorfica immagine elettronica, data dall’uso continuo e sapiente della sovraimpressione. Risiede lì, in quell’intreccio di immagini che sfida la linearità del tempo, la traccia di una memoria impressa che riaffiora. Il cinema di Angeli sembra così rievocare il funzionamento del notes magico descritto da Freud, dove la pellicola di celluloide si fa superficie che accoglie il nuovo ma preserva il vecchio. È questa la resistenza a quell’accelerazione imposta dalla capitale della società dei consumi, dove tutto scorre effimero e labile. È la vecchia Europa, che come un fantasma emerge a dipanare il filo della storia, nel paese, scriveva Calvino all’inizio del decennio, degli uomini che il senso della storia non hanno.[31] Così Angeli scriveva a Plinio De Martiis, suo principale gallerista, nel gennaio del 1969:

Per il momento qui mi trovo bene, forse perché ho ancora la sensazione di trovarmi molto vicino a Roma e di essere qui solo per una vacanza e di potermene andare quando voglio. Probabilmente, se dovessi pensare di vivere qui mi cacherei sotto. Comunque questa città non mi fa paura e credo che ci si possa vivere abbastanza bene se si entra nella mentalità produttiva, cioè lavorare e basta; dimenticarsi completamente che esiste la politica, l’Europa, il Vietnam, la fame e la miseria. Ci si può stare, insomma, in modo assolutamente egoistico approfittando della possibilità che offre il sistema americano evitando di pensare a qualsiasi altra alternativa, altrimenti si impazzisce. Naturalmente la cosa che colpisce di più è l’enorme importanza che ha il denaro, senza il quale è difficile che si venga considerati come una persona con un cervello e dei sentimenti. Una fra le cose che ti assalgono arrivando è la sovrabbondanza di oggetti vecchi, nuovi, roba da mangiare, caramelle, cioccolate. Una vera inflazione da farti venire la nausea e non mangiare più, di non lavorare, non produrre altri oggetti che andrebbero ad inflazionare sempre di più questo spazio già sovraccarico di merce, di gente, di dialetti, di razze, di colori. E tutto ciò ha uno strano senso di morte. Gratti la patina che ricopre ogni cosa e sotto trovi una lapide di un tuo antenato.[32]

Tra gli artisti romani che frequentano la nuova capitale dell’arte occidentale, Angeli è tra gli ultimi ad arrivare e tra i meno integrati. La sua posizione risente certamente dell’ascesa della Pop Art americana e della frattura con le ricerche romane che più le venivano accumunate, tra cui la sua e quella di Schifano, Festa, Fioroni,[33] ma è anche cementata da una posizione politica che oppone l’artista al neocapitalismo statunitense, che aveva ormai allargato le sue braccia sull’intero sistema dell’arte occidentale.[34] Il suo viaggio a New York appare dunque come una tappa obbligata per immergersi nel cuore di una società che ha animato sogni e immaginari, salvo rivelarsi presto il principale motore di quello scollamento tra soggetto e mondo che allora prendeva il termine ricorrente di alienazione. Un viaggio insidioso, quindi, dove la superficie degli oggetti mette a rischio la tenuta etica, dove il carosello delle merci spazza via, con la forza di un ingranaggio, radici, desideri, corpi.

Ecco allora che l’artista romano gratta, per così dire, la superficie della pellicola per consentire al passato di attivare una metamorfosi che soffia sulla superficie del reale donandole lo spessore della vita, la profondità della storia. Non si tratta, tuttavia, di disseppellire i simboli depositati dalla memoria, come era stato per la pittura dei primi anni Sessanta. Si tratta piuttosto di operare un piccolo salto che sposti, come una metafora, i significati di un reale caduto in un vuoto di senso. Angeli infatti sovraimprime spesso immagini colte a poca distanza l’una dall’altra, con ogni probabilità operando una doppia esposizione direttamente in macchina. Non sono quindi le immagini a narrare la metamorfosi possibile, ma è la relazione che intercorre tra loro che attiva, metaforicamente, il cambiamento.

 Franco Angeli, fotogramma da Lo spirito delle macchine (1969), film in 16mm, colore, suono, 45’. Courtesy Archivio Franco Angeli

Non sarà un caso che Angeli scelga di applicare con più intensità la tecnica della sovraimpressione nella sequenza dedicata all’amico Salvatore Scarpitta, con cui aveva condiviso gli esordi romani monocromi e che ormai si era stabilito a New York sotto l’ala di Leo Castelli. Nel riprendere l’artista mentre lavora nel suo atelier-officina alla costruzione delle sue auto da corsa, Angeli ci rivela il mistero dell’arte nel suo compiersi. Tute blu, maschere protettive, saldature e scintille, pareti ricoperte di chiavi inglesi, pinze, lime e morsetti s’intrecciano e trasformano il volto dell’artista dissolto nell’atto creativo. Non era la prima volta che Angeli si cimentava con un cine-ritratto d’artista; lo aveva fatto appena due anni prima a Milano, nello studio di Enrico Castellani. Del film Enrico Castellani (1967, 16mm, B/N, muto, 18’) non si conosce la storia espositiva, eppure è un piccolo capolavoro che ancora una volta si affida alla sovraimpressione per compiere l’unione tra artista, opera e mondo. Castellani è ripreso mentre lavora a una delle sue ‘superfici bianche’. Lo vediamo tirare la tela, piantare i chiodi, creare con meticoloso rigore quella griglia di pieni e di vuoti di cui erano composte le sue opere.

 Franco Angeli, fotogramma da Enrico Castellani (1967), film in 16mm, B/N, muto, 18’. Courtesy Archivio Franco Angeli

Angeli ne accarezza i movimenti, ne isola i dettagli che accosta con la ritmicità di un montaggio costruttivista, e allo stesso tempo li immerge nella geometria modulare delle luci notturne della città, che affiorano come una visione insistente. Città, corpo e opera s’intersecano, non solo a indicare la vocazione ambientale dell’opera — architettura e non più oggetto, spazio abitabile e percorribile —, ma anche a rammentare la presa dell’arte sulla realtà, sul mondo che può e deve cambiare.

 

3. L’utopia del cambiamento: l’immagine metamorfica dal cinema alla televisione

Hanno invece la forma frammentata e non finita degli appunti alcune pellicole che Angeli realizza tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, forse con l’idea di esporle o integrarle in progetti più ampi, mai realizzati. Vi scorrono i gesti minuti dei pomeriggi passati nel suo studio, tra chiacchiere, sorrisi, volute di fumo, caffè, tavoli da lavoro. Vi scorre spesso anche la città di Roma, che sbuca dai vetri delle finestre, dalle vedute di un balcone, tra i corpi in cammino. Al centro dello studio, poggiato direttamente sul pavimento, campeggia sovente un piccolo televisore. Lo schermo trasmette il flusso ininterrotto della storia in diretta: i carrarmati che entrano a Praga, lavoratori e studenti che marciano nei quattro angoli del pianeta, i volti di Mao, Nixon, De Gaulle, i bombardamenti sul Vietnam, ma anche il ciclismo di Gimondi e l’Italia vittoriosa agli Europei di calcio del 1968. Tutto è storia in quel ‘lungo Sessantotto’ che voleva rovesciare il mondo; anche Angeli ripreso mentre parla al telefono indossando un fazzoletto rosso – quello dei partigiani o quello dei maoisti? – ; o il disegno della poltrona inutile di Cesare Tacchi che appare dietro a volti immersi in una conversazione; o Mario Schifano, ripreso assieme a Franco Brocani nella luce estiva di una casa al mare, forse al montaggio di uno dei suoi lungometraggi. Tutto è storia e tutto è seduzione. Le immagini di Angeli indugiano sui corpi illuminati dal sole mediterraneo della calda capitale, accarezzano la plasticità della giovinezza nella luce abbagliante dell’estate, nell’umidità del mare, nel dinamismo delle onde. Più ancora delle sue tele, sono le pellicole a tessere un traboccante amore per la vita; un amore che tuttavia affonda nelle radici politiche del suo partecipare al mondo. Una bandiera, trasposizione di una tela da lui realizzata nei primi anni Sessanta, sventola da un balcone sui tetti di Roma: una costellazione di falci, martelli e stelle sui quali Angeli fa scorrere dettagli di fiori di campo e immagini in campo lungo di cieli, uccelli, tetti, nuvole. Nuovi paesaggi per nuove politiche, dove l’estetica si appropria degli oggetti, vi scivola dentro, e così trasforma l’incontro e il dialogo con l’umano. Il cinema appare per il pittore romano lo spazio dove sperimentare la pratica di una metamorfosi del quotidiano. Solo apparentemente queste immagini entrano in contrasto con quelle che Angeli riprende in Calabria, dove i militanti maoisti dell’Unione dei Comunisti Italiani sono colti a intonare canti collettivi con il pugno alzato, o impegnati in un lavoro agreste che tradisce la nostalgia di un’iconografia sovietica; né appaiono così lontane rispetto a quelle delle bandiere rosse che sventolano in Piazza del Popolo durante le manifestazioni del Primo Maggio. Sono le mille facce della militanza. L’arte o è politica o non è, sembra dirci il pittore romano. La stessa complessità infatti anima la ricerca pittorica di quegli anni, dove a un’estetica neo-oggettuale fatta di corpi e bandiere si affianca la dissoluzione formale di sperimentalismi dada-futuristi. La serie Half Dollar, presentata alla Biennale del 1964, alla fine degli anni Sessanta muta tecniche e linguaggi e assume la forma del collage, del frammento, della ripetizione modernista. L’immagine stampata sulla moneta statunitense è tagliata, scomposta, sovrapposta con l’elemento della griglia che incarna, come nota Rosalind Krauss, «l’impermeabilità del linguaggio»[35] e dunque il «grado zero»[36] dell’arte che cerca di rifondarsi.

 Franco Angeli, Senza titolo (1968), collage e spray su carta. Courtesy Archivio Franco Angeli

È così Senza Titolo, collage e spray su carta, straordinaria opera del 1968 che compare anche in alcune riprese nello studio dell’artista, intrecciata con volti, sguardi, gesti, finestre al tramonto. Il diario filmato si veste di modernismo: da registrazione a metamorfosi della realtà. È evidente qui l’apertura di Angeli alle ricerche spazialiste e cinetiche milanesi, dove la griglia esplode non più, come notava ancora Krauss, in qualità di oggetto «impermeabile al tempo e agli accidenti»[37], ma proprio in funzione della sua «assenza di gerarchia, di centro, di inflessioni»[38], come grammatica del movimento.

 Franco Angeli, fotogramma da Schermi (1968-1969), film in 16mm, B/N, muto, 15’. Courtesy Archivio Franco Angeli

La relazione con le ricerche milanesi è evidente ancora di più nell’opera filmica Schermi (1968-69, 16mm, B/N, muto, 15’), dove la griglia si fa già post-moderna e replica l’unità minima dello schermo TV. Angeli torna alla tematica della sovraesposizione mediale già affrontata in Giornate di Lettura, ma adesso è l’immagine televisiva a catalizzare l’attenzione dell’artista romano. Interesse che certamente condivideva con l’amico e compagno di strada Schifano, le cui pellicole, a partire dal 1967, sono inondate dal flusso ininterrotto di immagini provenienti da schermi televisivi. Non a caso è un televisore l’oggetto che compare in Doppio Ritratto (16mm riversato in video, B/N, muto, 4’), breve pellicola realizzata probabilmente nei primi anni Settanta in cui i due si filmano a vicenda. Ma se l’autore di Umano non umano aveva preferito che la realtà del tubo catodico scorresse davanti al cine-occhio lasciando traccia, attraverso l’interlinea, di un’asincronia che rivela lo scarto mediale tra pellicola e pixel televisivi, Angeli indaga il nuovo medium elettronico con la volontà di svelarne una carica estetica e politica. Come in un détournement situazionista, il flusso di immagini provenienti dai notiziari, dove si alternano la campagna elettorale di Robert Kennedy, le marce del movimento dei neri in America, i volti di conduttori televisivi e leader politici, subisce una continua metamorfosi verso forme irriconoscibili, astratte, tipiche della mancata sintonizzazione della frequenza. Gli schermi si ripetono con variazioni di immagini stagliate su un fondo nero che elimina la cornice del supporto televisivo e le relega in uno spazio onirico e fantasmatico. Narrano l’estetica di un cambiamento che è anche un grado zero, una tabula rasa, un ripartire dal silenzio, dalla pura forma, dall’assenza di riproduzione della realtà, che è presenza di nuove realtà in divenire. Se è vero che l’opera è un film in 16mm, è altrettanto vero che, riprendendo interamente immagini televisive opportunamente desintonizzate per rivelare l’astrattismo dello scorrere dei pixel, Schermi si inserisce a tutti gli effetti nella storia della videoarte italiana. È possibile che Angeli abbia conosciuto, nel suo soggiorno newyorkese, le prime sperimentazioni elettroniche di Nam June Paik, e in particolare le immagini televisive di Nixon distorte con l’azione di un magnete. Quel che è certo è che la sua opera dialoga a distanza con il video di Vincenzo Agnetti e Gianni Colombo, Vobulazione e Bieloquenza NEG, realizzata per il Telemuseo di Eurodomus 3 l’anno successivo. L’opera appare come una videoperformance in cui l’immagine di un perimetro quadrato trasmessa in un cinescopio TV è continuamente distorta da uno strumento elettronico, il ‘vobulatore’, in grado di deformare il segnale televisivo. La fotografia pubblicata come documentazione della performance che rende visibili, in forma di griglia, le diverse forme modulate sul quadrato, ha impressionanti punti di continuità con l’opera di Angeli, a testimoniare la tendenza diffusa, soprattutto in seno alle sperimentazioni cinetiche, di coniugare la fissità della griglia al movimento. Angeli tuttavia non attinge ad alcun strumento esterno per attivare la distorsione dell’immagine televisiva, limitandosi con ogni probabilità a ruotare la manopola del sintonizzatore per creare, nella variazione di frequenza tra una stazione e l’altra, graffitismi astratti di lontana memoria gesturale. Senza rinunciare alla tecnica della sovraimpressione, l’immagine astratta convive con quella di cronaca in una babele visiva che appare come una vera e propria parodia, un controcanto all’etimologia di ‘informazione’, dove il dare diventa piuttosto un togliere forma.

Quel che resta è il gesto, quasi goliardico, infantile, di mettere a soqquadro l’ordine e l’assetto di quel mondo apparentemente controllabile che proponeva la TV. Quel che resta è il cinema come «atto di ribellione»; è la restituzione allo sguardo della sua «presa sull’universo» per attivare, attraverso la metamorfosi dell’immagine, «non le cose, ma le lacrime delle cose».

 


1 Archivio Franco Angeli, Roma.

2 C. Vivaldi, testo di presentazione per la prima mostra personale di Franco Angeli alla galleria La Salita di Roma, gennaio 1960. Il testo è pubblicato ora in L.M. Barbero (a cura di), Franco Angeli. Gli anni ’60, Venezia, Marsilio, 2017, p. 212.

3 Il film Inquietudine, di Mario Carbone (1960) è una straordinaria testimonianza del paziente lavoro di velatura dell’artista attraverso garze e calze di nylon.

4 L.M. Barbero, ‘Simbolo e memoria. Il percorso di Franco Angeli negli anni Sessanta’, in Franco Angeli, p. 20.

5 Ivi, p. 212.

6 F. Angeli, scritto autobiografico, dattiloscritto non datato, Archivio Franco Angeli. Ora pubblicato in L.M. Barbero (a cura di), Franco Angeli,p. 240.

7 N. Ponente, testo di presentazione per la personale di Angeli alla galleria L’Ariete di Milano, 1964. Il testo è pubblicato in forma ampliata in Franco Angeli: novembre-dicembre 1974, catalogo della mostra, Roma, Il collezionista d'arte contemporanea, 1974, pp. 25-58.

8 Scrive Benjamin: «Così, per Robespierre, l'antica Roma era un passato carico di adesso, che egli estraeva a forza dal continuum della storia. La Rivoluzione francese pretendeva di essere una Roma ritornata. Essa citava l’antica Roma esattamente come la moda cita un abito d’altri tempi. La moda ha buon fiuto per ciò che è attuale, dovunque esso si muova nel folto di tempi lontani. Essa è il balzo di tigre nel passato. Solo che ha luogo in un’arena in cui comanda la classe dominante. Lo stesso salto, sotto il cielo libero della storia, è il salto dialettico, e come tale Marx ha concepito la rivoluzione» (W. Benjamin, ‘Tesi di filosofia della storia XVI’, in Id., Sul concetto di storia, Torino, Einaudi, 1997, p. 45).

9 N. Ponente, Franco Angeli, p. 26.

10 Operazione scomoda che Angeli compie in anni di fermento identitario: le Olimpiadi prima e il centenario dell’unità nazionale poi avevano costretto l’Italia a una riflessione sull’autorappresentazione e l’identità nazionale nel contesto di nuovi assetti geopolitici. Ne è esempio il caso dell’animato dibattito sull’opportunità di cancellare le scritte fasciste presenti nel pavimento del Foro Italico in vista delle Olimpiadi. Cfr. su questo V. Vidotto, ‘Il mito di Mussolini e le memorie nazionali. Le trasformazioni del Foro Italico 1937-1960’, in Roma. Architettura e città negli anni della seconda guerra mondiale, Atti della Giornata di studio del 24 gennaio 2003, Roma, Gangemi, 2004, pp. 117-121.

11 Il testo è ora pubblicato in L.M. Barbero (a cura di), Franco Angeli, p. 225.

12 M. Calvesi, Cronache e coordinate di unavventura, in Id. (a cura di), Roma anni ’60. Al di là della pittura, Roma, Carte Segrete, 1990, p. 19.

13 Costituita a Napoli nel 1967 ma già dall’anno successivo trasferita a Roma, la Cooperativa era modellata sull’esempio della Filmmakers’ Cooperative di Jonas Mekas a New York, con la quale si era potuto avere un contatto diretto attraverso il viaggio europeo del suo fondatore nel 1967, che portò con sé alcune pellicole passando da Torino, Firenze, Pesaro. Per circa due anni (nel 1969 già si era sciolta) la CCI rappresentò il terreno privilegiato di sperimentazione e amatorialità dove cineasti provenienti da pratiche pittoriche, scultoree, teatrali, si unirono ad altri che derivavano da ambienti estranei a quello delle arti. Per un’approfondita analisi di pratiche e linguaggi dei principali filmmaker attivi nella CCI cfr. M. Bacigalupo, ʻIl film sperimentaleʼ, numero monografico di Bianco e Nero, 5-8, 1974; B. Di Marino, Sguardo Inconscio Azione: cinema sperimentale e underground a Roma: 1965-1975, Roma, Lithos, 1999.

14 Per le lacune documentative a cui i film di Angeli sono soggetti tutte le filmografie pubblicate finora si devono considerare temporanee e sottoposte a possibili cambiamenti. L’ultima ricostruzione, frutto degli studi di Bruno di Marino e delle mie ricerche dottorali, è pubblicata in L.M. Barbero (a cura di), Franco Angeli, p. 266. Alcune recenti rassegne hanno permesso la visualizzazione di una parte dei film sperimentali dell’artista (in particolare Lo spirito delle macchine, spesso indicato come New York, Schermi, Doppio Autoritratto e Souvenir, video del 1984). Tra queste la mostra Lo Sguardo Espanso. Cinema d’artista italiano 1912-2012 (Catanzaro, Complesso Monumentale di San Giovanni, 30 novembre 2012 - 9 marzo 2013) a cura di B. Di Marino, M. Meneguzzo, A. La Porta; If Arte Povera was Pop: Artists' and experimental cinema in Italy 1960s–70s (Tate Modern, Londra, 23-25 ottobre 2015) e Artapes #3. Doppio Schermo (Roma, MAXXI, 19 settembre - 19 novembre 2017), a cura di B. Di Marino. Tuttavia il corpus di film presenti all’Archivio Franco Angeli e all’Archivio di Stato di Latina, come parte del fondo della galleria La Tartaruga, è molto più ampio ed è costituito da pellicole che, nel mischiare narrazione quotidiana ed esplorazione estetica dell’immagine filmica, si pongono in uno statuto incerto tra racconto privato e opera pubblica, tipico della pratica cinematografica sperimentale.

15 Il testo è contenuto nel primo catalogo della CCI, pp. nn. Archivio Franco Angeli, Roma.

16 S. Sontag, Davanti al dolore degli altri [2003], Milano, Mondadori, 2012, p. 17.

17 H. Lefebvre, Critica della vita quotidiana 2 [1963], Bari, Dedalo, 1977, p. 105.

18 Cfr. tra gli altri A. Bravo, A colpi di cuore. Storie del Sessantotto, Roma, Laterza, 2008.

19 F. Sargentini, R. Lambarelli e L. Masina (a cura di), L'Attico, 1957-1987: 30 anni di pittura, scultura, musica, danza, performance, video, catalogo della mostra, Spoleto, Chiesa di S. Nicolò, 1 luglio – 30 agosto 1987, Milano, A. Mondadori, 1987, p. 136.

20 S. Murri, F. Vatteroni, ‘Quando il tempo non è denaro. Intervista a Alberto Grifi’, Close-Up. Storie della visione, novembre-gennaio 1999, p. 76.

21 Fernanda Pivano indica Gesto come titolo alternativo di Opprimente. Se la sua affermazione fosse attendibile dovremmo considerare i due film, finora ritenuti due opere separate, un’unica opera perduta. Cfr. F. Pivano, ‘Manovelle fuori canale. I filmatori italiani da underground a indipendenti a collettivi’, Domus, agosto 1969, pp. 43-49.

22 Così il romanziere veneto parlava nell’opera audio Conversazione su nastro che chiudeva Il teatro delle mostre: «Il fatto che una mostra, chiamiamola mostra ma non si può più nemmeno chiamarla mostra, duri un giorno, duri una sera… Che poi realtà dura due ore, anche un’ora… Questo… Questa storia qui mi ha molto molto turbato. È la prima cosa in Italia, la cosa più importante oggi in Italia sul piano delle gallerie. Intanto è già il disprezzo della galleria, per cominciare. La galleria come fatto museificante e commerciale. Altro punto: la gratuità della cosa; il fatto che non si possono vendere, che non possono essere fruibili in nessun senso questi… Cosa sono? Come si possono chiamare? Spettacoli? Non è interamente uno spettacolo… Happening? Non è un happening… Non sono né quadri né sculture e insieme tutto questo…. Insomma è un pasticcio» (Trascrizione da nastro conservato presso l’Archivio di Stato di Latina).

23 L’espediente è infatti utilizzato dalle sperimentazioni videoartistiche delle origini. Valga tra tutti l’esempio di Bruce Nauman e del suo Live-Taped Video Corridor (1970), dove le telecamere a circuito chiuso restituivano agli spettatori-performer un’immagine in contrasto con la realtà, svelando la natura ambigua e mistificatrice dei media.

24 F. Pivano, Manovelle fuori canale, p. 49.

25 F. Angeli, dattiloscritto non datato, inedito. Archivio Franco Angeli, Roma.

26 F. Angeli, dattiloscritto non datato, inedito. Archivio Franco Angeli, Roma.

27 Il film è stato finora proiettato con il titolo di New York, con il quale era probabilmente conosciuto in modo informale per l’identificazione con il contenuto. Tuttavia, in occasione delle due proiezioni pubbliche alla Biennale di Venezia del 1970 e alla Quadriennale d’Arte di Roma del 1973, l’opera è indicata come Lo spirito delle macchine.

28 Curata da Pontus Hultén tra il 1968 e il 1969 al MoMA, The Machine as Seen at the End of the Mechanical Age esplorava l’estetica del macchinico tra le sperimentazioni delle avanguardie storiche e le nuove tendenze dell’arte agli albori della post-modernità.

29 L. Ernesto (a cura di), Atti Del Seminario Internazionale Di Studi Sul Cinema Underground, 19-23 maggio1970, La Biennale di Venezia, Venezia 1970, p. 46.

30 S. Lischi, Visioni Elettroniche. L’oltre del cinema e l’arte del video, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, Roma, 2001, p. 22.

31 Inizia così Diario Americano 1960, reportage che Italo Calvino pubblica su Nuovi Argomenti, dicembre 1961 - gennaio 1962, pp. 164-188: «Perché gli americani non hanno il senso della storia? Quando poni loro questa domanda, dicono: “eh già, sì, avete ragione”, come volti da un complesso di inferiorità, e poi ti dicono che l’Europa ha avuto il Medioevo, e loro no, ha avuto i romani e i greci, e loro no, e si mettono a invidiarti i vecchi castelli, le rovine degli acquedotti. Cerchi di far capire loro che non è questo, che il senso della storia è un certo modo di considerare il futuro, più ancora che il passato, ma è difficile da spiegare, non ci si comprende».

32 Lettera dattiloscritta, datata 8 gennaio, senza indicazione dell’anno. Pubblicata ora in L.M. Barbero (a cura di), Franco Angeli, p. 239.

33 Non è questa la sede per affrontare il complesso rapporto tra Roma e New York negli anni dell’ascesa americana. Tra le recenti pubblicazioni sulla costruzione di un immaginario italiano nell’arte degli anni Sessanta cfr. M. Dantini, Geopolitiche dell'arte: arte e critica d'arte italiana nel contesto internazionale, dalle neoavanguardie a oggi, Milano, Marinotti, 2012, e L. M. Barbero (a cura di), Imagine: nuove immagini dell’arte italiana 1960-1969, catalogo della mostra, Venezia, Peggy Guggenheim, 23 aprile - 19 settembre 2016, Venezia, Marsilio, 2016.

34 Per un’analisi politico-economica del ruolo degli Stati Uniti nell’arte del dopoguerra cfr. C. Dossin, The rise and fall of American art, 1940s-1980s: a geopolitics of Western art worlds, London, Routledge, 2017.

35 R. Krauss, Originalità dell’avanguardia e altri miti modernisti [2003], Milano, Bruno Mondadori, 2007, p. 174.

36 Ivi. p. 173.

37 Ivi, p. 172.

38 Ivi, p.171.