Fare il cinema come atto di ribellione e di liberazione individuale; rigettarlo attraverso il disprezzo per raggiungere la capacità di amarlo.
Franco Angeli, dattiloscritto inedito[1]
1. Le lacrime delle cose o la materia della memoria
«Non le cose ma le lacrime delle cose».[2] Così Cesare Vivaldi, nel 1960, descrive le opere monocrome che Franco Angeli presenta nella sua prima personale alla galleria La Salita di Roma, dove strati di bende trasparenti – calze di nylon, garza – [3] s’impongono su un colore di fondo creando un’immagine stratificata, complessa. Il dialogo con Burri, che Angeli aveva conosciuto tramite lo scultore Edgardo Mannucci, è già entrato in un territorio di superamento dell’informale dove la materia si alleggerisce nella trasparenza della velatura e il trauma rivive nella leggerezza di un’eco «innestando», come nota Luca Massimo Berbero, «un nuovo rapporto tra peso della materia e levità della percezione».[4] Ferite o memoria delle ferite? Continua Vivaldi:
Un’assenza che tuttavia torna a turbare il presente, come i simboli comunisti e nazi-fascisti che a partire dai primi anni Sessanta Angeli inserisce nelle sue opere. Per lui, nato in una famiglia di salde convinzioni socialiste e antifasciste, che aveva vissuto da bambino l’occupazione tedesca e la liberazione americana, la strada è lo spazio di una memoria dove trauma, storia e ricordi d’infanzia si mescolano in suggestioni visive: