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Il saggio analizza l’interpretazione di Alida Valli in Edipo re (1967), dove impersona il piccolo ma intenso ruolo di Merope, la madre adottiva del protagonista. Il breve lacerto di film è esplorato sia all’interno della carriera della diva, sia in relazione alle strategie messe a punto da Pier Paolo Pasolini nel lavoro con le attrici e gli attori professionisti.

This essay analyzes the performance offered by Alida Valli in Edipo re (1967), where she plays a small but intense role, that of Merope, foster mother of the main character. The short fragment of the film is explored in the frame of the career of the diva as well as in the light of the strategies defined by Pier Paolo Pasolini in his work with professional performers

Se nel sentire pasoliniano l’immagine materna penetra con profonde radici (cfr. Rizzarelli 2021), in Edipo re, per ragioni forse persino ovvie, essa si intensifica e si addensa, accampandosi subito, a partire dall’incipit, al centro del quadro. Tutto comincia, nel prologo novecentesco, con un mobile sguardo che, abbandonata la fissità della pietra miliare, ove si legge, sibillina, la scritta «Tebe», si avvicina con due tagli di montaggio a un elegante palazzetto e scruta l’interno di una ampia porta-finestra affacciata su un balconcino. Nel primo piano sonoro, dispersa l’eco di una banda paesana e i trilli di un campanello di bicicletta, si odono i canti delle cicale, lo spirare di un vento leggero, i brusii della campagna circostante; intanto, incorniciata nel muto riquadro del vetro, si svolge la scena del parto, con l’agile e misteriosa venuta al mondo del bambino. I fiori sul terrazzo, le ali azzurre delle persiane e il profilo brunito della ringhiera, che ingombra e insieme ingentilisce la veduta, conferiscono alle due brevi inquadrature di questa natività il ricercato lucore di un sigillo cloisonné e, insieme, la bonaria sacralità di un ex voto [fig. 1]. Poco dopo, la sequenza del prato, con l’estasi appagante dell’allattamento e lo scambio di sguardi fra la madre e il figliolino, dice senza bisogno di parole la forza tenera di un legame assoluto ma ambivalente.

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Quello di Franco Citti è stato uno dei volti più identificativi del cinema di Pasolini, da Accattone (1961) e da Mamma Roma (1962) fino a Edipo re (1967) e al Decameron (1971). Il contributo ripercorre, lungo la produzione cinematografica del poeta-regista, le interpretazioni di Citti, offrendo alcune originali chiavi di lettura correlate alla teoria del cinema pasoliniana e alla ‘tensione figurale’ dei personaggi. 

Franco Citti was one of the most identifying actor of Pasolini’s cinema, from Accattone (1961) and Mamma Roma (1962) to Edipo re (1967) and Il Decameron (1971). The contribution traces Citti’s film roles along the film production of the poet-director, offering some original interpretations related to Pasolini’s theory of cinema and the ‘figural tension’ of the characters. 

E allora bisognerà subito fare, ai margini, un’osservazione: mentre la comunicazione strumentale che è alle basi della comunicazione poetica o filosofica è già estremamente elaborata, è insomma un sistema reale e storicamente complesso e maturo – la comunicazione visiva che è alla base del linguaggio cinematografico è, al contrario, estremamente rozza, quasi animale. Tanto la mimica e la realtà bruta quanto i sogni e i meccanismi della memoria, sono fatti quasi pre-umani, o ai limiti dell’umano: comunque pre-grammaticali e addirittura pre-morfologici (i sogni avvengono al livello dell’inconscio, e così i meccanismi mnemonici; la mimica è segno di estrema elementarità civile ecc.). Lo strumento linguistico su cui si impianta il cinema è dunque di tipo irrazionalistico: e questo spiega la profonda qualità onirica del cinema, e anche la sua assoluta e imprescindibile concretezza, diciamo, oggettuale (Pasolini 1999b, pp. 1463-1464).

Nel suo primo intervento ufficiale sul cinema, Pasolini sottolinea la presenza di uno strato profondo, elementare, barbarico, onirico, infantile, sul quale si costruisce poi ogni film singolo con l’apparenza del racconto. Pre-grammaticale è il termine derivato dal saggio di Contini sul linguaggio pascoliano del 1955: dunque siamo già in ambito di un contesto poetico che si contrappone a una elaborazione prosastica.

Pasolini lo aveva già ampiamente affermato a proposito del suo magnifico discorso intorno alle Notti di Cabiria del 1957. L’analisi inizia dalla descrizione fisica e psichica di Fellini stesso, definito, attraverso una sequenza di metafore, una «enorme macchia», un «polipo», un’«ameba ingrandita al microscopio», un «rudere azteco», un «gatto annegato» (Pasolini 1999a, p. 700): «la forma di uomo che Fellini possiede è incessantemente pericolante: tende a risistemarsi e riassestarsi nella forma precedente che la suggerisce» (ibidem). Da questo essere metamorfico esce una non-voce, un insieme di fonemi, un incrocio di dialetti (romagnolo-romanesco) che viene ricondotto alla ‘pre-grammaticalità pascoliana’. Fellini si esprime con un pre-linguaggio.

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Dopo l’abbandono del progetto da parte di Orson Welles per Tiresia per l’Edipo re, nel 1967 Pasolini si rivolse a Julian Beck del Living Theatre. Il cambio si rivelò uno stimolo per il ripensamento del personaggio sfruttando l’aura, la fisicità androgina e dissacrante dell’attore. In dialogo ma anche in autonomia rispetto alla comunità teatrale di appartenenza, Pasolini ricorrerà a una inaspettata sottrazione del corpo, al centro dell’attività dell’interprete, per esaltare la potenza sacrale ma anche umoristica del suo volto.

Pasolini engaged Julian Beck of the Living Theatre in 1967 after Orson Welles decided to back out of the performance of Tiresias for Edipo Re. The shift significantly contributed for reconsidering the role by utilizing the aura, androgynous physique, and disrupting the body language of Beck. In the dedicated scenes, Pasolini used an unexpected reduction of the body, which was at the center of the performer's activity, to amplify the holy but also humorous force of his face, acting both in dialogue with and independently from the theatrical group to which he belonged.

La scelta di Julian Beck per l’interpretazione di Tiresia in Edipo re è un ripiego in corso d’opera. Pasolini scrive la sceneggiatura pensando a Orson Welles, descrivendo il personaggio come un «vecchio uomo, grasso, pesante, segnato dalla vecchiezza su un viso restato infante» (Pasolini 2001a, p. 1006). L’idea è forse quella di tracciare un filo sottile tra i personaggi del regista della Ricotta e dell’indovino di Edipo re, uniti idealmente dalla sagacia dell’intellettuale che osserva stancamente l’inutile agitarsi dell’umanità, con «una dimensione morale, insaporita dall’intelligenza e dalla sua crudeltà consuete: sarebbe stato un Tiresia accusatore», come spiega a Jean-André Fieschi (Pasolini 2001a, p. 2924). Ma Welles rinuncia, optando negli stessi mesi per un altro Edipo re e un altro Tiresia: nell’estate 1967 partecipa infatti alle riprese del film Oedipus the King di Philippe Saville, in cui interpreta proprio il veggente cieco. Così, poco prima, nell’aprile 1967, nel bel mezzo della produzione, Pasolini deve cercare rapidamente un «ripiego» (Chiesi 2006, p. 20).

Proprio in quei giorni, dal 5 al 7 aprile, va in scena al Teatro delle Arti di Roma l’Antigone del Living Theatre, la compagnia che due anni prima aveva folgorato Pasolini con una pratica teatrale spregiudicata e coinvolgente, politica e rivoluzionaria, contribuendo alla nascita della stagione della sua scrittura tragica. Nello stesso teatro, l’8 e il 9 aprile il gruppo americano propone anche Le serve. È quasi inevitabile che la folgorazione si rinnovi: Pasolini invita a cena Judith Malina e Julian Beck, di cui elogia l’interpretazione femminile nelle Serve, e propone all’attore di partire subito per il Marocco per interpretare Tiresia, promettendo non solo una regolare paga ma anche, come ricorderebbe Francesco Leonetti (che nel film interpreta il servo di Laio), «un camioncino» (Boriassi 2017-2018, p. 76). Beck accetta, previa «cortese concessione del Living Theatre», come si legge nei titoli di testa: «senza il consenso del clan, infatti, Julian non si può allontanare dalla sua comunità di vita e di lavoro» (Possamai 2011, p. 44).

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Il presente contributo si propone di analizzare la qualità che assume lo spazio scenico nella ricerca a teatro di Chiara Guidi in relazione al racconto e allo sguardo dello spettatore, soffermandosi in particolare sull’ultimo lavoro, Edipo. Una fiaba di magia (2019). La sua pratica scenica, da lei stessa denominata “Teatro infantile”, sin dagli anni Novanta si caratterizza per diverse forme di costruzione della scena in grado di accogliere oltre all’incedere della storia anche quello degli spettatori. A una prima parte, in cui si delineano alcuni elementi che contraddistinguono la visione dei suoi allestimenti teatrali, segue l’analisi della riscrittura della tragedia di Sofocle in veste di fiaba. L’eroe sbarca in un territorio inabissato, mondo del sottoterra che lo sottopone a una prova di abilità e di conoscenza di sé stesso

The contribution aims to analyze the quality that the stage space assumes in Chiara Guidi’s theater research in relation to the story and the spectator’s gaze, focusing in particular on the latest work, Edipo. Una fiaba di magia (2019). Her stage practice, which she herself called “Teatro infantile”, has been characterized since the 1990s by different forms of construction of the stage capable of accommodating, in addition to the progress of history, also that of spectators. The first part, in which some traces that distinguish the theatrical productions of the past are outlined, is followed by the analysis of the rewriting of Sofocle’s tragedy as a fairy tale. The hero lands in an abyssed territory, an underground world that subjects him to a test of skill and knowledge of himself.

 

 

Dal 2006 Chiara Guidi, fondatrice con Romeo e Claudia Castellucci e con Paolo Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio, oggi Socìetas, si dedica da sola a un percorso di ricerca sull’infanzia sia attraverso la creazione di spettacoli teatrali sia incontrando personalmente adolescenti, educatori, educatrici e genitori all’interno di attività di formazione, corsi di aggiornamento e, a Cesena, nelle giornate di puericultura teatrale nell’ambito di Puerilia.

Chiara Guidi porta avanti un’indagine concepita, pensata e scritta con in mente l’infanzia e i suoi lavori danno voce a una domanda piuttosto che a una sentenza finale che interessa tanto i bambini quanto gli adulti. Ai più grandi è infatti concessa una visione della scena soltanto se essi sono disposti a lasciarsi andare e affinare lo sguardo, mimando la plasticità e la destrezza di visione dei piccoli spettatori in prima fila, letteralmente immersi nella situazione rappresentata.

Sin dagli esordi un numero significativo di lavori, aperti alla presenza chiassosa e divaricante dei bambini, è dedicato alla ricezione dell’antico e alla polisemia dei miti, portando alla luce ciò che ancora essi sono capaci di raccontare. E dato che «i miti non hanno già sempre quel significato che viene loro conferito»[2] e aumentano il loro potere a seconda della forma in cui ciascuno di noi li include, i materiali di provenienza mitica vengono ridisegnati da Guidi, per la scena, attraverso la lente della fiaba, portatrice anch’essa di un enigma impenetrabile e di una crudeltà che assorbe il senso del tragico. «Così le fatiche di Ercole valgono quindi quelle di Pollicino o di Pinocchio»,[3] si legge nella scheda dello spettacolo Le fatiche di Ercole. Se nella maggior parte dei casi gli allestimenti di tutti i suoi lavori puntano alla costruzione di un’architettura del racconto espansa nello spazio e da attraversare a piedi, nell’ultimo lavoro, Edipo. Una fiaba di magia (2019), le vicende sono tutte contenute all’interno della scatola scenica. Prima di mettere a fuoco alcuni elementi che contraddistinguono quest’ultima opera, possiamo soffermarci brevemente sulla visione inedita a cui si sottopone lo spettatore durante i suoi spettacoli.

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Il presente saggio è dedicato al caso di studio dell’adattamento Incendies (2010), film di Denis Villeneuve (presentato in Italia con il titolo La donna che canta), tratto dalla omonima pièce di Wajdi Mouawad. Si tratta di un esempio in cui è necessario intrecciare e sovrapporre gli apporti diversi provenienti dalla mitocritica e dagli studi sull’intermedialità, al fine di evidenziare le variazioni intersemiotiche, le costanti e le metamorfosi di un mito che mostra ancora, a dispetto della millenaria storia ricettiva, la sua profonda vitalità e la sua persistenza nel nostro immaginario. I due testi infatti lasciano emergere nella loro complessa stratificazione intertestuale, insieme a diversi riferimenti al mito classico, evidenti rimandi alla tragedia edipica, riscritti e riletti in un contesto di dislocazione complessiva, che investe personaggi, spazi, temi e struttura. Puntando lo sguardo soprattutto su due aspetti, quello della costruzione drammaturgica e quello del motivo della cecità, si intende evidenziare l’originale scambio dialogico che i due testi intrattengono con la fonte classica.

This essay is dedicated to the case study on the adaptation of Incendies (2010), a movie by Denis Villeneuve (presented in Italy under the title La donna che canta), based on the homonymous piece by Wajdi Mouawad. It is an example which requires to interweave and overlap the various approaches derived from myth criticism and from the studies on intermediality, in order to highlight the intersemiotic variations, the constants and the metamorphoses of a myth which – despite its thousand years history of reception – still offers a profound vitality, and persists in our imagination. From the two texts, in their complex intertextual stratification, together with several references to classical mythology emerge clear echoes of the oedipic tragedy, albeit rewritten and filtered in a context of overall dislocation which affects characters, places, themes and structure. The specific focus on two aspects – the construction of the dramaturgy and the theme of blindness – intends to shed light on the original dialogical exchange both texts cultivate with their classical source.

 

Il film Incendies (2010) di Denis Villeneuve (presentato in Italia con il titolo La donna che canta), nato dall’adattamento per il grande schermo della omonima pièce di Wajdi Mouawad, mostra nella sua complessa stratificazione intertestuale e intermediale, insieme a diversi riferimenti al mito classico, evidenti rimandi alla tragedia edipica, riscritti e riletti in un contesto di dislocazione complessiva, che investe personaggi, spazi, temi e struttura drammaturgica. La pièce dell’acclamato artista libano-canadese, Incendies (2003), secondo atto della quadrilogia scenica Le sang des promesses (che comprende Littoral, 1999; Forêts, 2006 e Ciels, 2011) lascia emergere echi molto evidenti rispetto al testo sofocleo e alla sua tradizione e ricezione, echi che vengono ripresi e rideclinati nella trasposizione cinematografica in modo a volte originale a volte fedele alla scrittura di Mouawad. Il presente studio propone dunque un caso in cui è necessario intrecciare e sovrapporre gli apporti diversi provenienti dalla mitocritica e dagli studi sull’adattamento, al fine di evidenziare le escursioni transmediali e le variazioni intersemiotiche, le costanti e le metamorfosi di un mito che mostra ancora la sua profonda vitalità e la sua persistenza nel nostro immaginario.

La prospettiva di indagine che si intende adottare è volta, in altri termini, a evidenziare la complessità della relazione fra i due testi: Incendies di Villeneuve non viene scelto cioè come semplice caso di adattamento, ma come esempio della dimensione intertestuale che investe a vari livelli qualsiasi trasposizione da un testo ad un altro e qualsiasi traduzione intersemiotica. Nell’analisi del processo di riscrittura da cui deriva il film ciò che si vuole rilevare in questa sede è il confronto con lo strato più profondo del palinsesto, con la fonte sofoclea e con la memoria mitica rispetto alla quale l’Edipo re rappresenta a sua volta una versione (seppur la più nota), nonché con la sua ponderosa tradizione ricettiva. La natura «multistrato»[1] dell’adattamento, messa in evidenza da Linda Hutcheon richiamandosi ai numi tutelari delle teorie della intertestualità (da Kristeva, a Genette a Barthes),[2] appare in questo caso in tutta la sua più feconda luminosità. Il rapporto fra il film e la pièce rende visibile (in senso letterale, come si mostrerà più avanti) in maniera emblematica l’«incrocio di superfici testuali», il «dialogo tra parecchie scritture», il «mosaico di citazioni» per cui «ogni testo è assorbimento e trasformazione di un altro testo»[3] e dunque la paradigmatica struttura a palinsesto di ogni adattamento. Per quanto ci si concentrerà sulle tracce del fantasma edipico presenti nel film e nella pièce, il focus del discorso rimane però il passaggio dall’uno all’altro ‘incendio’ e la considerazione del film come prodotto di una transcodificazione e come processo ermeneutico e creativo.[4]

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Elise Vigneron, insieme a Hélène Barreau, propone un poetico contrappunto alla domanda sulla possibilità di dare forma all’inafferrabile, un motivo che ha occupato tanti artisti sin dall’inizio del Novecento e che oggi sembra risuonare in maniera inaudita, come se trovasse ai nostri giorni il suo più congruo contesto; lo fa in punta di piedi: all’interrogazione fa eco una condizione, più che una risposta.

Se il punto di partenza delle creazioni dell’Entrouvert è sempre legato a questo nodo problematico, declinato nel suo rapporto concretissimo con la materia, l’occasione drammaturgica è qui la riscrittura del mito di Edipo di Henri Bauchau, Œdipe sur la route (Edipo sulla strada, non a caso di nuovo l’essere en marche), ma le parole del romanzo scivolano via come l’acqua, materia prima di questa creazione: ne rimangono rivoli e tracce atmosferiche, della stessa consistenza della nebbia entro la quale scompare il protagonista alla fine della narrazione di Bauchau. Del racconto originario percepiamo la fluidità e la metamorfosi dei passaggi di stato. L’evolversi drammaturgico è sempre spostato dalla stabilità di una situazione alla condizione d’impermanenza, al trascorrere, anche grazie alla frizione tra luce e ombra, freddo e caldo, fuoco e acqua.

La soluzione efficacissima è di aver saputo far coincidere questo motivo con la presenza scenica dei materiali, che acquistano valore drammaturgico. Così al tema stesso dell’inafferrabilità corrisponde una reificazione capace di assottigliare al massimo lo scarto tra l’idea e la materia che la incarna. Il ‘personaggio’ principale è dunque il ghiaccio; l’acqua allo stato solido è la materia designata a farsi viatico del nostro attraversamento, perenne quête, il materiale più adatto proprio perché destinato a sciogliersi. Il tempo drammaturgico è così scandito dal tempo di fusione del corpo di questo moderno Edipo: una marionetta plasmata nel ghiaccio.

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Una maschera africana composta da due teste bianche e tondeggianti, una montata sopra l’altra, i cui margini inferiori sono legati ad alcune strisce di corde bianche e a lunghi filamenti di paglia secca che ricadono in basso e dissimulano completamente i lineamenti di chi la indossa, mentre la superficie alta è sormontata da una corona di cespugli radi e anch’essi secchi: questa maschera bicefala diviene, nell'Edipo Re (1967) di Pasolini, il non volto della sacerdotessa dell’Oracolo di Delfi (nel film Delfo), dalla cui bocca parla il dio Apollo, nella sequenza in cui annuncia al ‘figlio della fortuna’ un destino atroce: «Guardati! Nel tuo destino c’è scritto che assassinerai tuo padre e farai l’amore con tua madre!»

Nella tragedia di Sofocle l’episodio della visita di Edipo al santuario di Apollo è racchiuso nei pochi versi in cui Edipo, a distanza di molto tempo, rievoca il proprio passato alla madre Giocasta:

Pasolini trasmuta l’episodio dal passato al presente e lo racconta seguendo in modo lineare gli antefatti della storia di Edipo (dopo il prologo autobiografico ambientato nel Friuli degli anni Trenta), con non poche e significative innovazioni narrative. Per esempio, inventa lo struggente congedo del giovane da quelli che crede essere i suoi genitori, Polibo e Merope (consapevoli del suo viaggio a Delfo e non ignari, come invece accade in Sofocle). Soprattutto, al momento delle riprese, trasforma in modo radicale la scena dell’Oracolo rispetto a come aveva previsto di girarla nella sceneggiatura. Nel testo infatti leggiamo che il santuario dovrebbe ricordare una chiesa affollata di pellegrini, come una corte dei miracoli, ispirata ai dipinti di Francesco Paolo Michetti. Nella fantasia di Pasolini, com’è noto, le immagini si richiamano spesso alla pittura e forse aveva in mente Il voto (1881-1883) di Michetti, con i credenti fanaticamente allungati a terra, persi nell’ebbrezza della preghiera. Qualche traccia di questa idea rimane nella folla popolare ammassata in attesa del responso nello spiazzo sabbioso e deserto che circonda il santuario, ma Pasolini, al momento di realizzare la scena, ha preferito una folla composta, sotto il presidio delle guardie, dove ognuno attende ordinatamente il suo turno in una calma arcaica e remota.

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