Categorie



Una maschera africana composta da due teste bianche e tondeggianti, una montata sopra l’altra, i cui margini inferiori sono legati ad alcune strisce di corde bianche e a lunghi filamenti di paglia secca che ricadono in basso e dissimulano completamente i lineamenti di chi la indossa, mentre la superficie alta è sormontata da una corona di cespugli radi e anch’essi secchi: questa maschera bicefala diviene, nell'Edipo Re (1967) di Pasolini, il non volto della sacerdotessa dell’Oracolo di Delfi (nel film Delfo), dalla cui bocca parla il dio Apollo, nella sequenza in cui annuncia al ‘figlio della fortuna’ un destino atroce: «Guardati! Nel tuo destino c’è scritto che assassinerai tuo padre e farai l’amore con tua madre!»

Nella tragedia di Sofocle l’episodio della visita di Edipo al santuario di Apollo è racchiuso nei pochi versi in cui Edipo, a distanza di molto tempo, rievoca il proprio passato alla madre Giocasta:

Pasolini trasmuta l’episodio dal passato al presente e lo racconta seguendo in modo lineare gli antefatti della storia di Edipo (dopo il prologo autobiografico ambientato nel Friuli degli anni Trenta), con non poche e significative innovazioni narrative. Per esempio, inventa lo struggente congedo del giovane da quelli che crede essere i suoi genitori, Polibo e Merope (consapevoli del suo viaggio a Delfo e non ignari, come invece accade in Sofocle). Soprattutto, al momento delle riprese, trasforma in modo radicale la scena dell’Oracolo rispetto a come aveva previsto di girarla nella sceneggiatura. Nel testo infatti leggiamo che il santuario dovrebbe ricordare una chiesa affollata di pellegrini, come una corte dei miracoli, ispirata ai dipinti di Francesco Paolo Michetti. Nella fantasia di Pasolini, com’è noto, le immagini si richiamano spesso alla pittura e forse aveva in mente Il voto (1881-1883) di Michetti, con i credenti fanaticamente allungati a terra, persi nell’ebbrezza della preghiera. Qualche traccia di questa idea rimane nella folla popolare ammassata in attesa del responso nello spiazzo sabbioso e deserto che circonda il santuario, ma Pasolini, al momento di realizzare la scena, ha preferito una folla composta, sotto il presidio delle guardie, dove ognuno attende ordinatamente il suo turno in una calma arcaica e remota.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Il teatro è un luogo di rivitalizzazione degli archetipi e occupa ancora un posto centrale nell’elaborazione dell’immaginario individuale e collettivo. Lo si vede chiaramente nel lavoro della Socìetas Raffaello Sanzio e di Romeo Castellucci, quando tematizza il rapporto fra immagine e rappresentazione chiamando in causa lo spettatore.

In Go Down, Moses – andato in scena al Teatro Argentina di Roma dal 9 al 18 gennaio – la qualità simbolica dell’immagine, che non è mai soltanto un artefatto visuale, sembra andare proprio là dove il paradosso iconoclastico dell’Occidente – ovvero la continua dialettica fra rifiuto delle immagini e resistenze dell’immaginario – si è reso maggiormente osservabile, cioè alle origini della religione e della cultura giudaico-cristiana. Basti pensare che, prendendo il titolo da uno spiritual americano in cui l’esodo del popolo di Israele trasmigra nell’epopea degli schiavi afro-americani e dall’omonimo romanzo di William Faulkner, lo spettacolo utilizza la potenza narrativa della religione, e più precisamente della Bibbia e del libro dell’Esodo, per sincronizzare il mito con la sostanza del nostro tempo. Il che significa rintracciare le parole chiave del mito – abbandono e salvezza, schiavitù ed erranza, deserto e solitudine, ma soprattutto immagine senza rappresentazione (il roveto ardente, immagine di Dio che afferma «sono colui che sono») e rappresentazione senza immagine (il vitello d’oro, il simulacro, la falsa immagine) – per ritrovarle dissolte, insieme alla figura del patriarca e la sua vicenda, nel dispositivo drammaturgico e nelle scene.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Abstract: ITA | ENG

Gostanza da Libbiano (2000), film basato sul testo del reale processo per stregoneria subito nel 1594 da una domina herbarum di circa sessant’anni, completa la ‘trilogia sull’identità’ della quale fanno parte anche Il bacio di Giuda (1998) e Confortorio (1992). La storia si colloca tra Medioevo ed Età moderna e il film mostra tutte le ambiguità dei momenti di passaggio: Gostanza viene sconfitta senza rogo. Il saggio assume il concetto di ‘alterità’ come chiave per comprenderne i vari livelli problematici, e particolarmente il rapporto tra potere istituzionale e potere carismatico, tra uomini e donne, tra identità forti e identità negate.

Gostanza da Libbiano (2000), based on the real trial of the 60-years old domina herbarum who was persecuted for witchcraft in 1594, is the third film of the ‘identity trilogy’, which also includes Il bacio di Giuda (1998) and Confortorio (1992). The story is set between the Middle and Modern Ages and the movie shows all the ambiguities of transitory periods: Gostanza is defeated without being burned at the stake. The essay employs the idea of ‘alterity’ as a key to the understanding of the different problematic levels, especially the relationship between institutional and charismatic power, between men and women, between strong and spoiled identities.

 

1. Premessa

L’occasione per rivedere e riscoprire Gostanza da Libbiano di Paolo Benvenuti mi è stata offerta da alcuni colleghi romani, che mi hanno invitato a presentare una pellicola a mia scelta nel corso del Seminario intitolato Le Religioni e le Arti. Si tratta di un’iniziativa che da alcuni anni fa parte delle attività proposte dal Dipartimento di Storia, Culture e Religioni de ‘La Sapienza’, e che si prefigge un doppio intento: incrementare anche in Italia un’area di ricerca già forte di un certo prestigio accademico a livello internazionale, e promuovere un'indagine nuova sui fatti religiosi, attenta al «modo in cui diverse forme di espressione artistica si collocano deliberatamente nei discorsi contemporanei sul religioso, contribuendo così a plasmarne contorni, qualità, limiti».[1] Da tale sollecitazione sono scaturite queste pagine.

Per avviare la mia riflessione su Gostanza da Libbiano trovo perfettamente calzanti le parole con le quali Adriano Prosperi ci introduce al Dies Irae di Dreyer (la cui prima visione risale al 13 novembre del 1943), una pellicola e un regista che il film di Paolo Benvenuti variamente evoca. Mi sia, dunque, concesso prenderle in prestito: «Amo molto questo film e l’atteggiamento col quale mi pongo nei suoi confronti non è quello dell’interprete padrone dei segreti dell’opera, capace di sviscerarli con abilità e con un po’ di burbanza, ma piuttosto quello di uno spettatore catturato da un fascino che non riesce a spiegare del tutto».[2]

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →