Potenza della strega/impotenza della donna. Gostanza da Libbiano di Paolo Benvenuti

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Gostanza da Libbiano (2000), film basato sul testo del reale processo per stregoneria subito nel 1594 da una domina herbarum di circa sessant’anni, completa la ‘trilogia sull’identità’ della quale fanno parte anche Il bacio di Giuda (1998) e Confortorio (1992). La storia si colloca tra Medioevo ed Età moderna e il film mostra tutte le ambiguità dei momenti di passaggio: Gostanza viene sconfitta senza rogo. Il saggio assume il concetto di ‘alterità’ come chiave per comprenderne i vari livelli problematici, e particolarmente il rapporto tra potere istituzionale e potere carismatico, tra uomini e donne, tra identità forti e identità negate.

Gostanza da Libbiano (2000), based on the real trial of the 60-years old domina herbarum who was persecuted for witchcraft in 1594, is the third film of the ‘identity trilogy’, which also includes Il bacio di Giuda (1998) and Confortorio (1992). The story is set between the Middle and Modern Ages and the movie shows all the ambiguities of transitory periods: Gostanza is defeated without being burned at the stake. The essay employs the idea of ‘alterity’ as a key to the understanding of the different problematic levels, especially the relationship between institutional and charismatic power, between men and women, between strong and spoiled identities.

 

1. Premessa

L’occasione per rivedere e riscoprire Gostanza da Libbiano di Paolo Benvenuti mi è stata offerta da alcuni colleghi romani, che mi hanno invitato a presentare una pellicola a mia scelta nel corso del Seminario intitolato Le Religioni e le Arti. Si tratta di un’iniziativa che da alcuni anni fa parte delle attività proposte dal Dipartimento di Storia, Culture e Religioni de ‘La Sapienza’, e che si prefigge un doppio intento: incrementare anche in Italia un’area di ricerca già forte di un certo prestigio accademico a livello internazionale, e promuovere un'indagine nuova sui fatti religiosi, attenta al «modo in cui diverse forme di espressione artistica si collocano deliberatamente nei discorsi contemporanei sul religioso, contribuendo così a plasmarne contorni, qualità, limiti».[1] Da tale sollecitazione sono scaturite queste pagine.

Per avviare la mia riflessione su Gostanza da Libbiano trovo perfettamente calzanti le parole con le quali Adriano Prosperi ci introduce al Dies Irae di Dreyer (la cui prima visione risale al 13 novembre del 1943), una pellicola e un regista che il film di Paolo Benvenuti variamente evoca. Mi sia, dunque, concesso prenderle in prestito: «Amo molto questo film e l’atteggiamento col quale mi pongo nei suoi confronti non è quello dell’interprete padrone dei segreti dell’opera, capace di sviscerarli con abilità e con un po’ di burbanza, ma piuttosto quello di uno spettatore catturato da un fascino che non riesce a spiegare del tutto».[2]

La visione di Gostanza da Libbiano, prima ancora di essere un invito alla discussione per la ricchezza dei temi e delle suggestioni che suggerisce e costituire uno stimolo per accendere la curiosità storica di ogni spettatore attento, è un’esperienza forte. Ricordo distintamente come la storia e il personaggio di Gostanza mi abbiano subito ‘stregato’, catturandomi nelle loro atmosfere assorbenti e proiettandomi per tutta la durata della pellicola, e oltre, in una dimensione emotiva di profonda empatia. Forse per questo l’immagine della protagonista, magistralmente interpretata da Lucia Poli, «fine interprete poco frequentata dal cinema»,[3] non mi ha mai del tutto lasciato. Il suo viso – eccezionale caleidoscopio di emozioni e sentimenti – ha continuato a galleggiare nella memoria in modo vivido e chiaro, pur provenendo da un bianco e nero cupo e austero, da una recitazione scabra ed essenziale (per dirla col poeta). Lucia Poli fa del suo volto «un paesaggio che non ci si stanca mai di osservare», quasi un tributo alla poetica cinematografica di Dreyer.[4]

Il film non offre alcuna concessione a sbavature sentimentali, o a toni da altisonante drammaticità teatrale: la tragedia si consuma in ritmi lenti e pacati, scandita da dialoghi che intrecciano voci dalle sonorità profonde e composte, a volte sommesse. Tornare a questa storia dopo quasi tre lustri sembra l’esito imprevedibile eppure naturale di quella prima fascinazione. L’impatto emotivo si traduce ora nel desiderio di ragionare ‘storicamente’ intorno alla vicenda, alla sua costruzione filmica che ne fa un’esperienza spirituale, alla sua forza espressiva metastorica, alle sue potenzialità comunicative.

 

2. Un film storico

Gostanza da Libbiano si ascrive senz’altro al genere del film storico, benché la nozione liquida e asfittica di film storico, che spesso finisce per inglobare indistintamente pellicole molto diverse solo perché situano la loro vicenda in un’epoca differente dal presente, non rende ragione e conto della complessità di questo genere ‘trasversale’, refrattario a tentativi definitori, dove il passato è sempre un pretesto o più semplicemente un modo per interrogarsi sul presente. E soprattutto poco dice della specificità di questo film. Gostanza da Libbiano è la traduzione-trasposizione cinematografica fedele – e direi quasi filologicamente sorvegliata – degli autentici Atti del processo per ‘stregoneria’, che una donna di nome Gostanza, esperta nel curare con le erbe e altri rimedi naturali, subì tra novembre e dicembre nel 1594 tra Lari e San Miniato (il film è stato girato negli stessi luoghi e durante gli stessi mesi). Questo non esclude, d’altra parte, che la scelta del soggetto e la sua resa ‘onesta’ sullo schermo comportino, comunque, una rilettura critica della Storia, cioè la rappresentazione di un’epoca dal punto di vista di un’altra, e con gli strumenti cognitivi di un’altra.[5]

Il film si fonda, dunque, su un documento, e su un documento importante e particolare per varie ragioni. Intanto, è un prezioso testimone sopravvissuto alla censura ecclesiastica: testi del genere andavano spesso volontariamente distrutti o secretati negli archivi delle chiese. Presenta, insolitamente, la trascrizione di domande e risposte nel rispetto dell’identità dei soggetti parlanti, riproducendo cioè nella forma e nella lingua le battute dei personaggi coinvolti: accanto ad alcuni passaggi in un tardo latino cristiano/cancelleresco,[6] stanno i dialoghi in un bel volgare toscano. Il notaio fiorentino Vincenzo Viviani, incaricato di redigere i verbali, ha cioè registrato accuratamente espressioni e parole di giudici e giudicati. Benvenuti taglia e ricuce il lungo resoconto, ne asciuga e semplifica il dettato, ma non modifica nulla, conservando la patina linguistica cinquecentesca e la straordinaria efficacia espressiva del toscano del tempo. Leggere la trascrizione del manoscritto in sinossi con la sceneggiatura consente di verificare il lavoro meticoloso e rispettoso operato sul testo dal regista.[7] La parola scritta si fa nel film parola parlata, e se spazi e attori diventano quadri e corpi, l’elemento visivo non sopravanza mai la cifra narrativa, la compenetra e anima semmai, e se ne lascia impregnare.[8] Il documento contiene, inoltre, numerose notazioni personali su atteggiamenti, movimenti e posture di ognuno, come se l’estensore del processo avesse già costruito – come Benvenuti ha rilevato – una involontaria sceneggiatura in forma embrionale. L’attitudine letteraria del notaio, infine, e l’andamento narrativo sottraggono il verbale al genere burocratico e ne fanno una lettura scorrevole e avvincente.

Spesso i documenti analoghi, prodotti tra Quattrocento e Cinquecento, trasmettono le dichiarazioni delle imputate nella lingua dei giuristi e dei teologi. Difficilmente rendono il parlato e l’assetto mentale di chi veniva sottoposto a duri interrogatori e a crudeli torture. È il caso della stessa Giovanna d’Arco: nonostante la ricchezza del dossier relativo al processo (1431) consenta di dire che sia uno dei personaggi meglio conosciuti del XV secolo, allo stesso tempo si è costretti a riconoscere l'aura di mistero nella quale la fisionomia storica della Pulzella d’Orléans resta irrimediabilmente avviluppata. I documenti non ci lasciano ascoltare la sua voce, come invece avviene per quella di Gostanza.[9]

 

3. Il manoscritto

Il ritrovamento della pergamena contenente il processo a Gostanza è avvenuto recentemente e del tutto casualmente. Tre neolaureate alla fine degli anni Ottanta vennero incaricate di inventariare e riordinare il patrimonio archivistico di San Miniato. Avrebbero dovuto mettere le mani solo su documenti prodotti dal Comune a partire dall’Unità d'Italia, ma si trovarono a intervenire anche su fondi che facevano parte di una sezione che conservava materiali più antichi. E per caso si imbatterono nella pergamena contenente un manoscritto, circa cento fogli non rilegati ma cuciti insieme, corrispondente alla verbalizzazione del Processo a una strega, datato 1594:[10] così avvertiva la scritta sull’ultima carta in basso. Il testo è stato pubblicato dopo qualche anno, nel 1989, in un volume a cura di Cardini, Gostanza, la strega di San Miniato, per i tipi della Laterza, con ampio corredo di studi e commenti, anche degli studiosi e dei ricercatori coinvolti nel ritrovamento e con la postfazione di Prosperi. La lettura di questo libro ha destato l’interesse di Benvenuti per la storia, fino alla determinazione di farne un film. La gestazione comincia nel 1990, le riprese nel 1999.

Il documento ci porta in un preciso segmento storico. La vicenda si muove sull’onda lunga della controriforma. Proprio dopo il Concilio di Trento (1545-1563), una serie di sinodi provinciali con l’emanazione di Constitutiones si dedicano a regolamentare le pratiche mediche per controllarne l’esercizio. Nel corso del Cinquecento la professione medica si istituzionalizza e si consuma il passaggio da arte a scienza alta, che escluderà vieppiù le donne da un territorio che a lungo era stato loro campo di azione, o comunque un campo condiviso.[11] Il momento è, inoltre, particolarmente tribolato per la regione in cui si svolge la vicenda. Nel 1528 Carlo V, accampato nei dintorni di San Miniato, minacciava, creando serie difficoltà, la Repubblica fiorentina. San Miniato faceva parte della diocesi di Lucca, ma insisteva dal punto di vista politico sul territorio di Firenze. Non vi furono battaglie aperte ma il territorio fu vessato da rappresaglie e gravose pressioni fiscali. Quando nel 1531 il potere fiorentino fu nuovamente rinsaldato, l’area che aveva costituito lo scenario dello scontro si trovava gravemente danneggiata, poverissima e con un alto tasso di mortalità infantile. In questo quadro si inserisce il clima di caccia alle streghe che nell’anno 1540 ebbe come esito l’arresto, il processo e il rogo di quattro donne accusate di stregoneria. Il potere politico aveva assecondato credenze popolari e in qualche modo dato sfogo alla rabbia e al malessere generali. Le ‘streghe’ fungevano da capro espiatorio del disagio sociale, da valvola per sfiatare il pericoloso ribollire delle tensioni. Di questi fatti resta l’eco più di cinquant’anni dopo nel processo a Gostanza, che di queste donne si ricorda menzionandole durante gli interrogatori. Nel 1594, accanto alla donna, è il potere ecclesiastico a fare da protagonista, a esprimere la volontà normalizzatrice del potere.

La storia si svolge, dunque, in Toscana. Gostanza viene arrestata, all’età di circa sessant’anni, la notte del 4 novembre presso il castello di Lari (già dal Quattrocento dimora stabile dei Vicari, nonché sede del tribunale, della sala delle torture e delle prigioni). Abitava nella campagna vicina, in un paese chiamato Bagno ad Acqua. Il processo cominciato a Lari si conclude a San Miniato (la cui torre federiciana svetta in apertura e chiusura del film). Il nome della località di Libbiano che si accompagna a quello della donna nel titolo del film, non era il paese d’origine ma una delle sue molte residenze. Per svolgere l’attività di levatrice e domina (foemina) herbarum era costretta a spostarsi, per soccorrere le sue pazienti/i suoi pazienti, ma anche per sfuggire a maldicenze, a vicini sospettosi e maldisposti nei suoi confronti. La sua itineranza si situa tra le cause di quella diffidenza che le attività di curatrice suscitavano. La figura di Gostanza – come probabilmente quella di molte altre donne dedite a pratiche analoghe – resta costantemente in bilico tra potere e prestigio da un lato, sospetto e ostilità dall’altro.

 

3. I personaggi

I personaggi del film sembrano rispettare una sorta di simmetria numerica: sono sostanzialmente sei, tre uomini, tutti nel ruolo di giudici, e tre donne, tutte nel ruolo di ‘imputate’, corrispondenti a diverse età delle quali ciascuno è in un certo senso il portato e il simbolo.[12] Il primo dei giudici coinvolti nella storia è il vicario del vescovo di Lucca, Monsignor Tommaso Roffia, un uomo sui cinquant’anni, appartenente a una delle famiglie più in vista di San Miniato, austero e intellettualmente rigido, duro pure fisicamente nei modi e nei movimenti. Al centro dei suoi interessi sta palesemente un’urgenza pratica: la salvaguardia dell’ordine sociale. A prestargli egregiamente carattere e sembianze è Valentino Davanzati, autentico gesuita livornese. Spesso, alla sua immagine intera, il regista preferisce l’inquadratura in dettaglio della severa bacchetta che l’uomo brandisce con la mano, correlativo oggettivo di una paura doppia, quella attiva che mira a suscitare, e quella passiva che rivela suo malgrado.

A rappresentante il Sant’Uffizio è, invece, un giovane dottore in teologia: Mario Porcacchi da Castiglione (Paolo Spaziani), pedante guardiano del locale convento di San Francesco. L’ambito sul quale insistono le sue domande è connotato dalle problematiche teologiche, immediatamente contigue agli studi recenti. La sua è una presenza morbosa e subdola, la dottrina non lo mette al sicuro dal fascino della ‘maliarda’ Gostanza, che pure si illude di dominare e neutralizzare con la sua cultura libresca, con la modulazione di toni ammiccanti e allusivi. Il terzo giudice, infine, il padre Dionigi da Costacciaro (Renzo Cerrato) è l’Inquisitore generale del territorio fiorentino per la Santa Sede. È un uomo anziano e solido, dalla sagoma massiccia culminante in un volto severo incorniciato da chioma e barba bianchissime. La sua voce roca e densa sembra provenire dall’eco di profondi recessi per rappresentare la legge illuminata e razionale, la più spietata e implacabile. Dionigi da Costacciaro è lo stesso che si troverà quattro anni più tardi tra gli accusatori che portarono al rogo Giordano Bruno.

La prima figura femminile a presentarsi sullo schermo insieme al suo accompagnatore, una sagoma incappucciata che la tiene per mano (si tratta di Porcacchi), è una bambinetta sui sette anni: Dianora (Teresa Soldaini), nipote di Gostanza. La si vede avvicinarsi progressivamente, mentre la notte cede all’alba, attraversando l’intero schermo in diagonale due volte, da sinistra e poi da destra, prima in ombra e poco dopo riconoscibile. Ancora Dianora chiude il film, stavolta perdendosi in lontananza, mentre si tira dietro, tenendola per mano, la nonna. Su questa scena la voce-off del notaio legge la sentenza: assolta come strega, punita come donna curatrice. La presenza della bambina (che subisce anch’essa un breve interrogatorio durante il Prologo del film) svolge un ruolo importante, poiché suggerisce in modo icastico – soprattutto nell’immagine finale – la fiducia nella continuità di un sapere che, seppure osteggiato, è destinato a tramandarsi ancora a lungo per linea femminile. Dianora risponde alle insinuazioni di Monsignor Roffia con grande naturalezza, affermando che la nonna le insegnerà il ‘mestiere’ quando sarà vedova: «l'insegnamento è un filo prezioso che annoda le relazioni delle donne».[13] Il tema, intravisto anche fra gli scambi verbali che intrecciano Gostanza e i suoi inquisitori, è una costante nei processi del genere, i cui resoconti rendono noto un aspetto essenziale di un certo universo femminile, spesso secretato o in ombra. Molte delle imputate, durante i processi per stregoneria, parlano di cose imparate e di cose insegnate, di una conoscenza che è sapienza potente e che diventa sempre più minacciosa inoltrandosi nel Quattrocento. La piccola Dianora, che si trascina dietro una donna ‘negata’, assicura un insperato prolungamento della storia.

A dare risalto per contrasto all’immagine di Gostanza sta il personaggio di Lisabetta, la giovane contadina chiamata in causa, durante il processo, dalla ‘medichessa’ come complice di malie. Le presta il volto Nadia Capocchini, figlia e nipote di contadini toscani. Personaggio di contorno – appare fisicamente solo alla fine –, la donna rappresenta la sua classe sociale: una giovinezza affaticata, una semplicità pulita, un’esistenza grama. Lisabetta è però anche elemento narrativo risolutivo: nel confronto finale fra le due donne scatta una solidarietà che determina il crollo emotivo della protagonista e la sua sconfitta. Un leggero e rapido contatto fra le loro mani rivela il senso dell’amicizia femminile, il calore di un sentimento antico e forte.

Ma tutto il film, anche le inquadrature nelle quali non compare, è dominato dall’intensa e diffusa presenza di Gostanza. Levatrice e curatrice con l’ausilio delle erbe, una specie di erborista antica, la donna era conosciuta come l’indovina. Doveva essere nota e stimata – dichiara di avere curato fra gli altri il medico di Peccioli –, ma anche temuta per l’efficacia dei suoi rimedi e la fama che l’accompagna. Forse una cura non giunta a buon fine – siamo in epoca di epidemie, carestie e alta mortalità infantile – aveva portato la donna davanti ai giudici.

Una breve notazione merita, infine, un personaggio/non personaggio che rimane sullo sfondo: Vincenzo Viviani, notaio pubblico fiorentino e attuario del Vicario Foraneo del Vescovo di Lucca ed estensore degli Atti processuali. Sulla sua mano, nell’atto di verbalizzare tracciando su una pergamena la data con elegante grafia notarile, si avvia il film. Il forte e stridente crepitio del pennino sulla pergamena funge da colonna sonora. Il testimone oculare dei fatti narrati è così collocato all’interno del film, seppure ai margini come a fungere da cornice narrativa. Questa mano è una dichiarazione di ‘poetica’, annuncia l’intento ma anche la scelta stilistica di adesione al documento. Il regista vuole limitarsi a dare forma e voce, immagine e spessore, in altre parole vita, a quella scrittura antica. Viene in mente ancora Dreyer e la sua Giovanna d’Arco, che si apre sulla fotografia del manoscritto originale del processo contro la giovane, conservata nella Bibliothèque Nationale di Parigi, «equivalente filmico di citazione erudita»,[14] ma anche sottolineatura di una scelta narrativa. Il notaio non pronuncia nemmeno una parola (con la sola eccezione di uno stringato, e a mala pena percettibile, dialogo con Monsignor Roffia), ma è la sua voce-off che presenta i personaggi e scandisce i passaggi successivi. Alla prima inquadratura segue una dissolvenza incrociata (la prima di tutto il cinema di Benvenuti): sbiadisce il testo di scrittura e come in sovraimpressione appare la torre federiciana di San Miniato, lo stesso profilo incombente e nero dell’ultimo fotogramma. L’eccezionalità di questo modo di transizione sottolinea, come è stato evidenziato,[15] che ciò che aspetta lo spettatore va guardato, assunto, recepito attraverso il testo del notaio. Dentro il testo Benvenuti trova una realtà storica che si nutre e vive sulla pellicola di verità umana.

 

4. Tra Medioevo ed Età Moderna

Dopo un lungo Prologo, i titoli di testa e la presentazione – quasi teatrale – dei primi due giudici, comincia il ‘gioco delle parti’, la quaestio, un gioco giudiziario con regole precise: la ricerca della verità tramite tortura, la tortura crudele della fune.[16] Il processo del film, come quello verbalizzato sulla pergamena, si articola in due fasi, quasi due processi. Il primo vede all’opera Monsignor Roffia e il giovane Porcacchi. Dopo vari confronti tra la donna e i due giudici, durante i quali alla sofferenza fisica ed emotiva della prima fa riscontro l’ottusa rigidità dei secondi, a un certo punto si ha l’impressione che la verità cavata a forza irrompa a sua volta violenta, con una inaspettata irruenza di contenuti. Un lunghissimo primo piano ritrae, per quasi sette minuti, una Gostanza nuova e viva di inatteso vigore, benché scaturita dal patimento e dall’umiliazione. Inquadrata dall’alto da una cinepresa che segue impercettibilmente i movimenti del suo viso provato, ora la donna è fiera e suadente, sicura nella voce roca e profonda, beffarda e fatale. Sembra che il film cominci da qui.

Le confessioni di Gostanza toccano l’apice con la descrizione della dorata città del diavolo. È interessante la collocazione urbana del regno diabolico, esplicitamente in competizione con Firenze. Sullo sfondo di questo scenario ridondante di lusso, dove gli ori si mescolano a ricche pietanze in un tripudio brulicante di presenze, si consuma il patto con il diavolo mediante giuramento – suggello dell’apostasia – su un libro di poche pagine «sodissime» e segnate in rosso. Il racconto di giorno in giorno si fa più fluente e libero. La donna snocciola le sue storie in un linguaggio fortemente visivo, assaporando ogni sillaba accanto al caminetto crepitante come se narrasse una ‘favola della buonanotte’. Dà la stura a narrazioni avvincenti e dettagliate, che turbano e seducono i suoi interlocutori. Immagini vivide, colorate e concrete scorrono sotto gli sguardi attoniti e rapiti di Porcacchi e Roffia.

Con l’arrivo di Dionigi da Costacciaro cambia nuovamente la direzione della vicenda, e cambia lo scenario, che si sposta finalmente lontano dalla stanza della tortura. Gostanza, di fronte alla compassata sicurezza dell’Inquisitore generale di Firenze, si gioca la carta delle sue segrete origini nobili (è figlia di una serva e del suo padrone) e della compassione: narra lo strazio del suo matrimonio cominciato con uno stupro di gruppo. La donna che le viene in soccorso in tanta disperazione si chiama Cornelia, ed è la stessa che le insegna i segreti delle erbe e la inizia agli incontri diabolici. Davanti a Costacciaro, Gostanza resiste, fiera protagonista di un gran caso: «Voi non avete mai avuto in vita vostra questi gran casi alle mani» e in una incalzante escalation si fa beffe degli ascoltatori, della loro bigotta vecchiaia, apostrofa l’Inquisitore generale come «vecchio corpiterra antico», mentre racconta di pratiche blasfeme, sciorinando i particolari di straordinarie avventure sessuali, di infaticabili prestazioni diaboliche e, infine, si dichiara strega: «Un lampo di fierezza brilla nel suo sguardo quando afferma: “La verità è che io sono una strega”».[17]

Ma con serena lucidità e l’ausilio di una logica imperiosa, che ha come argomento principale l’incorporeità del diavolo, il nuovo arrivato smonta le fantasie della donna:

«I diavoli – dice l’Inquisitore – sono deputati al fuoco eterno in continuo tormento. Non, come l’imputata ha dichiarato, in tanti tripudi, feste e baccanali... Nell’Inferno, non vi è altro che croci, tormento e fuoco eterno. Dove sono continue ed eterne pene. Dove non si gode, non si sollazza, non si lussuria, non si fanno baccanali d'allegrezza... Il Demonio altri non è se non un angelo caduto. E tutti gli angeli Dio benedetto li ha creati incorporei, senza membro atto alla generazione come gli uomini. Se ne consegue quindi definitivamente che ella ha deposto il falso».

Questa severa dichiarazione sconfessa insieme a Gostanza i due giudici del primo processo, che diventano, in qualche modo, imputati del secondo. Conquistati dalla donna «maestra nell’uso della parola parlata», hanno dimenticato le avvertenze seminate nei trattati per i vescovi, e le condanne all’insegna di quanti credono nei fenomeni di stregoneria. Sembra che il primo processo aderisca a «una logica di tipo medievale, mentre il secondo è animato da uno spirito che si potrebbe definire moderno»; come sottolinea Fantuzzi «siamo al punto di confluenza tra due epoche».[18] Nel processo a Gostanza si sovrappongono due giurisdizioni ma anche due diverse concezioni «del potere, della punizione e del controllo».[19] Il primo processo si nutre ancora di retaggi provenienti dal Medievo, da un mondo dove magia e medicina abitano territori limitrofi dai confini spesso confusi, dove poteri occulti e istituzionalmente svincolati sono riconosciuti e temuti. Nel secondo processo domina la volontà di superare quel mondo, i suoi fantasmi e i suoi metodi repressivi. E per questo al rogo e alle torture si sostituiscono le inflessibili argomentazioni della logica, della lucida razionalità, che non mira a distruggere gli esiti di un modo di pensare ma a invalidarne i fondamenti stessi, a cancellare tutta una cultura che si vuole relegare in un passato, il più remoto possibile.

Il processo (o il doppio processo) occupa il film quasi interamente. Per il regista è più importante della pena: inquadratura dopo inquadratura, geometria dopo geometria di quadri essenziali e perfetti, il dibattito sfoglia le sue pagine davanti allo spettatore, scandendone l’avvicendarsi con continue dissolvenze in nero. Il bianco e nero sporco e sgranato della pellicola, antico come la sua storia, è offerto allo spettatore come asciutto spettacolo dell’esercizio del potere: il tribunale è il luogo del controllo sociale.[20] Gostanza alla fine crolla, ma solo davanti a un’altra donna, e la ragione dichiarata delle sue bugie si rivela brutalmente banale: affrettare con una rapida morte la fine del dolore. Dichiara, infatti, senza rassegnazione ma con parole intrise di saggezza ancestrale che ha i tratti dell’indifferenza stoica: «A ogni modo ho da morire una volta». La sentenza finale impone alla donna:

«che non torni più alla sua casa, né che si accosti a tre miglia a quei contorni, sotto pena del carcere e della frusta; sotto le medesime pene le vien proibito di medicare uomini, donne o bestie in modo alcuno; le viene imposto di dire inoltre dove va ad abitare, affinché si possa osservare la sua vita per l’avvenire».

Il conflitto di competenza, tra diocesi di Lucca e Firenze capitale del Granducato, è da ritenere, con ogni probabilità, tutt’altro che estraneo rispetto allo sviluppo assunto dal processo e al suo esito.

 

5. Le fantasie di Gostanza

Prima di venire al tema del doppio, dell’alterità come dimensione che attraversa la pellicola, i suoi personaggi e tutta la storia, in modo preponderante, qualche parola richiedono le straordinarie avventure narrate da Gostanza. I suoi fantasiosi racconti, nucleo centrale di questo ‘film di parola’, sono un formidabile compendio di tradizioni sulle streghe. Costituiscono la prova dell’avvenuta ricezione, a un livello ampio e diffuso, dello statuto della strega e del suo corredo. I racconti che la matura medichessa imbastisce per i suoi interlocutori, almeno nella prospettiva dello spettatore contemporaneo, appaiono surreali, mai risibili, e certamente nemmeno tali da insinuare dubbi sull’efficacia delle arti magiche della stregoneria. Ma lo spettatore è rapito dall’effetto che si riverbera sui primi due giudici, che presto cadono in balìa della capacità affabulatrice della donna, l’unica a reggere il gioco. Avvince il turbamento che i particolari producono su Roffia e Porcacchi. Appassiona la seduzione che esercitano sui due e gli effetti che si generano: la paura impietrita nei lineamenti grigi del primo, la vischiosa curiosità negli occhi torbidi e senza fondo del secondo. E sgomenta l’uso strumentale che la donna sembra consapevolmente farne: una specie di rivincita personale. Le fantasie di Gostanza contengono la storia di una libertà goduta e – durante la prigionia – volentieri ricordata a due che non conoscono, e sono destinati a non conoscere mai, quella forma di libertà. Una libertà che consente ogni tanto di lasciare l’inferno terreno per vagheggiare beatitudini infernali.

Ma queste fantasie, dove si mischiano desideri e vissuto, ricordi e sogni, apparente frutto di una estemporanea e creativa verve narrativa, e certo di un estremo sforzo di resistenza di fronte a una situazione che non prevede scampo, in realtà rivestono un grande interesse storico. Esse condensano nella girandola di personaggi e situazioni evocate, nelle scene che puntellano i racconti con impressionante concretezza, tradizioni documentate sedimentatesi nel corso di secoli intorno all’immaginario delle streghe e del loro mondo. La fantasia di Gostanza si nutre di memoria, attinge a storie già narrate e codificate, come se nel suo parlare si riversasse l’intero patrimonio di caratteri e prerogative che qualificano e definiscono la strega e i fenomeni che le si connettono. Un patrimonio giunto a maturazione nel corso del secolo che l’ha preceduta, come frutto dell’incrocio e della sovrapposizione di vari elementi confluiti da contesti differenti che si fanno risalire a una doppia eredità, derivante da due tradizioni che hanno origine diversa e lontana.[21] La prima è quella del ‘corteo di Diana’. Fra le prime fonti in merito si annovera il Canon episcopi – un’opera prodotta probabilmente in area germanica, durante l’età carolingia –, un’istruzione per i vescovi, che condannava la credenza, diabolicamente indotta, in donne capaci di volare al seguito di una divinità femminile, che nell’area latina è identificata con Diana, ma ha anche tanti altri nomi.[22] Questa tradizione non parla di streghe, è dominata dal tema del convegno femminile e del volo di gruppo. Le donne della corte di Diana vengono ‘demonizzate’ nel corso dei secoli successivi, con un processo cui non è estraneo lo sviluppo dell’immaginario del sabba, avviatosi negli anni Trenta e Quaranta del XV secolo,[23] il quale a sua volta favorirà la confluenza dei due diversi filoni. La seconda eredità fa capo alla tradizione letteraria del mondo antico delle striges o lamiae, donne/uccello che si trasformano per mezzo di unguenti, víolano cadaveri e succhiano il sangue dei bambini (Orazio, Arte poetica 338-340; Ovidio, Fasti VI, 131-148; Petronio, Satyricon 63) o di donne capaci di efferati delitti e rituali spaventosi spesso ancora ai danni di bambini, come la Medea di Seneca (Seneca, Medea 732-734), o la Erichto di Lucano, che smembra spoglie mortali come un rapace (Lucano, Pharsalia 508-561). Metamorfosi, vampirismo e/o danni ai bambini sembrano esserne i caratteri ricorrenti.

Alla predicazione dell’Osservanza francescana, che ha in Bernardino da Siena uno degli italiani più rappresentativi, si deve l’introduzione nell’Italia quattrocentesca della parola strega corredata da alcuni attributi e stereotipi. Essi ne costituiranno sempre più intrinsecamente il profilo e sono già l’ibridazione delle due diverse radici tradizionali, arricchite dal riferimento a incantamenta e sortilegia, attività inerenti alla raccolta e all’uso di erbe magiche/medicinali, all’interpretazione/diagnosi delle malattie.[24] Ma solo negli ultimi decenni del secolo la stregoneria andrà assumendo un carattere fenomenologico definito, nel quale infine si mescolano l'irrealtà di millantate pratiche magiche, solo illusorio esito di malefici diabolici (voli, metamorfosi, sortilegi), e la realtà di attività medico-assistenziali (spesso legate alla nascita di bambini e al puerperio), che non sempre andavano a buon fine, suscitando così ostilità e sospetto fino a essere configurate come crimini. Se dunque alla stregoneria, intesa in senso stretto, non può legittimamente attribuirsi alcuna efficacia o potere poiché è solo inganno e illusione, operati da forze demoniche, d’altra parte alle donne (per lo più vetulae e viduae) che di questa illusione sono insieme artefici e vittime si imputano all’occorrenza reali misfatti, per i quali vanno punite.

Dentro le avventure e i racconti di Gostanza c’è tutto questo: la riunione sotto il noce, il volo notturno, gli unguenti, la metamorfosi in gatta, il patto con il diavolo, le orge sessuali, il vampirismo, l’infanticidio, l’assistenza ai malati, la misurazione dei panni, la conoscenza dei segreti delle erbe. Dentro i suoi racconti realtà e irrealtà si compenetrano in modo indistinto, senza soluzione di continuità, offrendo il riflesso di un mondo dalle regole fluide, dai saperi contaminati, dalle identità cangianti, dove la curatrice/strega è una figura liminale, prestigiosa e potente, pericolosa e temuta, i cui racconti rischiano di essere autenticati se qualcuno ci crede. Le sollecitazioni dei giudici e i viaggi narrativi in territori altrimenti esplorati dell'imputata testimoniano che un certo patrimonio, oltre a offrire materiale agli artisti (pittori, incisori, scultori) o a nutrire le pagine dei libri specializzati in materia,[25] era alla portata anche di chi non sapeva leggere e scrivere. Era entrato nel quotidiano condizionandone la mentalità e perfino i ritmi della vita vissuta. Da questo punto di vista il film è molto più che un processo per stregoneria, è una finestra su una porzione di passato (forse non del tutto passato) che si lascia percepire come vitale e autentico, straordinariamente reale. È una lezione di Storia che arriva ai suoi fruitori sollecitandone la sensibilità prima che la mente, attraverso la ricerca di un estremo rigore formale che passa dalla regola less is more.[26] Quella di Gostanza è una storia nella Storia, concreta e commovente, una verità umana e poetica, la cui storicità ne suggella i connotati come simbolo di tante storie.

 

6. Un film sull’alterità

L’alterità appare l’elemento forte e la cifra dominante di tutta la pellicola, prevalente anche sull’identità cristica del personaggio, in varie inquadrature fortemente sottolineata, soprattutto nelle scene dell’innocenza umiliata. Appesa a un crocifisso la sagoma di Gostanza occupa a un certo punto tutta l’inquadratura, per effetto della fotografia che ne ritrae l’ombra sospesa alla fune e proiettata dentro la cornice della finestra.[27] Anche il crocifisso del resto è simbolo di un’alterità rifiutata, negata, vilipesa, temuta e incompresa.

L’alterità si legge a vari livelli, che inglobano il religioso in modo vario. In primis si impone all’attenzione quella di genere, dove i rapporti di forza fra maschile e femminile non sembrano fissati una volta per sempre, ma si sviluppano in un confronto dinamico, pure quando l’esito è una condanna annunciata. I ruoli a tratti sembrano alternati. Anche architettonicamente questa alterità, che mi sembra più interessante del conflitto come criterio di lettura, è richiamata dalla torre federiciana di San Miniato (totem fallico a tutti gli effetti) e dalla cisterna intorno alla quale gioca la piccola Diamora (simbolo di misteriose, feconde profondità).[28]

Con il tema dell’alterità di genere si coniuga l’alterità dei poteri. Il potere della Chiesa istituzionale e maschile da una parte, depositario e garante della verità assoluta, che legittima a esercitare la coercizione e la violenza per il bene ‘pubblico’, per calmierare le tensioni sociali. E dall’altra, il potere ‘carismatico’ femminile, della donna che assiste gli infermi e i bisognosi esercitando l’arte della medicina, il potere di levatrice – remoto appannaggio muliebre – che la colloca in equilibrio instabile tra la vita e la morte e nel dominio rischioso e umbratile della prima infanzia. Questo potere conferisce alla donna un notevole prestigio sociale, Gostanza assicura di avere curato il medico di Peccioli che l’ha personalmente consultata: è medichessa dei medici. All’alterità sessuale, come alterità di poteri e competenze, si riconnette dunque l’alterità di saperi. Gostanza è depositaria di un antico sapere, tramandato di generazione in generazione, da donne che esercitano la sua stessa professione; un sapere altro rispetto a quello ufficiale, che intreccia conoscenze arcane e conoscenze pratiche, dimestichezza con il mondo della natura e con i segreti della vegetazione (sono le donne ad avere scoperto l’agricoltura?) insieme all’esperienza della nascita e dell’accudimento. Quelli delle donne sono saperi sfuggenti, non codificati, e difficili da controllare, per questo guardati con diffidenza dall’autorità ecclesiastica e/o civile, comunque maschile, che storicamente si muoverà sempre per imbrigliarli e controllarli. Si intravede in questa prospettiva anche l’alterità tra reale e irreale, due dimensioni che nella letteratura, cui si deve la produzione e la diffusione della fenomenologia della strega, si sovrappongono e separano incessantemente: realtà delle pratiche/irrealtà degli incantesimi; condanna delle donne-streghe/condanna delle credenze nelle donne-streghe. In bilico su questa alterità poggia la nostra storia, che nell’esito del processo mostra tutta l’alterità tra un Medioevo prescientifico e un’Età Moderna in cammino verso la razionalizzazione della conoscenza.

Personaggi e storia mettono in scena anche l’alterità tra centro e periferia in termini di potere centrale e fragilità dei marginali, che investe pure i poteri ecclesiastici: il vicario di Lucca (alla cui diocesi appartiene San Miniato) cede all’autorità dell’Inquisitore generale per il territorio di Firenze, nominato dalla Santa Sede. Gostanza divide la Chiesa ieri come oggi. Ieri tra rogo ed esilio, oggi tra estimatori e critici, tra sensibilità storica e paura della divulgazione. Quando il film uscì, nel 2000, Giovanni Paolo II aveva appena chiesto ufficialmente scusa e perdono per gli orrori della Chiesa (condanne e roghi realizzati dalla Santa Inquisizione compresi). Il film poteva essere un’occasione, che però fu colta solo tangenzialmente.[29]

Ma l’alterità che più sta a cuore al regista è quella tra libertà dell’individuo e autorità delle istituzioni, alla quale Benvenuti ha dedicato il trittico che questo film completa.[30] Si tratta dell’alterità tra due diverse concezioni della vita, che si oppongono reciprocamente, fra ranghi antichi costrittivi e slanci moderni di una donna che a sessant’anni vagheggia l’amore sensuale e passionale di un amante demonio.

Il film segue una parabola che dalla forza sconvolgente e insidiosa dei racconti di una donna coraggiosa e fiera giunge al depotenziamento dell’immagine di strega attraverso la dichiarazione di follia. La negazione della ‘potenza’ della strega include così la negazione della donna, del suo ruolo, della sua identità, l’annullamento delle sue risorse vitali, lo sconvolgimento dei suoi equilibri: non potrà più abitare la sua casa, la sua piccola comunità di donne vedove, sole e operose come lei, non potrà esercitare la sua arte che è anche il suo mestiere, il mezzo per sostentarsi. A Gostanza si risparmia il rogo, ma la cancellazione della sua identità cui la sentenza – apparentemente clemente per i tempi – aspira, sembra ridurre comunque in cenere tutta la sua esitenza, vanificare la fatica di una collocazione sociale conquistata con lacrime e sangue.

Il film si potrebbe dividere in due parti corrispondenti alle due metà del titolo che ho dato a questa riflessione, e volutamente separato con la barra diagonale, a loro volta corrispondenti ai due ruoli di ‘donna medichessa’ e ‘donna negata’ interpretati da Gostanza nel corso dei due processi intentati contro di lei senza soluzione di continuità. La potenza della strega non è infatti banalmente quella dei poteri magici, ma quella dei poteri femminili in epoche carismatiche, quella della libertà individuale che le donne cristiane durante l’era remota delle origini hanno goduto,[31] della libertà che si esprime nel sapere, nel conoscere, nel potere parlare apertamente, nel vivere autonomamente in autosufficienza, nel piacere di sognare, di desiderare semplicemente. Così come nell’impotenza della donna non c’è solo la forzata cancellazione di un’identità femminile prestigiosa e socialmente forte, c’è anche la madre di Gostanza, serva ingravidata dal padrone, c’è una Gostanza bambina violentata da un gruppo di uomini che la lasciano ferita e scarnificata come la preda esangue di un branco di lupi.

«Un giorno – racconta Gostanza – quand’ero una fanciulletta di otto anni, trovandomi alla Fratta, la villa di mio padre, mentre che stavo da sola davanti alla casa, passarono di lì tre pastori che tornavano di Maremma. Mi presero in collo e mi menarono via. Mi portarono a Vernio, in casa di Francesco di Lorenzo, perché Lenzo, il suo figliolo, quello che mi aveva preso, mi sposò e mi prese per moglie. Pensate che strazio fu dormire con questo Lenzo essendo io di poca età! E avete a sapere, padre, poiché io vi ho a dire le mie vergogne, che i lupi non mangiarono tanta carne quanta ne fu strappata a me. Che essendo bambina di quell’età, mi rovinarono e mi rivoltarono nelle lenzuola tutta la notte».

1 Circa quest’interessante esperienza di ricerca si vedano le pagine di S. Botta, T. Canella, 'Le religioni e le arti: un seminario interdisciplinare', Le Forme e la Storia, n.s. VI, 2013/1, pp. 189-198.

2 A. Prosperi, Introduzione a Dies Irae, in L. Caretti, D. Corsi (a cura di), Incanti e sortilegi. Streghe nella storia e nel cinema, Pisa, Edizioni ETS, 2002, pp. 134. I personaggi femminili di Dreyer appaiono spesso come precursori, referenti e modello di questa Gostanza di Benvenuti.

3 M. Anselmi, ‘Il film su Gostanza erborista torturata dal santo tribunale’, L'Unità 30, aprile, 2000.

4 Cfr. A. Prosperi, Introduzione a Dies Irae, pp. 139-140.

5 Cfr. L. Guarneri, s.v. Storico, film, in Enciclopedia del Cinema (2004) http://www.treccani.it/enciclopedia/film-storico_(Enciclopedia-del-Cinema)/ [accessed 22 April 2014].

6 Sulla formazione e sulle caratteristiche del latino cristiano alcune pagine utili in M. Morani, Introduzione alla linguistica latina, München, Lincom Europa, 2002.

7 Sul rigore etico e metodologico di Benvenuti, come vie per realizzare ogni suo film, si vedano le pagine dell’amico V. Fantuzzi, 'Paolo Benvenuti: un’anima dietro le sbarre', Arabeschi, 3, 2014, pp. 29-37, dove si ripercorre la storia di un rapporto e di un approccio al cinema.

8 Come è stato scritto, la fedeltà di Benvenuti al testo sta «nella scelta di renderlo protagonista del film, di non tradurlo in immagini, di lasciarlo allo stato narrativo, di parola ‘detta’, di non mutarne in nessun caso la natura». Cfr. I. Bucciarelli, Sul set di Gostanza da Libbiano, in L. Caretti, D. Corsi (a cura di), Incanti e sortilegi. Streghe nella storia e nel cinema, p. 213. Sceneggiatura (di Stefano Bacci, Paolo Benvenuti, Mario Cereghino) e trascrizione del manoscritto si trovano in L. Caretti (a cura di), Gostanza da Libbiano di Paolo Benvenuti, Pisa, Edizioni ETS, 2000, rispettivamente pp. 17-80 e 105-192.

9 Cfr. U. Longo, La passione di Dreyer per Giovanna d’Arco, in S. Botta, E. Prinzivalli (a cura di), Cinema e religioni, Roma, Carocci, 2010, pp. 65-79. Sul tema della stregoneria variamente declinato, segnalo una breve essenziale bibliografia di riferimento: C. Ginzburg, I benandanti. Ricerche sulla stregoneria e sui culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Torino, Einaudi, 1966; Id., Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Torino, Einaudi, 1989; M. Craveri, Sante e streghe, Milano, Feltrinelli, 1980; D. Corsi, ‘Dal sacrificio al maleficio. La donna e il sacro nel'eresia e nella stregoneria’, Quaderni medievali, XXX, 1990, pp. 8-62; Ead., Diaboliche, maledette e disperate le donne nei processi per stregoneria (secoli XIV-XVI), Firenze, Firenze University Press, 2013; D. Corsi, M. Duni (a cura di), Non lasciar vivere la malefica: le streghe nei trattati e nei processi (secoli XIV-XVII), Firenze, Firenze University Press, 2009 (all’interno di questo volume soprattutto: M. Duni, Le streghe e gli storici, 1986-2006: bilanci e prospettive, pp. 1-18; D. Corsi, ‘Mulieres religiosae’ e ‘mulieres maleficae’ nell’ultimo Medioevo, pp. 19-44; T. Herzig, H. Kramer e la caccia alle streghe in Italia, pp. 167-196); G.G. Merlo, Streghe, Bologna, Il Mulino, 2006; W. Behringer, Le streghe, Bologna, il Mulino, 2008.

10 Cfr. S. Nannipieri, M. Lombardi, A. Orlandi, Le streghe si San Miniato, in L. Caretti (a cura di), Gostanza da Libbiano di Paolo Benvenuti, pp. 81-103, sulla vicenda del fortunoso ritrovamento soprattutto pp. 83-84; R. Chiesi, Il teatro della donna che si finse strega. Gostanza da Libbiano, in A. Morsiano, S. Agusto (a cura di), Le maschere della storia. Il cinema di Paolo Benvenuti, Milano, Il castoro, 2010, pp. 55-64.

11 In tema si vedano: J. Agrimi, C. Crisciani, Malattia, malato, medico nell’ideologia medievale, in Storia della sanità in Italia. Metodo e indicazioni di ricerca, Roma, ‘Il Pensiero Scientifico’ Editore, 1978, pp.163-185; e delle stesse autrici: Immagini e ruoli della ‘vetula’ tra sapere medico e antropologia religiosa (secoli XIII-XV), in A. Paravicini Bagliani, A. Vauchez (a cura di), Poteri carismatici e informali: chiesa e società medioevali, Palermo, Sellerio editore, 1992, pp. 224-261. Tra le pubblicazioni più recenti: D. Santoro, La cura delle donne. Ruoli e pratiche femminili tra XIV e XVII secolo, in P. Marcello, M.A. Russo, D. Santoro, P. Sardina (a cura di), Memoria, storia e identità. Scritti per Laura Sciascia, Palermo, Associazione Mediterranea, 2011, II, pp. 779-803.

12 Lo stesso Benvenuti precisa che la scelta di mettere in scena tre uomini e tre donne corrisponde all’esigenza di rappresentare tre tipi maschili e tre femminili; cfr. G. Fofi, Conversazione con Paolo Benvenuti, in L. Caretti (a cura di), Gostanza da Libbiano di Paolo Benvenuti, pp. 193-200.

13 D. Corsi, Le donne nei processi medievali alle streghe, in L. Caretti, D. Corsi (a cura di), Incanti e sortilegi. Streghe nella storia e nel cinema, pp. 51-72, particolarmente 68 sgg.

14 A. Prosperi, Introduzione a Dies Irae, p. 140.

15 Cfr. G.L. Roncaglia, Inquadratura, etica e storia. Il cinema di Paolo Benvenuti, Palermo, L’Atalante, 2003, pp. 53-57.

16 M. Foucault, Sorvegliare e punire, nascita della prigione [1975], trad. it. di A. Tarchetti, Torino, Einaudi, 1993. Su tribunali e Inquisizione si vedano: A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino, Einaudi, 1997; G.G. Merlo, Inquisitori e Inquisizione del Medioevo, Bologna, Il Mulino, 2008.

17 V. Fantuzzi, ‘Gostanza da Libbiano’, La Civiltà Cattolica, 2001 II, pp. 49-61: «Forse spera di ottenere, con la condanna, una sorta di conferma ufficiale del suo ruolo di donna dotata di poteri straordinari, sancita dai rappresentanti del potere legittimo. Una simile aspirazione, benché possa sembrare aberrante, non è in contrasto con la logica che caratterizza la prima parte del processo».

18 Ibidem.

19 I. Bucciarelli, Sul set di Gostanza da Libbiano, pp. 208-223, 211-212.

20 Ibidem.

21 In proposito, cfr. M. Montesano, L’avventura semantica della parola ‘strega’, in L. Caretti, D. Corsi (a cura di), Incanti e sortilegi. Streghe nella storia e nel cinema, pp. 31-49.

22 Ripreso brevemente da Reginone di Prüm (IX-X sec.), De ecclesiasticis disciplinis et religione christiana libri duo, II, 364, PL 132, col 352, e più tardi – poco più estesamente – da Bucardo di Worms, Corrector et medicus (Decretorum libri XX), PL 140, coll. 963-964, recita: «Pretendono e dichiarano di cavalcare nelle ore della notte più profonda, esse con un’innumerevole folla di altre donne, insieme con la dea pagana Diana, a cavalcioni su certi animali e di percorrere col favore del silenzio notturno spazi immensi. [...] Molte persone, indotte in errore, credono che queste cose siano vere e in tal modo si allontanano dalla vera fede e ricadono nell’errore pagano, stimando che possa esistere qualche altra divinità o potenza divina oltre l’Unico Iddio. È invece il diavolo che assume ogni sorta di apparenze e figure umane e, ingannando per mezzo dei sogni le anime che tiene prigioniere, mostra loro cose ora allegre ora tristi, ora persone sconosciute: in tal modo induce in errore e, mentre impegna con le sue menzogne soltanto lo spirito, fa sì che il superstizioso abbia l’impressione che quel che vede non accada solo nella sua mente, bensì nella realtà concreta».

23 Cfr. A. Paravicini Bagliani, La genesi del sabba. Intorno all’edizione dei testi più antichi, in L. Caretti, D. Corsi (a cura di), Incanti e sortilegi. Streghe nella storia e nel cinema, pp. 15-29.

24 Bernardino parla di streghe che pretendono di usare unguenti capaci di produrre metamorfosi in gatte e altri animali, di crudelissimae mulieres dedite a voli notturni, relegando le une e le altre al rango di illusorie credenze suscitate da inganno diabolico, ma parla anche di levatrici assassine cui attribuisce la qualifica di streghe in senso figurato.

25 Penso per esempio al Malleus Maleficarum, un testo pubblicato in latino nel 1487 dai frati domenicani Jacob Sprenger e Heinrich Institor Kramer, allo scopo di soddisfare l’urgenza di reprimere l’eresia, il paganesimo e la stregoneria in Germania.

26 Forte è nella filmografia di Benvenuti l’elemento didascalico, per cui sottende la costruzione di ogni storia quasi un vero e proprio progetto pedagogico, una tendenza in parte ereditata dall’esperienza al fianco di Rossellini. Sulla formazione di Benvenuti si veda P. Benvenuti, Trent’anni di cinema, in G. Fofi, Paolo Benvenuti, Alessandria, Falsopiano, 2003, pp. 62-76. Sul linguaggio cinematografico di Benvenuti cfr. anche M. Guerra, ‘Il cinema di Paolo Benvenuti: discorso sul metodo’, Arabeschi, 3, 2014, pp. 38-45.

27 Cfr. E. Alberione, ‘Gostanza da Libbiano’, Panoramiche, 28, inverno, 2000: «La natura “cristica” del personaggio è icasticamente scolpita dall’inquadratura in cui, dopo che gli inquisitori si allontanano, la macchina da presa compie un leggero movimento verso il basso (tanto più significativo in un cinema di quadri fissi) in modo da nascondere e inscrivere perfettamente il corpo di Gostanza nella sagoma del crocifisso».

28 Cfr. ancora V. Fantuzzi, ‘Gostanza da Libbiano’.

29 Anselmi aveva auspicato e commentato: «sarebbe bello che la Chiesa, nell’anno in cui Giovanni Paolo II ha chiesto pubblico perdono per i peccati commessi dalla Santa Inquisizione, si misurasse senza pregiudizi con questo film. Se il gesuita Virgilio Fantuzzi, estimatore di Benvenuti e critico cinematografico di Civiltà Cattolica, loda Gostanza da Libbiano al punto da raccomandarne la visione al Papa, c’è chi al contrario in Vaticano storce il naso, parlando di “panni sporchi da lavare in famiglia” e avvertendo, con San Paolo: Mulieres in Ecclesiis taceant. Ovvero: le donne tacciano sulle cose che riguardano la Chiesa. Per Gostanza si prepara un altro rogo?» (‘Il film su Gostanza erborista torturata dal santo tribunale’). Si vedano anche G. Manin, ‘Cinema, una strega italiana divide la Chiesa’, Corriere della Sera, 25 aprile 2000; S. Silvestri, ‘Papa vs Donna’, Alias (supplemento de Il Manifesto) 3 marzo 2001.

30 L’attenzione di Benvenuti, come accade nei suoi film precedenti, si concentra su una creatura umiliata e calpestata. Soprattutto negli altri film del suo trittico pittorico a sfondo ‘religioso’, i protagonisti sono persone in lotta per difendere la propria identità insidiata da forze avverse. Così è ne Il bacio di Giuda, il cui protagonista, a detta del regista, ha la prerogativa di essere il solo tra gli Apostoli a capire, in anticipo sugli altri, il significato arcano delle parole del Maestro e finisce, suo malgrado, con l’incarnare agli occhi di tutti il simbolo del tradimento. E qualcosa di simile è messo in scena nel film Confortorio, dove Angeluccio e Abramo, i due ebrei condannati a morte per un furto con effrazione (forse da addebitare ad altri), devono difendere la propria identità di contro i tentativi dei «confortatori» - cioè gli incappucciati dell’arciconfraternita di San Giovanni Decollato coadiuvati da diversi religiosi, i quali, nella notte che precede l’esecuzione, cercano invano di convertirli per poterli battezzare ai piedi del patibolo e mandare così direttamente le loro anime in Paradiso.

31 Il quadro che le origini del Cristianesimo offrono a questo proposito è uno scenario poco definito e fluttuante, già a partire dalla prima comunità gesuana, con le sue numerose e assai spesso sfuggenti presenze femminili. Il dato emergente per quanto riguarda i primi tre secoli è l’ambiguità del rapporto fra donne e Cristianesimo, insieme alla disomogeneità degli spazi occupati dalle donne o a esse riservati nella religione cristiana. Quando a partire dal IV sec. il Cristianesimo si ‘allea’ con l’Impero e diventa una realtà fortemente istituzionalizzata, le donne vengono sempre più drasticamente escluse da ruoli di evidenza pubblica, e perde forza anche la categoria delle vedove che avevano costituito abbastanza a lungo un'identità originale e forte. Su questo processo si veda R. Barcellona, Una società allo specchio. La Gallia tardoantica nei suoi concili, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012 (in particolare il capitolo intitolato: Donne e clero. Verso l’esclusione).