Romeo Castellucci, Go Down, Moses

di

     

Il teatro è un luogo di rivitalizzazione degli archetipi e occupa ancora un posto centrale nell’elaborazione dell’immaginario individuale e collettivo. Lo si vede chiaramente nel lavoro della Socìetas Raffaello Sanzio e di Romeo Castellucci, quando tematizza il rapporto fra immagine e rappresentazione chiamando in causa lo spettatore.

In Go Down, Moses – andato in scena al Teatro Argentina di Roma dal 9 al 18 gennaio – la qualità simbolica dell’immagine, che non è mai soltanto un artefatto visuale, sembra andare proprio là dove il paradosso iconoclastico dell’Occidente – ovvero la continua dialettica fra rifiuto delle immagini e resistenze dell’immaginario – si è reso maggiormente osservabile, cioè alle origini della religione e della cultura giudaico-cristiana. Basti pensare che, prendendo il titolo da uno spiritual americano in cui l’esodo del popolo di Israele trasmigra nell’epopea degli schiavi afro-americani e dall’omonimo romanzo di William Faulkner, lo spettacolo utilizza la potenza narrativa della religione, e più precisamente della Bibbia e del libro dell’Esodo, per sincronizzare il mito con la sostanza del nostro tempo. Il che significa rintracciare le parole chiave del mito – abbandono e salvezza, schiavitù ed erranza, deserto e solitudine, ma soprattutto immagine senza rappresentazione (il roveto ardente, immagine di Dio che afferma «sono colui che sono») e rappresentazione senza immagine (il vitello d’oro, il simulacro, la falsa immagine) – per ritrovarle dissolte, insieme alla figura del patriarca e la sua vicenda, nel dispositivo drammaturgico e nelle scene.

Il nucleo centrale dello spettacolo può quindi essere rintracciato nella proiezione della figura di Mosè in quella di un bambino abbandonato in un cassonetto, così da veder calare il mito nella quotidianità tragica in cui la donna, che vediamo partorire in solitudine in un bagno pubblico, esprime tutta la potenza dell’archetipo: madre amorevole e terribile insieme. Ma se l’abbandono del figlio-Mosè è giustificato in nome di una speranza di salvezza, nei nostri tempi questo gesto va compreso scientificamente, spiegato razionalmente. Forse per questo motivo la donna viene sottoposta alla risonanza magnetica anche se poi da quella macchina ci si ritrova proiettati in un passato primitivo, dentro una caverna, dove un gruppo di ominidi compie azioni originarie come mangiare, accoppiarsi o affrontare la morte di un figlio, seppellito dalla madre.

©Guido Mencari

È sempre la madre ominide a scrivere SOS sul velario e a battere forte sulla quarta parete trasparente per chiamare il pubblico e noi tutti a condividere il dolore primordiale, il più forte di tutti, unendo di fatto tutte le madri del mondo.

Le scene, concepite per quadri e frammenti, sono tenute insieme non tanto dalla linearità narrativa quanto da precise scelte formali, estetiche e visive. Scelte che se, da un lato, ci ricordano che il teatro è un dispositivo dello sguardo (mediologico), dall’altro ribadiscono la centralità dell’immagine sul piano dell’esperienza individuale e sociale, da cui, come afferma lo stesso Castellucci, non si può sfuggire. Proprio per questo l’immagine continua a essere terreno di scontro, iconoclash per dirla con Bruno Latour, come dimostrano peraltro i fatti di questi giorni e alcuni episodi legati al teatro di Castellucci.

©Guido Mencari

Lo spettacolo inizia, mentre ancora gli spettatori prendono posto in sala, con un gruppo di attori in abiti borghesi, sobriamente eleganti in colori pastello, che guardiamo come se fossero dietro lo schermo di un televisore degli anni sessanta, effetto del velatino che opacizza e sfuma la visione, mentre si aggirano sul palco misurando lo spazio, misurandosi fra loro, componendo strani tableaux vivants.

©Guido Mencari

Sullo sfondo campeggia l’immagine di un coniglio, gigantografia di The Young Hare di Albrecht Durer, che ritorna nel corso dello spettacolo, segno-simbolo di quel rapporto fra realtà e finzione (come nell’Alice di Lewis Carroll) che qualifica le opere dell’immaginario e il loro specifico statuto di ‘realtà’. Le scene si susseguono inframezzate da momenti di buio e dall’installazione visiva e sonora formata da un grande tubo che rotea vorticosamente e rumorosamente fino a quando in esso non s’impigliano dei capelli calati dal soffitto. Nel quadro successivo appare, come in un fermo immagine, un cassonetto illuminato dalle luci della strada. In quello dopo ancora il pubblico ‘l’occhio belva’ che vìola l’intimità della madre chiusa nel bagno ricostruito minuziosamente e poi nel commissariato dove viene interrogata.

©Guido Mencari

Pertiene ancora alle immagini il passaggio nella risonanza magnetica che permette allo sguardo scientifico di penetrare nel cervello, di ‘virtualizzare’ il corpo per capirne le intenzioni, anche se poi quel cervello è ancorato al passato primordiale della specie. Un passato che non può essere visto perché è nel simbolico della vita, risiede nell’inconscio collettivo e perciò può soltanto essere guardato attraverso un paesaggio ancestrale – la scena finale della caverna, metafora del femminile e della maternità – messo mirabilmente in forma come se fosse un diorama o forse, piuttosto, una fantasmagoria.

 

©Guido Mencari

 

Go Down, Moses

di Romeo Castellucci

regia, scene, luci, costumi: Romeo Castellucci

testi: Claudia Castellucci e Romeo Castellucci

musica: Scott Gibbons

con: Rascia Darwish, Gloria Dorliguzzo, Luca Nava, Stefano Questorio, Sergio Scarlatella

assistente alla scenografia: Massimiliano Scuto

assistente alla creazione luci: Fabiana Piccioli

direzione della costruzione scenica: Massimiliano Peyrone

sculture di scena, automazioni, prosthesis: Giovanna Amoroso, Istvan Zimmermann

realizzazione dei costumi: Laura Dondoli

assistenza alla composizione sonora: Asa Horvitz

tecnica di palco: Claudio Bellagamba, Michele Loguercio, Filippo Mancini

tecnica del suono: Matteo Braglia

tecnica delle luci: Danilo Quattrociocchi

produzione: Benedetta Briglia, Cosetta Nicolini

Foto: Guido Mencari

Produzione: Teatro di Roma e Socìetas Raffaello Sanzio

in co-produzione con Théâtre de la Ville with Festival d’Automne à Paris; Théâtre de Vidy-Lausanne; deSingel International Arts Campus /Antwerp; La Comédie de Reims Maillon, Théâtre de Strasbourg / Scène Européenne; La Filature, Scène nationale-Mulhouse, Festival Printemps des Comédiens; Athens Festival 2015, Le Volcan, Scène nationale du Havre; Adelaide Festival 2016 Australia; Peak Performances 2016, Montclair State-USA;

Con la partecipazione del Festival TransAmérique-Montreal