Il 27 febbraio 2021 la redazione di Arabeschi ha incontrato attraverso un collegamento online lo scrittore Tommaso Pincio, al quale è dedicata la rubrica Incontro Con del numero 17. La conversazione è stata curata da Elena Porciani con il supporto tecnico di Vittoria Majorana, Damiano Pellegrino e Giovanna Santaera.

L’incontro ha toccato alcuni punti cruciali della formazione artistica e visuale dello scrittore, la sua concezione del cinema e della figuralità, gli intrecci praticati tra l’iconografia tradizionale e gli usi novecenteschi dell’immagine, il modello autofinzionale di Dante e l’ambivalente preminenza dell’autore nella contemporaneità, il confronto con Caravaggio, il futuro del rapporto fra testo e immagine.

Si propone qui la trascrizione integrale della videointervista, presentata in formato ridotto nel montaggio video.

 

 

 

 

1. Le immagini nel testo: la formazione artistica e il modello cinematografico

 

Elena Porciani: La prima domanda da cui partire potrebbe essere: come lavora Tommaso Pincio? In particolare, vorremmo chiederle come entra la sua formazione artistico-visuale nella costruzione delle sue opere. In un testo di qualche anno fa, Irrazionalismo urbano, ha affermato: «la pittura mi ha insegnato a vedere, a scrivere anche con gli occhi oltre che con le parole».1 È un’affermazione che si sente ancora di sottoscrivere?

 

Tommaso Pincio: Direi di sì. Uno dei maggiori rischi che può correre uno scrittore è quello di guardarsi dentro, dentro la propria mente o anche la mente di altre persone, di concentrarsi sulla dimensione interiore – del pensiero, dei sentimenti o delle paure, delle angosce – e prestare poca attenzione, dimenticarsi del mondo che ci circonda e degli stimoli più sensoriali, a cominciare dalla vista, che più facilmente vengono dimenticati perché sono più persistenti. Noi vediamo sempre, anche quando dormiamo, ma in un certo senso vediamo anche in sogno quando sogniamo. Diamo la vista per scontata perché è una porta costante sul mondo mentre gli altri sensi ci arrivano quando uno stimolo si presenta. Gli odori e i suoni devono manifestarsi da fuori. Essendo così persistente, la vista rischia di diventare per paradosso invisibile. È un bene, quindi, che gli scrittori non dimentichino di guardare le cose, di guardare il mondo, di provare ad arrivare all’interno delle cose e delle persone anche attraverso le manifestazioni del visibile.

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Il teatro è un luogo di rivitalizzazione degli archetipi e occupa ancora un posto centrale nell’elaborazione dell’immaginario individuale e collettivo. Lo si vede chiaramente nel lavoro della Socìetas Raffaello Sanzio e di Romeo Castellucci, quando tematizza il rapporto fra immagine e rappresentazione chiamando in causa lo spettatore.

In Go Down, Moses – andato in scena al Teatro Argentina di Roma dal 9 al 18 gennaio – la qualità simbolica dell’immagine, che non è mai soltanto un artefatto visuale, sembra andare proprio là dove il paradosso iconoclastico dell’Occidente – ovvero la continua dialettica fra rifiuto delle immagini e resistenze dell’immaginario – si è reso maggiormente osservabile, cioè alle origini della religione e della cultura giudaico-cristiana. Basti pensare che, prendendo il titolo da uno spiritual americano in cui l’esodo del popolo di Israele trasmigra nell’epopea degli schiavi afro-americani e dall’omonimo romanzo di William Faulkner, lo spettacolo utilizza la potenza narrativa della religione, e più precisamente della Bibbia e del libro dell’Esodo, per sincronizzare il mito con la sostanza del nostro tempo. Il che significa rintracciare le parole chiave del mito – abbandono e salvezza, schiavitù ed erranza, deserto e solitudine, ma soprattutto immagine senza rappresentazione (il roveto ardente, immagine di Dio che afferma «sono colui che sono») e rappresentazione senza immagine (il vitello d’oro, il simulacro, la falsa immagine) – per ritrovarle dissolte, insieme alla figura del patriarca e la sua vicenda, nel dispositivo drammaturgico e nelle scene.

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