Il film Incendies (2010) di Denis Villeneuve (presentato in Italia con il titolo La donna che canta), nato dall’adattamento per il grande schermo della omonima pièce di Wajdi Mouawad, mostra nella sua complessa stratificazione intertestuale e intermediale, insieme a diversi riferimenti al mito classico, evidenti rimandi alla tragedia edipica, riscritti e riletti in un contesto di dislocazione complessiva, che investe personaggi, spazi, temi e struttura drammaturgica. La pièce dell’acclamato artista libano-canadese, Incendies (2003), secondo atto della quadrilogia scenica Le sang des promesses (che comprende Littoral, 1999; Forêts, 2006 e Ciels, 2011) lascia emergere echi molto evidenti rispetto al testo sofocleo e alla sua tradizione e ricezione, echi che vengono ripresi e rideclinati nella trasposizione cinematografica in modo a volte originale a volte fedele alla scrittura di Mouawad. Il presente studio propone dunque un caso in cui è necessario intrecciare e sovrapporre gli apporti diversi provenienti dalla mitocritica e dagli studi sull’adattamento, al fine di evidenziare le escursioni transmediali e le variazioni intersemiotiche, le costanti e le metamorfosi di un mito che mostra ancora la sua profonda vitalità e la sua persistenza nel nostro immaginario.
La prospettiva di indagine che si intende adottare è volta, in altri termini, a evidenziare la complessità della relazione fra i due testi: Incendies di Villeneuve non viene scelto cioè come semplice caso di adattamento, ma come esempio della dimensione intertestuale che investe a vari livelli qualsiasi trasposizione da un testo ad un altro e qualsiasi traduzione intersemiotica. Nell’analisi del processo di riscrittura da cui deriva il film ciò che si vuole rilevare in questa sede è il confronto con lo strato più profondo del palinsesto, con la fonte sofoclea e con la memoria mitica rispetto alla quale l’Edipo re rappresenta a sua volta una versione (seppur la più nota), nonché con la sua ponderosa tradizione ricettiva. La natura «multistrato»[1] dell’adattamento, messa in evidenza da Linda Hutcheon richiamandosi ai numi tutelari delle teorie della intertestualità (da Kristeva, a Genette a Barthes),[2] appare in questo caso in tutta la sua più feconda luminosità. Il rapporto fra il film e la pièce rende visibile (in senso letterale, come si mostrerà più avanti) in maniera emblematica l’«incrocio di superfici testuali», il «dialogo tra parecchie scritture», il «mosaico di citazioni» per cui «ogni testo è assorbimento e trasformazione di un altro testo»[3] e dunque la paradigmatica struttura a palinsesto di ogni adattamento. Per quanto ci si concentrerà sulle tracce del fantasma edipico presenti nel film e nella pièce, il focus del discorso rimane però il passaggio dall’uno all’altro ‘incendio’ e la considerazione del film come prodotto di una transcodificazione e come processo ermeneutico e creativo.[4]
Un’ultima precisazione appare necessaria in questa prospettiva: benché anche la pièce di Mouawad possa essere ascritta al genere «mostrativo»[5] proprio come il film, il confronto avverrà fra il testo scritto della pièce e quello filmico, lungo l’asse di una traduzione intersemiotica in cui medium, linguaggio e retoriche narrative giocano un ruolo di non poco conto. La peculiare pratica di scrittura dell’artista libano-canadese, infatti, che dà alle stampe un testo frutto della discussione con gli attori[6] a conclusione dell’esperienza della messa in scena, come esito dunque di quella che è stata definita «drammaturgia consuntiva»,[7] offre il testo scritto quale soluzione ultima del travagliato processo compositivo. Del resto, lo stesso Villeneuve ha dichiarato in più occasioni di essersi imbattuto in Incendies per caso, da semplice spettatore, e di essersi però subito innamorato della scrittura di Mouawad; la scintilla di quella prima, folgorante visione ha innescato un lungo percorso, che ha condotto il regista a incamminarsi alla ricerca delle radici profonde del testo, fino a riscriverlo, dopo – per restare dentro la metafora – avervi dato fuoco.[8]
1. Frammenti di un discorso edipico
La fabula degli ‘incendi’ che il film prende in carico dalla pièce è il racconto di una quête identitaria che ha inizio da un lascito testamentario. Nel suo studio notarile, Hermile Lebel legge le ultime volontà di Nawal Marwan, che ha lavorato come sua segretaria per anni e lo ha nominato esecutore testamentario. Ai due figli gemelli, Jeanne e Simon, viene data in consegna una lettera ciascuno, l’una indirizzata al padre l’altra al fratello, dei quali loro fino a quel momento ignoravano l’esistenza. L’azione drammaturgica mette in scena dunque la ricerca del padre, da parte di Jeanne, e quella del fratello, da parte di Simon, che si incrociano, grazie a una originalissima sovrapposizione di piani temporali, con l’antefatto della loro storia. La giovane Nawal, prima di mettere al mondo i gemelli, aveva partorito un altro figlio da Wahab, l’amore della sua vita, ma per motivi politici (la cui definizione nella pièce resta volutamente rarefatta), la sua famiglia l’aveva costretta a rinunciare sia al suo uomo che al bambino. Il piccolo Nihad, appena nato, viene affidato ad una donna che lo porta in un orfanotrofio e così Nawal ne perde le tracce. La ricerca di Jeanne viene raccontata in parallelo, con una sorta di montaggio incrociato, con quella della giovane Nawal a sua volta sulle tracce di suo figlio, che ritroverà ormai adulto in Canada, dove si è trasferita al termine di una dolorosa esperienza che l’ha condotta dalla militanza nella resistenza del fronte di Chamseddine al carcere di Kfar Rayat, dove è stata torturata, stuprata e dove ha partorito proprio i gemelli frutto della violenza subita dall’aguzzino Abou Tarek. I due bambini, sottratti alla madre dal secondino della prigione, vengono affidati a un pastore che li riconsegna a Nawal dopo la sua scarcerazione. La sconvolgente scoperta, nel corso di un processo, della identità di Nihad e Abou Tarek, della coincidenza del volto del figlio cercato e dello stupratore odiato, conduce la donna prima in uno stato di catatonia afasica e poi alla morte. Jeanne e Simon, rassegnatisi a dare seguito alle richieste della loro madre dopo un lungo momento di esitazione, scoprono dunque di essere nati da un duplice oltraggio – lo stupro e l’incesto – ma decidono comunque di consegnare al padre-fratello le due lettere di Nawal. Il mantenimento della promessa consentirà loro di dare degna sepoltura alla madre e di leggere la sua ultima lettera a loro indirizzata.
Come è evidente da questa breve sinossi, l’ipotesto sofocleo svolge un ruolo non secondario come contenitore e format di una storia contemporanea, che chiama direttamente in causa l’origine libanese del drammaturgo. Qualcuno ha infatti sottolineato che nel palinsesto che struttura la pièce la matrice classica conta non meno di quella contemporanea, dove l’Edipo re sta accanto a Résistante di Souha Bechara, il racconto autobiografico dell’attivista e giornalista libanese che ha ispirato il personaggio di Nawal. Si tratta di una figura molto nota della resistenza libanese, detenuta per dieci anni nel famigerato carcere di Khiyam (nella pièce Kfar Rayat) per aver tentato di uccidere Lahad (nella pièce Chad), il capo dell’esercito del Libano del sud il 17 novembre del 1988 (nella pièce collocato nel 1978).[9] Altri sostengono invece che la tragedia sofoclea rappresenterebbe «l’hypo-texte principal»[10] da cui traggono origine sia la pièce che il film.
Del resto, il motivo dell’incesto e della ricerca identitaria, della esposizione del figlio e della sua salvazione (moltiplicato per tre in questo caso), come la dolorosa verità dell’infanzia, richiamata dal refrain che si ripete nel corso di vari momenti, («L’enfance est un coteau planté dans la gorge. On ne le retire pas facilement»,[11] si legge nel testamento di Nawal e nella lettera finale con qualche variazione) lasciano emergere chiaramente i debiti intertestuali contratti con uno dei miti più noti della classicità. È come se Mouawad avesse assunto il modello edipico soltanto dopo una deflagrante decostruzione del testo di Sofocle, distribuendo ai vari personaggi i frammenti della storia dell’eroe tragico e capovolgendo la prospettiva del racconto scenico. L’indagine edipica è riassegnata alla madre (che può apparire al tempo stesso come «nouvelle Jocaste»[12] o come «Edipo al femminile»)[13] e ai figli («les enfants de ce nouvel Œdipe qu’est Nihad Harmanni/Abou Tarek»),[14] attraverso i quali si amplifica, in un complicato effetto di rifrazione, la scoperta della verità. Il ruolo del messo di Tebe e del pastore di Corinto vengono assunti dal secondino di Kfar Rayat, Fahim e dal pastore Malak, quello di Tiresia da Chamseddine,[15] secondo un processo di «indigenizzazione»[16] del mito che disloca la fonte nel contesto contemporaneo facendo indossare ai personaggi i costumi della tragedia della Storia. L’enigma della Sfinge viene tradotto in termini matematici nelle teorie messe in bocca a Jeanne (quella del poligono, che spiega la finale addizione di Simon e l’ultima rivelazione per cui «uno più uno fa uno»); gli oracoli di Apollo vengono in un certo senso riscritti nel testamento di Nawal, per cui – forse – nel ruolo di mediazione e di portavoce del notaio si può riconoscere qualche tratto della funzione della Pizia. E questo per citare soltanto i riferimenti relativi alla trama e ai personaggi, ma i rimandi all’Edipo re sono molto più numerosi.
Tale complesso processo di «disambientazione», a cui Mouawad sottopone il testo tragico, gli consente di leggere la storia delle sue origini e di metterla in racconto, di farne cioè una tragedia che affonda nel sangue della guerra del suo paese conservando un’eco delle guerre di ogni luogo, che possa risuonare così agli spettatori di tutte le latitudini. Si assume qui il termine coniato da Gianni Celati per la sua Alice disambientata[17] nella veste di categoria critica riconfigurata da Elena Porciani per lo studio della ricezione letteraria del mito di Antigone – categoria che vuol sottolineare la relazione «dinamica e inquieta», «dialogica e interrogante» con il testo sofocleo. Per Porciani, infatti, «disambientare significa spostare il personaggio, con un effetto di straniamento, dalla sua origine nell’attualità, da Tebe a Scampia, dalla letteratura classica agli scenari contemporanei segnati dalla guerra, dalla violenza e dalla violazione dei diritti, ogni volta rinnovandone e valutandone la disponibilità all’attualizzazione.[18] In questa prospettiva appare chiaro che la disambientazione della tragedia da Tebe al Libano, che Mouawad è stato costretto ad abbandonare da bambino per sfuggire alla guerra, è un procedimento consueto per l’autore di Incendies, che si è confrontato in altre occasioni, direttamente o indirettamente, con la drammaturgia sofoclea. È bene ricordare infatti la regia dell’Edipo re (1998), a cui hanno fatto seguito i progetti di mise en scène del ciclo Des Femmes (con le Trachinie, Antigone ed Elettra, 2011), Des Héros (con Aiace e ancora Edipo re, 2013) e Des Mourants (con Filottete ed Edipo a Colono e 2015).[19] Già in Littoral, inoltre, primo capitolo della quadrilogia che precede Incendies, sono presenti motivi latamente sofoclei come quello del seppellimento e del rapporto genitori-figli e riferimenti espliciti al mito edipico. Con un ribaltamento delle parti, che marca lo stile del suo dialogo intertestuale, Mouawad costruisce la figura del protagonista Wilfrid rovesciando di segno i tratti della storia del personaggio tragico:
Wilfrid. Je ne sais même plus qui je suis. […] Ma mère est morte en me mettant au monde, mon père est mort pendant que je baisais comme un perdu! À moi tout seul j’ai inversé le jour avec la nuit et la nuit avec le jour en tuant ma mère pour coucher avec mon père.[20]
Le Soleil ni la mort ne peuvent se regarder en face (2009) mostra, del resto, debiti ancor più espliciti nei confronti del mito classico e del ciclo tebano, dato che ricostruisce la storia della città fondata da Cadmo sin dal ratto di Europa fino allo scontro di Edipo con la Sfinge. Come ha notato Andrea Rodighero, in questo testo «I Leitmotive già presenti nella tetralogia sono qui definitivamente associati alle architetture familiari del mito greco, a partire, giocoforza, dal ‘tema del sangue’, dei legami e delle responsabilità che esso sottende […], e si tratta ancora una volta di “un sang qui ne tient jamais ses promesses”».[21] Ma il pedinamento delle tracce edipiche nel macrotesto di Mouawad potrebbe continuare ancora, inseguendo gli aggiornamenti necessari ma mai sufficienti determinati dalla continuazione del percorso del regista libano-canadese in quello che a tutti gli effetti pare essere un’interminabile ‘discorso amoroso’ con Sofocle. Quel che importa invece evidenziare a fini del presente studio è come Villeneuve prenda in carico da Mouawad la dimensione ipertestuale della pièce e i rimandi edipici, ma non senza aggiungere uno strato al palinsesto, che si ispessisce nella ricerca condotta dal regista canadese lungo il suo personale cammino verso Tebe.
Come è stato evidenziato da più parti, le variazioni più significative nel passaggio dagli Incendi dell’uno a quelli dell’altro vanno nella direzione di un’amplificazione della dimensione tragica e melodrammatica,[22] volta a riallacciare i fili con la tradizione del mito edipico, bilanciando la contestualizzazione in qualche modo inevitabile nel trasloco a un medium per sua natura legato alla narrazione realistica,[23] con la ricerca della poesia delle immagini, affidando cioè alla loro potenza evocativa e a quella della musica una forte carica lirico-espressiva («Mon rêve était de faire un film sans dialogue, un long poème visuel, mais»).[24]
La variazione e la ripresa di questo rapporto con il mito edipico, nello scarto dalla pièce al film, interessano soprattutto due livelli, strettamente connessi reciprocamente: l’uno strutturale e l’altro tematico. Il primo riguarda il paradigma della narrazione à rebours; il secondo interessa l’interpretazione differente che Mouawad e Villeneuve danno del motivo della vista e della cecità. Attraverso la diversa riscrittura di questi elementi da parte dei due registi emerge con chiarezza la distanza delle rispettive messe in quadro della storia.
2. Far andare indietro il tempo
Sia il film che la pièce recuperano da Sofocle la struttura del dramma a ritroso, che in Mouawad (e in Villeneuve attraverso di lui) si trasforma nella «dramaturgie de l’en-quête», in cui «la quête identitaire passe par le processus de l’enquête»,[25] ma poi trovano soluzioni diverse, che allontanano la costruzione del dispositivo narrativo dei due testi da quello originario. Come ricorda Guido Paduano:
con buona pace delle letture di Freud e soprattutto dei suoi epigoni, Edipo non ha concesso la minima complicità al destino che lo vuole parricida e incestuoso, azioni che non ha compiuto ma solo subito (come egli stesso precisa in Edipo a Colono), ma per l’appunto non sono parricidio e incesto l’oggetto della rappresentazione drammatica, bensì la ricerca della verità che Edipo intraprende, spinto sì dalla tardiva pestilenza inviata dagli dei, ma poi persegue con tenacia e coerenza tutta sua, come mostra la necessità di superare gli ostacoli che a questo percorso sono frapposti dalla pietà degli altri: Tiresia, Giocasta, il pastore che l’ha esposto bambino. La strutturazione drammaturgica di Sofocle, con il suo post factum e il suo percorso a ritroso, ha la funzione di marcare questa distinzione di campi, non di inaugurare il poliziesco.[26]
Tale «distinzione di campi» è garantita dalla eroica ‘volontà di sapere’ del protagonista, che non si arresta di fronte a nulla e mette perfino a rischio la sua vita. Ma mentre l’Edipo di Sofocle recupera il suo passato nel presente della narrazione dei personaggi (Tiresia, Giocasta, il servo di Laio), che gli offrono i frammenti della verità che sta cercando, le figure che agiscono sulla scena di Mouawad e nelle sequenze girate da Villeneuve fanno rivivere quel passato re-citando gesti, azioni, eventi, dislocando dialoghi e immagini nel cronotopo delle origini, rendendo cioè visibile e udibile agli spettatori di oggi quello che nel teatro greco poteva essere solo ri-narrato e immaginato da loro. In questa traduzione performativa dell’inchiesta identitaria, però, le scelte dei due registi sembrano divergere. L’uno si muove sull’asse del tempo, l’altro predilige quello dello spazio, o meglio recupera il tempo attraverso lo spazio. Mouawad pone sulla scena, l’una accanto all’altra, Nawal e Jeanne (e verso la parte conclusiva Nawal e Simon), che conducono ciascuna la propria ricerca di Nihad, figlio per la prima e padre-fratello per la seconda. La sovrapposizione dei piani temporali nasce probabilmente dalla tensione verso l’annullamento della distanza spaziale dell’autore dalla sua terra d’origine. Le voci di Nawal e di Jeanne, che parlano da territori ed epoche differenti, alternate in una sorta di montaggio parallelo, incarnano il desiderio impossibile di colmare la separazione cronotopica delle loro esistenze e sciogliere così l’enigma che rende opaco e incompleto il loro passato.
Nella parte finale della diciassettesima scena (17. Orphelinat de Kfar Rayat) si sovrappongono, per fare un esempio, i dialoghi di Nawal con il medico dell’orfanotrofio di Kfar Rayat, dove lei è arrivata cercando Nihad, e di Jeanne con Antoine, l’infermiere che ha accudito sua madre negli anni dell’afasia, ascoltando e registrando i suoi silenzi, aspettando con pazienza il dono di una parola. Nawal non avendo trovato il suo bambino dopo il poco incoraggiante scambio di battute con il medico dell’orfanotrofio si sdraia sul pavimento nella posa che ha assunto negli ultimi anni della sua vita, Jeanne – da un luogo imprecisato della sua memoria – la interroga chiedendole ragione del suo mutismo. Poi le parole arrivano, (si tratta del refrain con cui si era aperto il ricordo degli incontri con Wahab «Maintenant que nous sommes ensemble, ça va mieux»), ma si tratta di un oracolo incomprensibile come il suo silenzio. Mouawad mette in scena così questo dialogo impossibile,[27] in cui però Nawal consegna a Jeanne le sue ultime parole:
Nawal. Où es-tu? Où es-tu?
Jeanne. Qu’est-ce que tu regardes, maman?
Nawal. Maintenant que nous sommes ensemble, ça va mieux.
Jeanne. Qu’est-ce que tu as voulu dire par là?
Nawal. Maintenant que nous sommes ensemble, ça va mieux.
Jeanne. Maintenant que nous sommes ensemble, ça va mieux.
Nuit. Hôpital. Antoine arrive en courant.
Antoine. Quoi? Quoi?? Nawal! Nawal!
Sawda. Nawal!
Antoine. Qu’est-ce que vous avez dit? Nawal!
Antoine ramasse un enregistreur aux pieds de Nawal (64 ans).
Nawal. Si je pouvais reculer le temps, il serait dans mes bras…
Sawda. Où vas-tu?
Antoine. Mademoiselle Jeanne Marwan?
Nawal. Au sud.
Antoine. Antoine Ducharme, infirmier de voter mère.
Sawda. Attends! Attends! Nawal, attends!
Antoine. Elle a parlé, votre mère a parlé.
Nawal sort.[28]
La stasi dell’azione drammatica che rappresenta in sincronia, nel medesimo spazio del presente, i personaggi che parlano nello stesso momento, nel film subisce un processo di rimediazione attraverso il movimento nel luogo delle origini, nel paesaggio segnato dal deserto, dalle rovine della guerra, o dalle panoramiche sulle città contemporanee. Gran parte della metamorfosi della struttura drammaturgica del testo filmico si spiega con il mutamento della prospettiva di disambientazione dello sguardo di Villeneuve posato sulla materia del suo racconto. Se per Mouawad il percorso a ritroso dei suoi personaggi ha i connotati del nostos, per il regista del film si configura come l’incontro con un’alterità culturale e antropologica che viene tradotta dalla sua macchina da presa nell’impatto visivo di corpi e luoghi, di primi piani sui volti degli attori della tragedia e lunghe carrellate e panoramiche sul fondale in cui si sono svolte le loro storie. Mentre cioè l’autore della pièce fa i conti con la distanza identitaria dal suo paese d’origine;[29] quello del film tenta di calarsi nella cultura di un paese che non gli appartiene e di comprendere tale alterità scrutando i dettagli col suo obiettivo. Come ha dichiarato lo stesso Villeneuve:
Le premier grand défi est culturel. Je ne suis évidemment pas du Moyen-Orient, ni arabe. Tourner loin de ses racines est une expérience non recommandée. Il faut connaître par une intimité ou une autre ce que l’on filme. Le théâtre offre la poésie de l’imaginaire, le cinéma, celle des pores de la peau. J’ai dû beaucoup écouter les autres là-bas – nous avons tourné en Jordanie, dans le Nord, près du Golan, et plus tard à Amman – pour réussir à mettre en scène un quotidien crédible. Le deuxième défi est géopolitique. Les territoires des origines de Nawal ne sont pas nommés dans la pièce. L’espace demeure imaginaire. Un flou politique et religieux est savamment orchestré par l’auteur. Il est plus difficile de faire de même au cinéma. J’ai opté pour une approche comme celle de Z de Costa-Gavras où on suggère un contexte réel tout en demeurant dans l’imaginaire. Le film fait ainsi le pari de se dérouler sur un territoire qui n’existe pas: la vallée du Fuad.[30]
In questa difficile sfida traduttoria dalla «poesia dell’immaginario» ai «pori della pelle», Villeneuve sceglie di saldare il tempo allo spazio, il racconto ai personaggi, in un processo di «indigenizzazione» che ancora le immagini al contesto, ‘storicizzando’, ‘razzializzando’, ‘incarnando’ ciò che nella pièce rimaneva fuori dalla storia, dalle questioni etniche e religiose, dai corpi dei protagonisti. Le analessi e le prolessi del racconto si situano tutte all’incrocio delle strade in cui convergono le quête diverse dei personaggi principali. Nei capitoli che suddividono la narrazione non è raro che il titolo funga da raccordo tra il passato di Nawal e quello di Jeanne o di Simon.
Il trivio in cui Edipo incontra Laio e lo uccide non riconoscendo in lui il volto paterno, portando così a compimento quanto gli era stato predetto dalla Pizia, si trasforma nei diversi punti di incontro dei destini incrociati di Nawal, Jeanne, Simon e Nihad; si moltiplica nelle tappe del viaggio dei gemelli che ripercorrono la via crucis della madre alla ricerca del proprio figlio, a partire dalla sequenza dell’incendio dell’autobus, che condensa i quattro incendies che scandiscono la partitura ritmica della pièce (suddivisa in Incendie de Nawal, Incendie de l’enfance, Incendie de Jannaane, Incendie de Sarwane). Se Mouawad aveva lasciato sullo sfondo della fotografia che costituisce il primo indizio per l’inchiesta di Jeanne[31] il riferimento all’attentato all’autobus che aveva dato avvio alla guerra del Libano, optando per una metaforica moltiplicazione della semantica del fuoco volta a far risuonare la voce delle vittime di ogni guerra e della scia del sangue che si porta dietro, Villeneuve riconduce la sua storia al momento fondante della Storia del paese che fa da sfondo alla sua tragedia, mettendo in evidenza i conflitti religiosi e politici che l’hanno determinata.[32] Del resto, accanto o in opposizione al luogo dell’incendio dell’autobus, che inchioda la vicenda al tempo della memoria collettiva, si pone un altro ‘crocicchio edipico’, che rappresenta lo spazio dell’agnizione e del recupero della verità e cioè la piscina in cui Nawal ritrova Nihad/Abou Tarek (nella pièce il riconoscimento avveniva in un tribunale) e piomba nel silenzio. La verità che lei scopre non può essere raccontata, ma solo mostrata con le immagini.
Non è un caso se all’inizio della propria indagine, nel film Jeanne torni a interrogare quello spazio refrattario alla parola, reimmergendosi con un raccordo memoriale in quelle acque che rimandano alla regressione all’utero materno.
A conferma di una velata ripresa della lettura psicanalitica del mito edipico,[33] il momento in cui i due gemelli apprendono la rivelazione della propria tragica origine è segnato da una sequenza che, con uno stacco netto, sposta i loro corpi dall’ospedale in cui hanno ascoltato l’infermiera che li ha fatti nascere e li ha sottratti all’esposizione nel fiume e li fa piombare nell’azzurro indistinto della piscina, dove nuotano forsennatamente nel liquido amniotico del loro ‘tempo ritrovato’, fino a stringersi in un abbraccio consolatorio che in qualche modo anticipa il finale ricongiungimento familiare sancito dalla lettura dell’ultima lettera di Nawal.
Ricorrendo dunque alla grammatica specifica del medium cinematografico, attraverso l’alternanza di flashback e flashforward, il regista riallaccia con la sola forza delle immagini il suo dramma contemporaneo alla Storia e al mito, sin dall’attacco del film marcato da quella prima infrazione della traduzione intersemiotica, che aggiunge al plot della pièce un prologo ritmato dal commento sonoro e dalla proposizione di dettagli simbolicamente significativi, le cui risonanze visive accompagneranno, commenteranno e daranno un senso al procedere della storia.
3. Dal punto cieco della visione periferica
La lunga e poetica sequenza dell’attacco del film (accompagnata dalla musica in crescendo della canzone dei Radiohead You and whoose army?), oltre a costituire l’indizio più esplicito ed evidente dell’autonoma costruzione del dispositivo drammaturgico dell’intreccio, dimostra la libertà e l’originalità del dialogo del regista con la matrice mitica della fabula. Dall’inquadratura del paesaggio desertico, con una lieve panoramica la mdp si muove verso sinistra rendendo visibile la cornice della finestra della stanza dell’orfanotrofio dove alcuni soldati stanno rasando la testa dei bambini lì rinchiusi; si sofferma sui primi piani dei loro volti e dei loro occhi, poi si abbassa fino al pavimento e inquadra i piedi dei militari stretti nelle scarpe e quelli nudi dei bambini, indugiando sul dettaglio del tallone di uno di essi segnato da tre puntini tatuati. Infine punta l’obiettivo su uno dei piccoli, il cui sguardo in macchina si avvicina con uno zoom che procede al ritmo della musica fino al primissimo piano.
Come è evidente da questa sommaria descrizione Villeneuve attribuisce al prologo una funzione introduttiva importantissima, infatti «musique, lumière en contre-jour et couleurs ocre / gris / vert de cette scène inaugurale donneront son unité visuelle et sonore au film».[34] Nella riproposizione dei dettagli all’interno del film e nel riverbero della musica, che segna il momento di incontro e congiunzione del viaggio di Nawal con quello di Jeanne subito dopo la scena dell’attentato contro l’autobus, l’attacco del film costituisce il fuoco che innesca l’‘incendio’ di Villeneuve. Quel che però è più importante, ai fini del discorso fin qui condotto, è che quasi tutti i dettagli visivi sono riconducibili al mito edipico. La maggior parte della critica non ha mancato di riconoscere, per esempio, nel tatuaggio sul piede una citazione del segno corporeo di Edipo, la cui radice etimologica (‘piede gonfio’), come è noto, rimanda all’esposizione del neonato abbandonato con i piedi legati per ordine di Laio. Ma in realtà la trama dei riferimenti alla storia dell’eroe dai piedi gonfi non si limita alla zoppia.
L’inquadratura del deserto può essere letta come un’eco che richiama il luogo fondativo della disappartenenza dell’eroe tragico all’ordine della polis. L’espulsione decretata dall’allontanamento da parte del padre e il suo abbandono sul monte Citerone, in cui viene salvato dal pastore che poi lo consegnerà a Polibo, attribuisce all’Edipo del mito il primo stigma della differenza, che lo renderà sempre straniero anche nel momento in cui indossa la corona. La formazione dell’eroe si compie infatti fuori dalle mura della città, in un «luogo in cui avviene il passaggio tra la morte e la rinascita. Il bambino segnato dal destino deve morire simbolicamente, e muore infatti agli occhi della sua famiglia; ma nello stesso momento in cui la civiltà lo espelle e il gruppo umano che avrebbe dovuto accoglierlo lo rifiuta, il neonato viene riaccolto e nutrito nel cuore del luogo selvaggio e così penetra nella sfera prodigiosa riservata a chi si avvia a un destino eccezionale».[35] Nihad/Abou Tarek compie un percorso analogo, che raccoglie fino in fondo l’eredità del modello edipico, e trova poi nella complessa declinazione del motivo della vista il modo di rendere omaggio alla fonte classica e al tempo stesso di segnare la distanza da essa. L’eccezionalità del personaggio lo condurrà, nel contesto degradato e disambientato della guerra (attraverso la cui lente bisogna leggere l’ineluttabilità del destino di violenza che inquadra lo stupro e l’incesto), a diventare un cecchino dalla mira straordinaria. Non è casuale che nella pièce Nihad compaia soltanto verso il finale, nella scena che precede l’arrivo di Simon e Lebel nel deserto (32. Désert), dove i due vanno a cercare Chamseddine. Il deserto e lo scenario bellico si confondono e mostrano la loro corrispondenza di spazi esterni a quelli della convivenza civile; ed è in quegli spazi che sembra confinato irrimediabilmente Nihad.
L’inquadratura del deserto che apre il film costituisce dunque un’inversione rispetto all’intreccio della pièce, ma rappresenta in qualche modo un riallineamento dell’asse cronologico della storia, che colloca subito la vicenda nel luogo della genesi della tragedia e mette a fuoco le coordinate che ne determineranno lo scioglimento: il deserto, l’orfanotrofio, i soldati, la brutalità della guerra, oltre al segnale che permetterà alla fine l’agnizione.
L’Edipo di Mouawad è presentato come «L’homme qui joue»[36] (questo il titolo della scena 31), dove il verbo jouer è assunto in tutto il suo spettro polisemico, dato che il cecchino si trova sul tetto di un palazzo dove ‘gioca alla guerra’, sparando, scattando fotografie e suonando la chitarra. La distanza dal personaggio, soprattutto nel testo drammatico, è segnata dalla brutalità che riscrive capovolgendo di segno l’innocenza dell’Edipo tragico nell’apparente involontario compiacimento della ricerca della bellezza dell’orrore. Il suo mirino serve a rubare al tempo stesso la vita e l’immagine delle sue vittime. Durante il processo nel Tribunale penale internazionale, dove viene riconosciuto da Nawal perché indossa un naso da clown che lei aveva messo fra le sue fasce quando le era stato sottratto, non nega la responsabilità delle torture e delle uccisioni, e senza alcun rimpianto rivendica il fatto che quelle azioni gli abbiano permesso di «réaliser des photos d’une très grande beauté».[37] Il personaggio del film al contrario non pronuncia nemmeno una battuta, ma nel racconto della sua storia, che Chamseddine consegna a Simon qualche istante prima della rivelazione finale, la sua eccezionalità viene sottolineata esplicitamente («Nihad aveva un dono, era speciale»).
Al di là delle varianti operate nel processo di rimediazione ciò che appare più interessante è proprio la diversa declinazione del tema della vista e del correlato segno della cecità che connota l’embodiment del personaggio del mito. In altri termini il prologo del film riconduce il tema della vista alle tracce sul corpo, nel piede e negli occhi dei personaggi segnati ciascuno a suo modo da quella cecità, che nella tragedia sofoclea Edipo si autoinfligge e che nelle versioni indigenizzate di Mouawad e di Villeneuve viene rideclinata in accordo al contesto storico e mediale di riferimento. Fra i primi piani dei volti dei bambini che compaiono nel prologo ce n’è uno con una traccia di sangue che cola dall’occhio lungo la guancia, che non può non essere considerato un indizio esplicito del richiamo all’autoaccecamento dell’eroe di Sofocle. A conferma di ciò un’analoga macchia sanguigna compare su altri volti: quello di Nawal, il cui primo piano condensa la disperazione del suo volto subito dopo la scena dell’incendio dell’autobus; quello di uno dei bambini inquadrati dal mirino del cecchino che ha colpito il più piccolo di loro e il cui sangue ha macchiato il volto dell’altro.
La rima visiva dell’occhio insanguinato, per quanto evochi la reminiscenza delle immagini dei tanti figli di Laio che si sono privati con le proprie mani della vista sulle scene dei teatri di tutto il mondo, rende evidente il processo di risemantizzazione profonda della fonte. L’autopunizione di Nawal (novella Giocasta che porta su di sé anche evidenti tracce edipiche), sia nella pièce che nel film, viene riscritta attraverso una traslazione sensoriale dalla cecità all’afasia, in una direzione che si inquadra dentro il più complessivo problema della comunicazione verbale e della perdita della lingua materna, che rappresenta un topos ricorrente nella scrittura di Mouawad[38] e nella letteratura diasporica tout court. Ma l’indugiare della mdp sugli occhi dei bambini dell’orfanotrofio pone l’accento sul tema della vista, che è innanzitutto tema dominante dell’Edipo re, dove sostanzia la complessa dialettica della parola alle prese con la ricerca della verità e dalla fonte sofoclea transita alla pièce di Mouawad per giungere poi al racconto filmico di Villeneuve. Per rispondere all’«interpellazione»[39] dello sguardo in macchina che sugella il prologo occorre dunque ricostruire brevemente questo percorso per provare a decifrare il senso di quegli occhi macchiati di sangue che ricompaiono nelle scene più emblematiche del film.
Nel testo di Sofocle è soprattutto attraverso il confronto fra Edipo e Tiresia che emerge lo stretto legame fra vedere e sapere, fra cecità e veggenza, fra ignoranza e agnizione. Quando l’indovino rivela al protagonista la triste verità dell’incesto e del parricidio, egli non riesce subito ad accettarla e avvia un’indagine per smentire Tiresia, accusandolo di essere cieco non soltanto negli occhi ma anche «nelle orecchie e nella mente».[40] Il cieco veggente a sua volta accusa Edipo di essere incapace di vedere la sua colpa («tu hai gli occhi, ma non riesci a vedere in quale miseria sei caduto, né dove abiti, né con chi vivi») e gli predice la condanna alla cecità che si realizzerà da lì a poco («Adesso guardi dritto, ma presto non vedrai che tenebre»).[41] Com’è noto, in questo dialogo si fronteggiano due concezioni della verità e della vista, la sophia e l’aletheia, il sapere razionale e quello mistico-religioso. La cecità di Tiresia e poi quella di Edipo servono a «segnalare il passaggio da un tipo di vista, per così dire normale, a un altro speciale»,[42] sono al tempo stesso stigma e stemma, segno della punizione divina e marca d’elezione che introduce nella sfera del sacro.
Mouawad prende in carico da Sofocle questa dialettica corrispondenza fra sapere e vedere insieme con la loro valenza meta-fisica. Tutti i personaggi della pièce si trovano nella condizione di cecità metaforica di Edipo, perché non vedono e non conoscono la verità della propria storia. Traducendo la questione in termini matematici, Jeanne formula la Théorie des graphes et vision périphérique nella terza scena della pièce:
Jeanne. Prenons un polygone simple à cinq côtés nommés A, B, C, D et E. Nommons ce polygone le polygone K. Imaginons à présent que ce polygone représente le plan d’une maison où vit une famille. Et qu'à chaque coin de cette maison est posté un des membres de cette famille. Remplaçons un instant A, B, C, D et E par la grand-mère, le père, la mère, le fils, la fille vivant ensemble dans le polygone K. Posons alors la question de savoir qui, du point de vue qu’il occupe, voit qui. La grand-mère voit le père, la mère et la fille. Le père voit la mère et la grand-mère. La mère voit la grand-mère, le père, le fils et la fille. Le fils voit la mère et la sœur. Enfin la sœur voit le frère, la mère et la grand-mère.
Ralph. Tu ne regardes pas! T’es aveugle! Tu ne vois pas les jeux de jambe du gars qui est en face de toi ! Tu ne vois pas sa garde... On appelle ça un problème de vision périphérique.
[…]
Jeanne. […] Maintenant, comment puis-je, en portant d’une application théorique, celle-ci par exemple, tracer le graphe de visibilité et ainsi trouver la forme du polygone concordant? Quel est la forme de la maison où vivent les membres de cette famille représentée par cette application? Essayez de dessiner le polygone.[43]
I segni del corpo di Edipo, la zoppia e la cecità, nella pièce vengono ripresi latamente, vi si fa riferimento soltanto in senso traslato nelle diverse battute in cui i personaggi vengono accusati di essere ciechi. Ma il motivo della vista, in realtà, interessa a Mouawad nella sua accezione meta-fisica di altra dimensione della conoscenza e della ri-conoscenza. La volontà di sapere di Edipo e la sua iniziale incapacità di vedere si sdoppiano nelle reazioni differenti che Jeanne e Simon mostrano rispetto alle ultime volontà della madre. Nella scena 27 (Téléphones) «Jeanne e Simon parlent en même temps», Jeanne rivela al fratello la parte di verità che ha scoperto sul conto di Nawal (la prigionia, la tortura, lo stupro), implorandolo di ascoltarla ma Simon si rifiuta di sapere e di conoscere:
Simon. Non… non… ça ne m’intéresse pas! Mon combat de boxe! C’est tout! Oui, c’est tout! Je veux pas le savoir! Non, ça ne m’intéresse pas de connaître son histoire! Ça ne m’intéresse pas! Je sais qui je suis aujourd’hui e ça me suffit![44]
La frammentazione del discorso edipico consente al drammaturgo di situare nella scena le diverse tensioni messe in campo nella tragedia sofoclea (che è prima di tutto «tragedia della conoscenza»), tensioni che lacerano l’animo del protagonista e cioè la sua volontà di sapere e la sua incapacità di accedere al regime della trasmissione oracolare. La verità rivelata da Tiresia, per esempio, è codificata in un linguaggio che comunica e nasconde, rivela e nega, e che attira l’interlocutore dentro «l’ambigua trappola della parola».[45] Mouawad esce fuori da questa dialettica innanzitutto moltiplicando il punto di vista di Edipo: se Jeanne si fa portatrice del paradigma del sapere razionale, Simon sembra invece incarnare l’istanza anti-intellettuale che rifiuta la verità. Le sue proteste e la sua resistenza ad accogliere il mandato della madre a scavare nelle viscere del loro passato («Je sais qui je suis aujourd’hui e ça me suffit!»), ricordano forse l’azione ripetuta diverse volte dall’Edipo pasoliniano di coprirsi gli occhi con le mani (il medesimo gesto, poi, verrà compiuto da Jeanne nel film di Villeneuve, nel momento in cui decifrerà il senso della affermazione apparentemente delirante di Simon, «un plus un ne peut pas en faire un»). Del resto, come ricorda Massimo Fusillo, in tutte le riletture novecentesche della tragedia la componente intellettuale viene «[…] nettamente ridimensionata».[46] In Mouawad quella componente viene dialetticamente messa in contrasto con l’altra. Ma ciò che più importa è che entrambi i punti di vista derivano dalla posizione dei personaggi dentro la forma del poligono della teoria formulata da Jeanne. In altri termini, «l’angolo cieco» implicato dalla loro collocazione nello spazio della storia è il risultato dell’esclusione inevitabile dal loro campo visivo di una parte del loro passato. E se è vero che «Le théâtre de Wajdi Mouawad invente une dramaturgie de l’espace où se déploie une corrélation très forte entre localisation et identité, entre repérage spatial et intersubjectivité»,[47] è altrettanto vero che in questa correlazione la dimensione visiva assume un ruolo molto importante. L’azione che i personaggi compiono sulla scena è quella di allargare il campo della «visione periferica», fino a comprendere «l’angolo cieco» implicato dalla loro collocazione iniziale, in un percorso che va dunque dalla cecità alla veggenza, conciliabile con l’ambivalenza che quei due concetti assumono nel testo sofocleo. Come afferma Nawal nell’ultima scena, attraverso la sua Lettre aux jumeaux: «Il y a des vérités qui ne peuvent être révélées qu’à la condition d’être découvertes».[48]
È proprio nella scelta degli strumenti e delle modalità di tale scoperta che le strade di Mouawad e di Villeneuve trovano approdi diversi seppur semanticamente convergenti: il primo conta soprattutto sull’arma della parola, il secondo cerca di tradurre tutto in immagini, attribuendo dunque all’equazione vedere-sapere un surplus semantico legato a doppio filo con il medium cinematografico. Già Mouawad, capovolgendo la prospettiva dell’inchiesta, aveva affidato alla madre e ai figli-fratelli il riconoscimento di Nihad/Abou Tarek/Edipo, e aveva rinunciato alla particolarità del dispositivo agnitivo della tragedia di Sofocle, in cui Edipo «non “riconosce” un’altra persona, ma scopre che egli stesso, l’investigatore, è in realtà l’assassino».[49] L’agnizione (agnorisis) – è bene ricordarlo – per Aristotele è uno degli elementi costitutivi della poesia, è «come dice la parola, il volgere dall’ignoranza alla conoscenza»[50] e dà i suoi effetti migliori quando si coniuga con il rovesciamento (peripeteia), proprio come nell’Edipo re.
Villeneuve, sovraesponendo il segno dell’agnizione nel prologo e disambientando la visione periferica dei personaggi nel reale paese della tragedia, dà luce e immagini all’angolo cieco della visione dei suoi protagonisti. Mostra insomma quel che le parole della pièce suggerivano e lasciavano immaginare, attraverso il suo poema visivo lascia parlare i segni scritti sui «pori della pelle»: il tatuaggio e la macchia di sangue, raccontano l’uno l’eterna favola del figlio perduto e ritrovato, gli altri l’altrettanto eterna Storia delle guerre e dei conflitti del genere umano su cui entrambi gli artisti pongono la lapide della poesia. Come è evidente dalla lettura sinottica dei due ‘incendi’, quegli occhi insanguinati nascono insomma da un analogo e ininterrotto ‘discorso amoroso’ con il mito che continua ancora a far risuonare la sua voce, come afferma Mouawad in un recente saggio (L’Œeil, 2018), che può essere considerato in qualche modo la sua personale Histoire de l’œil e vale come suggello delle due differenti riscritture dell’Edipo qui prese in esame:
Nous aimons Œdipe, comme nous aimons la femme d’Odessa, comme nous aimons celle du chien andalou car leurs yeux ensanglantés parlent de nous, de notre soif insatiable d’infini, de notre désir fou de savoir quitte à en perdre la lumière. Ce sont des yeux poétiques qui nous donnent à voir ce manque qui est le nôtre.[51]
1 L. Hutcheon, Teoria degli adattamenti. I percorsi delle storie fra letteratura, cinema, nuovi media, trad. it. di G.V. Distefano, Roma, Armando, 2011, p. 26.
2 Cfr. R. Barthes, ‘Dall’opera al testo’, in Il brusio della lingua. Saggi critici IV [1971], trad. it. di B. Bellotto, Torino, Einaudi, 1988, pp. 57-64; Id., ‘Teoria del testo’ [1973], in Scritti, a cura di G. Marrone, Einaudi, Torino 1998, pp. 228-243; G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado [1982], a cura di R. Novità, Torino, Einaudi, 1997. Per un aggiornamento e una sintesi del dibattito teorico sull’intertestualità si rimanda a M. Polacco, Intertestualità, Roma-Bari, Laterza, 1998; A. Bernardelli, Che cos’è l’intertestualità, Roma, Carocci, 2013.
3 J. Kristeva, Semeiotiké. Ricerche per una semanalisi [1969], trad. it. di P. Ricci, Milano, Feltrinelli, 1978, p. 121.
4 Si adotta qui la duplice prospettiva interpretativa proposta per lo studio degli adattamenti da Linda Hutcheon (cfr. Teoria degli adattamenti, pp. 37-46). Per una definizione del quadro teorico relativo all’intermedialità, che confina ma non si sovrappone a quello dell’intertestualità, si fa riferimento a N. Dusi, Contromisure. Trasposizione e intermedialità, Milano-Udine, Mimesis, 2015; F. Zecca, Cinema e intermedialità. Modelli di traduzione, Udine, Forum, 2013.
5 Cfr. L. Hutcheon, Teoria degli adattamenti, pp. 11 e ss.
6 A tal proposito si vedano le dichiarazioni contenute nella prefazione alla prima edizione della pièce: «Tout comme Littoral, Incendies n’aurait jamais vu le jour sans la participation des comédiens. En ce sens, la manière dont la pièce fu écrite et mise en scène constitue aussi une suite de Littoral, puisque, là aussi, le texte fut écrit à mesure des répétitions échelonnées sur un période de dis mois. Je tiens à dire combien l’engagement des comédiens fut crucial. Simon n’aurait jamais été boxeur si Reda Guernik n’avait pas participé au projet. Sawda n’aurait pas été aussi en colère sans Marie-Claude Langlois et Nihads n’aurait probablement pas chanté si je n’avais pas travaillé avec Éric Bernier» (W. Mouawad, ‘Une consolation impitoyable’, in Incendies. Le sang de Promesses / 2, nouvelle édition, Montréal-Arles, Leméac/Actes Sud, 2009, p. 9).
7 Siro Ferrone utilizza la nozione di «drammaturgia consuntiva» in riferimento a quei testi prodotti a conclusione del processo scenico (cfr. 'La drammaturgia consuntiva’, in J. Jacobelli (a cura di), Non cala il sipario. Lo stato del teatro, Bari, Laterza, 1992, pp. 97-114).
8 Cfr. le dichiarazioni dello stesso Villeneuve contenute in R. Bertin, ‘Prendre une pièce pour un scénario: entretiens avec Philippe Falardeau et Denis Villeneuve’, Jeu, 134, 1, 2010, pp. 68 e 71: «J’ai vu Incendies, la première fois, fin mai 2004; c’était la dernière représentation au Théâtre de Quat’Sous. J’y suis entré comme spectateur curieux et en suis ressorti comme cinéaste conquis. […] Wajdi m’a offert la liberté. C’est ce qui a fait que j’ai pu faire le film, en fait. Tout d’abord, j’ai suivi son conseil: j’ai refait le voyage sur ses pas, depuis le départ en commençant à la page 16 de la Bible, en remontant le fleuve des colères jusqu’à leur source, loin en moi. Ça m’a pris six mois de silence. Puis j’ai brûlé la pièce. C’est le principal travail qui a été fait. Mon objectif était de respecter tout le fond du texte de Wajdi. Mais je n’ai pas transformé la pièce en scénario: j’ai écrit un scénario en démarrant de certains éléments, comme si la pièce n’existait pas».
9 Cfr. R. Grutman, H.A. Ghadie, ‘Incendies de Wajdi Mouawad: les méandres de la mémoire’, Neohelicom, 33, 2006, pp. 91-108.
10 Cfr. per esempio S. Montin, ‘Du texte dramatique au film: Incendies de Denis Villeneuve’, in La réécriture au XXIe siècle, T(r)OPICS, 3, décembre 2016, pp. 177 e ss.
11 W. Mouawad, Incendies, p. 18.
12 R. Grutman, H.A. Ghadie, ‘Incendies de Wajdi Mouawad’, p. 98.
13 ‘Wajdi Mouawad: Incendi’, premessa a W. Mouawad, Incendi, trad. it. di C. Gozzi, Corazzano (Pi), Titivillus, 2009, p. 5. Cfr. anche D. Vicenti, ‘Incendi: Edipo al femminile in un Medio Oriente senza redenzione’, Hystrio, 2, aprile giugno 2011, p. 4: «Edipo è donna ed è persa nei conflitti mediorientali».
14 Ivi, p. 99.
15 Cfr. ivi, p. 100.
16 Susan Stanford Friedman ha coniato il termine «indigenizzazione» per definire il processo di traduzione interculturale che subiscono testi, storie, miti (Whose Modernity? The global landscape of modernism, Humanities Institute Lecture, University of Texas, Austin, 18 febbraio 2004). Per un’articolata illustrazione delle possibili direzioni dell’indigenizzazione degli ipotesti, che possono essere storicizzati o destoricizzati, razzializzati o derazzializzati, incarnati o disincarnati, cfr. L. Hutcheon, Teoria degli adattamenti, pp. 209-235.
17 Cfr. G. Celati, ‘Sull’epoca di questo libro’, in Id. (a cura di), Alice disambientata. Materiali collettivi (su Alice) per un manuale di sopravvivenza, Firenze, Le Lettere, 2007, pp. 5-11.
18 E. Porciani, Nostra sorella Antigone. Disambientazioni di genere nel Novecento e oltre, Catania, Villaggio Maori Edizioni, 2016, p. 8
19 Si veda a tal proposito la riscrittura dell’Edipo a Colono (che chiude il progetto Des Mourants), W. Mouawad, Les larmes d’Œdipe, Montréal-Arles, Leméac/Actes Sud, 2016 e in particolare la premessa Le bonheur du malheur (pp. 7-9), in cui Mouawad spiega le ragioni e il senso di questo ennesimo accostamento a Sofocle. Al riguardo cfr. anche W. Mouawad, R. Davreu, Traduire Sophocle, Montréal-Arles, Leméac/Actes Sud, 2011. Esistono già molti contributi critici che indagano il dialogo intertestuale edipico in Mouawad cfr. almeno L. Parisse, ‘Œdipe par temps de catastrophe: Incendies, de Wajdi Mouawad’, in Relations familiales dans les littératures françaises et francophones de XXe et XXI siècles. La figure du père, sous la direction de M.L. Clément et S. van Wesemael, Paris, 2008, pp. 335-341; A. Rodighero, ‘La promessa del sangue: motivi edipici in Incendies di Wajdi Mouawad’, in F. Citti, A. Iannucci (a cura di), Edipo classico e contemporaneo, Zurich-New York, Georg Olms Verlag Hildesheim, 2012, pp. 359-426.
20 W. Mouawad, Littoral. Le sang des promesses /1, Montréal-Arles, Leméac/Actes Sud, pp. 29-30. Nella premessa Mouawad scrive infatti: «Lors de ces échanges, j’ai commencé à développer une idée pour un spectacle, née de mes lectures d’Œdipe, de Hamlet et de L’Idiot» (De l’origine de l’écriture, ivi, p. 8).
21 A. Rodighero, ‘La promessa del sangue: motivi edipici in Incendies di Wajdi Mouawad’, p. 368.
22 Cfr. per esempio M. Telmissany, ‘Wajdi Mouawad in Cinema. Origins, Wars and Fate’, cineACTION, 88, 2012, pp. 48-57; D.L. Pike, ‘Burning the Candle at Both Ends: Denis Villeneuve’s Incendies (2010)’, Bright Lights Film Journal, 31 October 2011, https://brightlightsfilm.com/burning-the-candle-at-both-ends-denis-villeneuves-incendies-2010/#.XMR6FxhaaqA [accessed 12.04.2019].
23 Linda Hutcheon sottolinea più volte come questa possa essere una spiegazione delle variazioni di un adattamento, ma come da sola non basti a spiegarle: cfr. L. Hutcheon, Teoria degli adattamenti, pp. 67 e ss.
24 R. Bertin, ‘Prendre une pièce pour un scénario: entretiens avec Philippe Falardeau et Denis Villeneuve’, p. 71.
25 L. Lenne, ‘Le poisson-soi: de l’aquarium du moi au littoral de la scène …’, Agon, Dossier n. 0, 2007, < http://agon.ens-lyon.fr/index.php?id=328> [accessed 24.04.2019].
26 G. Paduano, ‘La spiegazione del dolore’, saggio introduttivo a Il teatro greco. Tragedie, trad. it. di C. Barone et alii, Milano, RCS, 2006, p. 12.
27 Come nota giustamente Lise Lenne (‘Le poisson-soi: de l’aquarium du moi au littoral de la scène…’): «L’apparition du fantôme dans le théâtre de Wajdi Mouawad est différente de celles qui ont lieu dans les pièces de Shakespeare. Le spectre ne fait pas qu’une intrusion dans le domaine des vivants, il envahit la scène. Les morts partagent la scène avec les vivants et ont le même degré de présence. Les deux mondes se répondent sans se comprendre, se frôlent sans se rencontrer, ce qui rend les sujets protagonistes inconscients du sens de leur propre parole en créant un effet d’ironie tragique que seul le spectateur peut déceler».
28 W. Mouawad, Incendies, pp. 63-64.
29 May Telmissany sostiene, per, esempio che per comprendere il film bisogna collocarlo all’interno del più ampio contesto del cinema della diaspora: «It is important to relocate Mouawad’s cinematic adaptations within this larger context of transnational and diasporic cinema made by filmmakers of Arab origins or based on their work. It is equally important to highlight Mouawad’s hyphenated identity and the many lines of escape his work proposes beyond his Middle Eastern culture and his Canadian belonging. Born» (‘Wajdi Mouawad in Cinema. Origins, war and fate’, pp. 50 e ss.).
30 W. Mouawad, Incendies, pp. 70-71.
31 Nella pièce Antoine fa ingrandire la foto ritrovata da Jeanne che ritrae sua madre con Sawda, l’amica con la quale ha condiviso una parte del percorso della sua giovinezza, la donna a cui ha insegnato a scrivere e che le ha insegnato a cantare. Dal personale blow up dell’infermiere, proiettato su un muro dell’aula universitaria dove Jeanne insegna, viene fuori sullo sfondo un autobus su cui sta scritto il nome di Kfar Rayat (cfr. Ivi, pp. 65 e ss.). Purtroppo nel film la figura di Sawda viene soppressa perché ritenuta da Villeneuve (che dimostra di non comprende il valore della sorellanza da lei rappresentato) una convezione tipicamente teatrale, in cui in taluni casi risulta necessario il ruolo della confidente («C’est pour moi un personnage de théâtre et je l’ai supprimé car je pouvais montrer directement à l’écran ce qui nécessite la confidence dans la pièce», D. Villeneuve, ‘«Incendies est un film qui ne condanne pas, il console». Denis Villeneuve entretien avec Jean Roy’, L’Humanité, 12 janvier 2011 < https://www.humanite.fr/11_01_2011-«-incendies-est-un-film-qui-ne-condamne-pas-il-console-»-462049> [accessed 12.04.2019]. A tal proposito cfr. anche S. Montin, ‘Du texte dramatique au film: Incendies de Denis Villeneuve’, pp. 180-181.
32 Ha ragione Cetti Rizzo quando afferma che «La traduzione del titolo, nella versione cinematografica italiana, […] La donna che canta, fa perdere totalmente l’elemento corrosivo, catartico e rigenerante del fuoco e riprende però la lettura musicale, della partitura, della voce, del coro greco, nell’interpretazione moderna maieutica e salvifica. Incendies, al plurale, ci racconta la storia di tanti modi di attraversare le fiamme, di bruciarsi, di covare sotto le ceneri per poi rigenerarsi e rinascere a nuova vita, assumendo il peso delle proprie responsabilità in modo lucido, rimuovendo i veli che ricoprono e mascherano i conflitti» (C. Rizzo, ‘Incendies: dal testo di Wajdi Mouawad al film di Denis Villeneuve’, Studi comparatistici, 15-16, 2015, p. 2003).
33 Per una ricostruzione della ricezione di Edipo dopo Freud si rimanda a G. Paduano, Lunga storia di Edipo re. Freud, Sofocle e il teatro occidentale, Torino, Einaudi, 1994.
34 S. Montin, ‘Du texte dramatique au film: Incendies de Denis Villeneuve’, p. 178.
35 G. Guidorizzi, ‘Il mito di Edipo’, in M. Bettini, G. Guidorizzi, Il mito di Edipo. Immagini e racconti dalla Grecia ad oggi, Torino, Einaudi, 2004, pp. 86-87.
36 C’è forse in questa denominazione un qualche velato riferimento all’Edipo re pasoliniano, che nella conclusione del film dopo essersi acciecato prende in consegna da Tiresia il suo flauto e nelle sembianze del’‘uomo che suona’, accompagnato dal messo-Ninetto, percorre la sua strada verso Colono (cfr. S. Rimini, ‘Il flauto, il mandolino e l’arpa. Fantasmi musicali nella drammaturgia di Pasolini’, in Studi in onore di Niccolò Mineo, Siculorum Gymnasium, n.s., 2005-2008, pp. 1563-1586).
37 W. Mouawad, Incendies, p. 124.
38 Si pensi a tal proposito per esempio al protagonista del romanzo di Mouawad, Visage retrouvé (Montréal-Arles, Leméac/Actes Sud, 2002), la cui storia si apre con un infantile blocco afasico legata all’episodio traumatico dell’incendio dell’autobus avvenuto nel paese d’origine da cui è fuggito insieme alla famiglia.
39 Cfr. F. Casetti, Dentro lo sguardo. Il film e il suo spettatore, Milano, Bompiani, 1986, pp. 86-87.
40 Sofocle, ‘Edipo re’, in Id., Antigone, Edipo re, Edipo a Colono, trad. it. F. Ferrari, Milano, Rizzoli, 2017, p. 171.
41 Ivi, p. 175.
42 G. Guidorizzi, ‘Il mito di Edipo’, p. 127.
43 W. Mouawad, Incendies, pp. 27-29.
44 Ivi, p. 97.
45 G. Guidorizzi, ‘Il mito di Edipo’, p. 151.
46 M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema, Roma, Carocci, 2015, p. 33.
47 L. Lenne, ‘Le poisson-soi: de l’aquarium du moi au littoral de la scène …’.
48 W. Mouawad, Incendies, p. 131.
49 P. Boitani, Riconoscere è un dio. Scene e temi del riconoscimento nella letteratura, Torino, Einaudi, 2014, p. 185.
50 Aristotele, Poetica, testo greco a fronte, introduzione, traduzione e note di D. Lanza, p. 153.
51 W. Mouawad, L’Œeil, Montréal-Arles, Leméac/Actes Sud, 2018, p. 50.