Se nel sentire pasoliniano l’immagine materna penetra con profonde radici (cfr. Rizzarelli 2021), in Edipo re, per ragioni forse persino ovvie, essa si intensifica e si addensa, accampandosi subito, a partire dall’incipit, al centro del quadro. Tutto comincia, nel prologo novecentesco, con un mobile sguardo che, abbandonata la fissità della pietra miliare, ove si legge, sibillina, la scritta «Tebe», si avvicina con due tagli di montaggio a un elegante palazzetto e scruta l’interno di una ampia porta-finestra affacciata su un balconcino. Nel primo piano sonoro, dispersa l’eco di una banda paesana e i trilli di un campanello di bicicletta, si odono i canti delle cicale, lo spirare di un vento leggero, i brusii della campagna circostante; intanto, incorniciata nel muto riquadro del vetro, si svolge la scena del parto, con l’agile e misteriosa venuta al mondo del bambino. I fiori sul terrazzo, le ali azzurre delle persiane e il profilo brunito della ringhiera, che ingombra e insieme ingentilisce la veduta, conferiscono alle due brevi inquadrature di questa natività il ricercato lucore di un sigillo cloisonné e, insieme, la bonaria sacralità di un ex voto [fig. 1]. Poco dopo, la sequenza del prato, con l’estasi appagante dell’allattamento e lo scambio di sguardi fra la madre e il figliolino, dice senza bisogno di parole la forza tenera di un legame assoluto ma ambivalente.
Nel racconto interno, poi, con il salto nel tempo mitico e l’approdo al paesaggio assolato e brullo dell’antichità, il nodo materno si stringe, apparentemente sciogliendosi, fino a raddoppiarsi. Difatti in quel lembo di cielo sospeso fra Tebe e Corinto le madri diventano due: la prima, Giocasta, è colei che ha messo al mondo Edipo ed ha accettato di separarsene, cedendo alle pressioni di auspici funesti; la seconda, Merope, è la donna che lo accoglie e lo cresce, tentando disperatamente di tenercelo, al mondo, e di salvarlo da un destino terribile di cui nulla sa ma che sembra presentire. A impersonare la potenza generativa del materno è l’ovale perfetto, saldo ed eroticamente algido di Silvana Mangano, attrice cara al regista e, a suo modo, pasoliniana. Mentre Alida Valli, che porta su di sé i segni del tempo (e del cinema) già vissuto, dà corpo alla madre adottiva, comparendo in una breve infilzata di fotogrammi che ne tratteggiano l’ascesa e la caduta. È su di lei, così lontana e finanche estranea a quel cinema inteso come lingua scritta della realtà, e sulla scelta di Pasolini di affidarle questo piccolo ma cruciale ruolo che mi soffermerò nelle pagine seguenti.
1. Residui
Nelle inquadrature mosse, ‘sporcate’ dalla camera a mano e dalla libertà di sguardo di Pasolini, la silhouette di Alida Valli si impone come una presenza fossile, una concrezione dura, compatta, emersa dai recessi del tempo. È una scheggia del cinema del passato che, enigmaticamente, proprio a cominciare da questa pellicola, si incunea negli scenari della anomala ‘nuova ondata’ visibile sugli schermi italiani degli anni Sessanta. Classe 1921, a quell’altezza Valli ha molte vite alle sue spalle. Non solo per la raggiunta pienezza anagrafica, né per la miriade di personaggi interpretati nei trent’anni precedenti, ma per il peculiare nomadismo della sua esistenza, che l’ha portata a muoversi sui sentieri impervi e mutevoli del cinema internazionale (cfr. Laura 1979; Pellizzari-Valentinetti 1995; Comand-Gundle 2016). Basti ricordare il suo esordio, a sedici anni, e il successo strepitoso nell’Italia del Ventennio, che riconosce nel suo viso chiaro e nei suoi tratti regolari il tipo ideale e desideratissimo della ‘bella italiana’ vagheggiata dalle estetiche di regime. Alla fine della guerra, dal momento che non ci sono ruoli per lei nel quadro radicalmente trasformato del neorealismo nascente, si getta nell’avventura hollywoodiana, marcata dall’infelice incontro con David Selznick e dalla implacabile, invasiva efficienza dello Studio System. Alla conturbante Maddalena di Il caso Paradine (Hitchcock, 1947) seguono altre notevoli figure, fra cui la tenebrosa Anna Schmidt di Il terzo uomo (Reed, 1949), ma l’esperienza statunitense, nonostante un lancio mediatico massiccio, che la tratteggia come novella Bergman e irresistibile seduttrice, è deludente, tanto che Valli lascia scandalosamente l’America, incurante delle implacabili clausole di ingaggio. Così nei primi anni Cinquanta cominciano le sue peregrinazioni sui set di tutto il mondo e iniziano anche i continui ritorni in Italia, fra i quali spicca, per magnificenza, il tournage di Senso (Visconti, 1954), dove incarna la bellezza appassita, la sconfitta e la vendetta bruciante, tristissima, della contessa Serpieri. La necessità stringente di lavorare (dalla rottura del contratto americano, a causa di una ingentissima penale, è afflitta dai debiti) si incrudelisce ancora, e all’inizio del decennio successivo la sua attività si fa addirittura febbrile. Giacché le opportunità per lei sono sempre più rade e disparate, moltiplica il suo raggio d’azione, spostandosi acrobaticamente fra il cinema d’autore, soprattutto in Francia, e le produzioni a basso costo, recitando nelle soap messicane, sui palcoscenici teatrali europei, in televisione. In questo difficile frangente, esasperato peraltro da un ménage familiare complicato e dal fallimento di una relazione d’amore (cfr. Fallaci 1965), il ruolo di Merope inaugura per Alida Valli una nuova stagione. Da un lato, le consente di avvicinarsi al cinema italiano di qualità, a partire da Bernardo Bertolucci, che la sceglie prima per interpretare la stupefacente Draifa in La strategia del ragno (1970), dove il bianco degli abiti, l’incedere regale e l’imperscrutabilità dei pensieri paiono riecheggiare il personaggio pasolinano; e poi per la vedova Poppi di Novecento (1976). Vestirà in seguito i panni di altre madri, ancora nell’arco della produzione raffinata o di ricerca: in La prima notte di quiete (Zurlini, 1972), in Diario di un italiano (Capogna, 1972) e in Berlinguer ti voglio bene (Giuseppe Bertolucci, 1977). Dall’altro lato, la parte impersonata in Edipo re la getta con forza negli abissi del materno, originando la folta sequela di madri, per lo più mutanti e addirittura abiette, sospese fra bizzarria e mostruosità, che interpreterà negli anni successivi, e segnatamente nei cosiddetti generi di profondità (cfr. Maina 2016).
2. Frammenti
Piccole nel numero e brevi per la durata, che si conta in magri secondi, le diciannove inquadrature di Edipo re nelle quali appare Alida Valli si rivelano preziose, dunque, rispetto al percorso cinematografico della ormai ex diva dei ‘Telefoni bianchi’; ma soprattutto si offrono come occasione ideale per riflettere sul lavoro di Pasolini con le attrici di mestiere, con quei corpi e quei gesti che recano lo stigma del professionismo, sfoggiando i convincenti sembianti di un naturalismo impeccabile, costruito in tanti anni di pratica, e tanto inviso al regista. La sua preferenza per i non attori, di antica e istintiva discendenza neorealistica e logica conseguenza di un cinema concepito come lingua viva, è indubbia ed è del resto testimoniata anche dall’entusiasmo per il casting, giudicato dall’autore un momento potentemente creativo, nel quale cercare o meglio trovare le facce immaginate per i suoi film nel fluire stesso della realtà (cfr. Rimini-Rizzarelli 2023, p. 96). Tuttavia, quando i ruoli sono complessi, Pasolini ricorre ai professionisti, addirittura a maschere divistiche consolidate (da Magnani a Callas, per citare soltanto due nomi), arginando per così dire gli strati significanti pregressi di cui sono pregni i loro volti. Si tratta di una operazione di depotenziamento e riscrittura di quei corpi, di per sé spettacolari, basata sulla discontinuità imposta alla recitazione, sulla separazione fra corpo e voce ottenuta tramite il doppiaggio e sulle risorse combinatorie offerte dal dispositivo. Pertanto predilige
Frammenti d’azione molto brevi che richiedono poi per contro una lunga fase di montaggio; riprese mute, senza suoni in presa diretta, che gli permettono di dare indicazioni all’attore mentre gira la scena […]; fitto impegno nella post-sincronizzazione dei suoni e delle voci (Rimini-Rizzarelli, p. 98).
In definitiva, anche per la resa della performance recitativa, la chiave sta nella manipolazione e nella polverizzazione della continuity, ossia della convenzionale sintassi filmica caratteristica del ‘cinema di prosa’, al fine di far risuonare le singole inquadrature, comprese quelle abitate da corpi attoriali ingombranti, come altrettanti frammenti poetici. È un modo di condurre le riprese che sovente mette a disagio le attrici e gli attori, soprattutto coloro che nascono sulle tavole dei palcoscenici e mantengono forti legami con la formazione teatrale, ai quali si impedisce di sfruttare a pieno e di padroneggiare i loro abituali strumenti. Ciò che viene chiesto, invece, è di abbandonarsi, interamente, alle mani, allo sguardo e alle minute istruzioni del regista. Invero si può ravvisare nelle tattiche messe a punto da Pasolini la radicalizzazione di certe caratteristiche della recitazione specificamente cinematografica, fondata sulla ripetizione e sulla persistente frammentazione della scena, che non trova il suo senso unitario se non al tavolo di montaggio.
Ora, sebbene il ruolo di Merope non mostri particolari caratteri di ampiezza e di complessità, evidentemente la sola presenza di Valli, che pure non proviene dal teatro ed è da sempre avvezza alle interruzioni dettate dalle esigenze dell’obiettivo, richiede analoghe cure. Così, la macchina da presa fronteggia il suo viso in un esercizio che potremmo definire antifotogenico, con l’intento di rimodellarne i lineamenti, risaputi e simmetrici, declinandoli nella forma dell’eccesso. Ed è appena il caso di rammentare quanto la primigenia affermazione dell’attrice sia correlata al dialogo felice con la cinepresa, alle segrete interazioni della luce sul suo volto, con la fronte lievemente bombata e il taglio morbido degli zigomi, prodigiosamente esaltato nella tela dello schermo (cfr. De Berti 2016, p. 22). Quadro dopo quadro, lo sguardo di Pasolini dissolve la compattezza originaria della maschera divistica e trova nelle pieghe della pelle, nelle fosse degli occhi e nella grande apertura della bocca una espressività magniloquente, sproporzionata, lontanissima dalla concinnitas e dalla armonia allestite all’epoca del cinema déco e rinforzate nella parentesi hollywoodiana. Penso, in particolare, al primo piano (in Edipo re si contano otto inquadrature in primo piano di Valli) nel quale la madre incoraggia e sostiene amorevolmente il desiderio del figlio di recarsi a Delfi per interrogare l’oracolo e svelare il segreto degli incubi spaventosi che lo affliggono [fig. 2]. In una divaricazione vertiginosa fra piano verbale e visivo raggiunta tramite la recitazione micromimica, a smentire la pacata sensatezza delle parole pronunciate da Merope è il sorriso tirato che increspa la superficie del volto di Valli, scoprendo la chiostra dei denti in un rictus da maschera tragica, per lambire appena, senza alcun segno di gioia, gli occhi spalancati e già lustri della madre.
Guardare con tanta insistenza analitica un lacerto di film tanto breve (diciannove inquadrature per meno di novanta secondi in totale), soprattutto in considerazione della straordinaria abbondanza di ruoli interpretati da Valli e dello spessore del cinema di Pasolini, che convoca ben altre attenzioni, è forse come raccogliere un pugno di briciole cadute da una mensa sontuosamente imbandita. Eppure conviene imitare la pazienza saggia della cagna, e attendere come lei, un poco discosta dagli illustri commensali, le squisite minuzie che precipitano a terra. Sì, perché sono schegge pregiate, capaci di restituire la parabola narrativa di Merope nell’arco grave disegnato dal corpo dell’attrice, che compie un movimento circolare ed elementare, quasi come il respiro, alzandosi in piedi nella prima scena e accartocciandosi al suolo, dolorosamente, nell’ultima.
Difatti l’apparizione di Alida Valli avviene attorno al sedicesimo minuto del film: sperduta in un campo lunghissimo, è accoccolata sul greto asciutto di un fiume, ritratta al centro di un paesaggio spoglio, irto di rocce, e battuto dal vento. Con un raccordo sull’asse in lieve avvicinamento, al richiamo giubilante del marito che correndo le reca quel «dono degli dèi», il figlio miracoloso raccolto da un pastore sul monte Citerone, la vediamo indossare il copricapo e levarsi in piedi, guadagnando la postura eretta, nobile e altera, della regina di Corinto. Vestita interamente di bianco, la sua figura slanciata traccia un segno netto nel quadro, sottolineato dalla immobilità delle membra e dalla linea degli avambracci, che spuntano dalla casacca, corta e rigida, e si appoggiano lungo i fianchi. La cinepresa si fa avanti e ne mostra l’espressione grave, come impaurita da riposti e arcani timori, sottolineata dalle parole di Polibo: «Perché sei così triste e seria? Ridi, invece!». Allora un campo medio, oscillante, presenta Merope ancora tesa, ma già toccata da un sorriso, di fronte al consorte, padre imprevisto e lieto, in una sorta di dolce ritratto familiare. La scena si chiude col primo piano della donna che, con un soffio di voce e le labbra distese, generose, chiama a sé, premurosamente, il figlio: quel bimbetto dai «piedi gonfi», Edipo, infine, viene al mondo una seconda volta, trovando il suo nome e tramutando la regina sterile in madre amorosa.
Una ellissi narrativa inghiotte i lunghi anni dell’infanzia e dell’adolescenza del protagonista e quando ritroviamo Merope nel portico del palazzo, intenta a filare la lana circondata dalle sue ancelle, ripresa in una gestualità quotidiana ma presaga della imminente catastrofe, già comincia la sequenza dell’addio, anticipata dal primo piano dolente rammentato poco sopra. Un sintagma descrittivo degli esterni della reggia – con le inquadrature fruscianti di maestose cicogne che s’involano e lasciano il nido, e il ventoso panorama dei pascoli aridi, con il vecchio pastore ritratto in primo piano – segna il trascorrere del tempo e introduce il drammatico momento del definitivo distacco.
La scena del commiato si apre con la mano carezzevole del figlio appoggiata sulla guancia della madre [fig. 3]. All’inizio la macchina da presa è laterale: Edipo è quasi completamente relegato al fuori campo, solo il braccio e una piccola porzione del profilo entrano nei bordi dell’immagine, inaugurando quella specie di prossemica della separazione ribadita nelle successive opzioni di messa in quadro. Difatti un piccolo spostamento della camera infrange la regola dei 30° gradi, inserendo nella catena del montaggio una scheggia irrilevante dal punto di vista del contenuto narrativo; viene lasciata vuota la metà di destra dell’inquadratura, puntando sulle inquietudini del décadrage, per mostrare soltanto parte della nuca, le terga e la spalla del giovane uomo, concentrando l’attenzione sul volto della madre, che cerca di trattenerlo nel suo sguardo [fig. 4].
Le riprese seguenti sono girate da punti di vista incongrui, sfiorano lo scavalcamento di campo e costruiscono il perimetro della scena in modo franto, disorientante. Sono scelte che si assorellano alle trasgressioni sintattiche del cinema della modernità, ma qui la dissoluzione dei rapporti spaziali si ispessisce a dismisura e compone una sorta di ossimoro visivo. L’acuta e persino tattile prossimità dei protagonisti, rimarcata dall’avambraccio teso e dalle tiepide dita di Edipo, è negata dalle scelte disgreganti del montaggio, che assembla uno spazio raccolto ma indecifrabile, non percorribile, impossibile da attraversare. Invero, madre e figlio sono vicinissimi ma già irrimediabilmente separati a cagione di questa paradossale messa in scena della distanza, insondabile, che isola le immagini e le disperde in una geometria incoerente.
Così, al ritrarsi del dialogo, assai laconico rispetto alla sceneggiatura (cfr. Rizzarelli 2021), supplisce la densità della visione, che si carica di molteplici significati, sovrapponendo l’impaginazione classica del mito allo stordimento dello strazio materno. Mi riferisco alla penultima occorrenza, in mezzo primo piano, di Merope, posta al centro del campo e attorniata da due anziane donne, in una figurazione a tre che riecheggia, al pari del fuso e della filatura della lana evocata in precedenza, le Parche fatali [fig. 5]. È qui che Valli dice a parole il suo «Addio» al figlio. Ma è nell’ultima inquadratura, ravvicinata e piuttosto estesa nella durata (circa dieci secondi), che prorompe in pianto, distillando nel liquido tepore delle lacrime la sua disperazione [figg. 6-8]. Compie pochi e semplici gesti: porta la mano alla bocca a ricacciare un singhiozzo ritenuto troppo sonoro o forse un grido; abbassa la testa e flette lentamente le gambe, accasciandosi al suolo, tenuta in campo dal tremante movimento della camera a mano. Ormai incapace di reggersi in piedi, contratta nella postura dell’abbandono e della resa, alza ancora il capo in direzione del figlio, di cui pare sapersi già orfana, affidando al lampo blu delle iridi l’estremo saluto:
Sotto quel crudo
amore degli occhi
mi sento morire
(Pasolini 2003, p. 402).
La performance pasoliniana di Alida Valli si chiude qui, con uno sguardo in macchina che mescola il patimento, la fragilità e insieme la potenza della madre, di colei che, nonostante la disfatta, sembra preconoscere, e dunque oscuramente dominare, l’avvenire.
3. Profezie del materno
Sospeso fra passato e futuro, il ruolo di Merope rappresenta per l’attrice, come ho accennato poco sopra, l’approssimarsi di nuove opportunità lavorative, specialmente sul versante della maternità (affettuosa, arcigna o addirittura brutale) e, in senso largo, dell’accudimento. Certamente si tratta di una piega determinata anche da questioni anagrafiche, e da un destino comune alle interpreti che non si arrendono alla marginalizzazione, allo scivolamento per dir così sul fondo delle inquadrature che l’avanzare dell’età comporta. Ad ogni modo, la madre tragica impersonata per la macchina da presa di Pasolini occupa una posizione non trascurabile nella parabola schermica di Alida Valli: ne rilancia il nome, che campeggia in terza posizione nei cartelli dei titoli di testa, e la riporta, grazie anche alla kermesse veneziana, all’attenzione della critica e dei nuovi autori italiani.
Ma al di là delle occasioni produttive e delle voghe mediali, a colpirmi, più di tutto, sono gli strati del tempo, le epoche cinematografiche che si appoggiano sulla sua Merope e che da lei si dipartono. Voce profetica che preannuncia, nello splendore di pochissime inquadrature, le possibilità del divenire, la tragica madre di Edipo è anche il segno di una profezia che si avvera, giacché sembra portare a compimento la parabola di Luisa, la prima madre tragica incarnata da Valli in Piccolo mondo antico (Soldati, 1941). È questa umbratile figura, intorbidita dalla follia per la perdita della figlioletta e artatamente invecchiata nella seconda parte del film, che affranca la ventenne Alida dalle parti scipite di vivace studentessa o di flapper impertinente assegnatele fino ad allora (cfr. Laura 1979, pp. 53-55). La prova da vera attrice sostenuta di fronte alla cinepresa di Soldati risuona nell’Italia dei primi anni Quaranta come una promessa, un vaticinio che l’Edipo re di Pasolini, molti decenni più tardi, trasforma in realtà.
Bibliografia
M. Comand, S. Gundle (a cura di), Alida Valli, numero monografico, Bianco e nero, 586, 2016.
R. de Berti, ‘Biografie di una “stella di casa nostra”. Alida Valli da giovinetta a mamma’, in M. Comand, S. Gundle (a cura di), Alida Valli, pp. 21-39.
O. Fallaci, ‘Lo specchio del passato. Alida Valli’ [1965], in Ead., Intervista con il mito, Milano, Rizzoli, 2010, edizione e-book, pp. 432-452.
E.G. Laura, Alida Valli, Roma, Gremese, 1979.
G. Maina, ‘Vallinferno. Interpretazioni di genere di una diva “del passato”’, in M. Comand, S. Gundle (a cura di), Alida Valli, pp. 79-91.
P.P. Pasolini, Mater castissima, in Id., Tutte le poesie, a cura di Walter Siti, Milano, Mondadori 2003, p. 412.
L. Pellizzari, C.M. Valentinetti, Il romanzo di Alida Valli. Storie, film e altre apparizioni della signora del cinema italiano, Milano, Garzanti, 1995.
S. Rimini, M. Rizzarelli, ‘Primi sondaggi per una teoria dell’attore secondo Pasolini’, Studi pasoliniani, 15, 2021, pp. 93-103.
M. Rizzarelli, ‘Die 'Liebe der Augen'. Mythos und Aufopferung der Mutter in den Filmen Pasolinis’, in C. Rok (ed.), Authentizität nach Pasolini, Paderborn, Brill Fink, 2023, pp. 25-43 [‘L’«amore degli occhi». Mito e sacrificio materno nel cinema di Pasolini’, in Atti del convegno Internazionale L’autenticità secondo Pasolini / Authentizitat nacht Pasolini. Regresso, mito e redenzione nell’opera cinematografica di Pier Paolo Pasolini / Regress, Mythos un Erlosung im filmischen Gesamtwerk Pier Paolo Pasolinis, organizzato dall’Università di Bonn in collaborazione con l’Istituto Italiano di cultura di Colonia, Bonn-Cologne 15-16 ottobre 2021], in press.