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Abstract: ITA | ENG

Il presente contributo si propone di analizzare la qualità che assume lo spazio scenico nella ricerca a teatro di Chiara Guidi in relazione al racconto e allo sguardo dello spettatore, soffermandosi in particolare sull’ultimo lavoro, Edipo. Una fiaba di magia (2019). La sua pratica scenica, da lei stessa denominata “Teatro infantile”, sin dagli anni Novanta si caratterizza per diverse forme di costruzione della scena in grado di accogliere oltre all’incedere della storia anche quello degli spettatori. A una prima parte, in cui si delineano alcuni elementi che contraddistinguono la visione dei suoi allestimenti teatrali, segue l’analisi della riscrittura della tragedia di Sofocle in veste di fiaba. L’eroe sbarca in un territorio inabissato, mondo del sottoterra che lo sottopone a una prova di abilità e di conoscenza di sé stesso

The contribution aims to analyze the quality that the stage space assumes in Chiara Guidi’s theater research in relation to the story and the spectator’s gaze, focusing in particular on the latest work, Edipo. Una fiaba di magia (2019). Her stage practice, which she herself called “Teatro infantile”, has been characterized since the 1990s by different forms of construction of the stage capable of accommodating, in addition to the progress of history, also that of spectators. The first part, in which some traces that distinguish the theatrical productions of the past are outlined, is followed by the analysis of the rewriting of Sofocle’s tragedy as a fairy tale. The hero lands in an abyssed territory, an underground world that subjects him to a test of skill and knowledge of himself.

 

 

Dal 2006 Chiara Guidi, fondatrice con Romeo e Claudia Castellucci e con Paolo Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio, oggi Socìetas, si dedica da sola a un percorso di ricerca sull’infanzia sia attraverso la creazione di spettacoli teatrali sia incontrando personalmente adolescenti, educatori, educatrici e genitori all’interno di attività di formazione, corsi di aggiornamento e, a Cesena, nelle giornate di puericultura teatrale nell’ambito di Puerilia.

Chiara Guidi porta avanti un’indagine concepita, pensata e scritta con in mente l’infanzia e i suoi lavori danno voce a una domanda piuttosto che a una sentenza finale che interessa tanto i bambini quanto gli adulti. Ai più grandi è infatti concessa una visione della scena soltanto se essi sono disposti a lasciarsi andare e affinare lo sguardo, mimando la plasticità e la destrezza di visione dei piccoli spettatori in prima fila, letteralmente immersi nella situazione rappresentata.

Sin dagli esordi un numero significativo di lavori, aperti alla presenza chiassosa e divaricante dei bambini, è dedicato alla ricezione dell’antico e alla polisemia dei miti, portando alla luce ciò che ancora essi sono capaci di raccontare. E dato che «i miti non hanno già sempre quel significato che viene loro conferito»[2] e aumentano il loro potere a seconda della forma in cui ciascuno di noi li include, i materiali di provenienza mitica vengono ridisegnati da Guidi, per la scena, attraverso la lente della fiaba, portatrice anch’essa di un enigma impenetrabile e di una crudeltà che assorbe il senso del tragico. «Così le fatiche di Ercole valgono quindi quelle di Pollicino o di Pinocchio»,[3] si legge nella scheda dello spettacolo Le fatiche di Ercole. Se nella maggior parte dei casi gli allestimenti di tutti i suoi lavori puntano alla costruzione di un’architettura del racconto espansa nello spazio e da attraversare a piedi, nell’ultimo lavoro, Edipo. Una fiaba di magia (2019), le vicende sono tutte contenute all’interno della scatola scenica. Prima di mettere a fuoco alcuni elementi che contraddistinguono quest’ultima opera, possiamo soffermarci brevemente sulla visione inedita a cui si sottopone lo spettatore durante i suoi spettacoli.

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  • Arabeschi n. 15→
  • Barbablù. Il mito al crocevia delle arti e delle letterature →

 

Il rapporto che la cultura letteraria e artistica occidentale intrattiene con Barbablù sta sotto il segno dell’ambivalenza: da una parte ne è attratta, dall’altra corre spesso ai ripari di questa attrazione, quasi a ricalcare nel complesso la dinamica narrativa su cui si innesta la vicenda dell’uxoricida fiabesco e della sua ultima moglie. Dimensione intrinseca alla storia, l’ambivalenza ne accompagna, d’altronde, la fortuna fin dal momento in cui Charles Perrault la codifica narrativamente e, con la pubblicazione delle Histoires du temps passé, avec des moralitez (1697), dà avvio al processo della sua sedimentazione nella memoria culturale europea.

Anche grazie al lavoro di artisti che illustrano numerose riedizioni del testo in Francia e in altri paesi, i personaggi e i momenti salienti del racconto si imprimono progressivamente nell’immaginario collettivo occidentale, che non smette di rielaborarli, conferendo loro, col passare del tempo, un’aura vieppiù esotica o estetizzante, significativamente assente nel testo e nelle sue primissime illustrazioni.

Vero è, comunque, che tra avvicinamento e distanziamento si muove già Perrault, in un gioco sottilmente ironico che non permette a nessuno dei due poli di prevalere. Conviene seguire a somme linee la sua operazione.

Innanzitutto, in sintesi, il racconto: un uomo estremamente ricco chiede a una gentildonna sua vicina di dargli in moglie una delle sue due figlie, ma entrambe le ragazze sono riluttanti a causa della barba blu del pretendente (motivo per cui tutte le donne lo trovano spaventoso e rifuggono alla sua vista) e per il fatto che nessuno sa che fine abbiano fatto le sue mogli precedenti; invitate dall’uomo a passare alcuni giorni nella sua casa di campagna, passano insieme a lui, alla madre, a quattro amiche e ad alcuni giovani, otto giorni di piaceri, tanto che, alla fine, la figlia minore si convince che la sua barba non sia così blu e che egli sia un gentiluomo; accetta quindi di sposarlo e va a vivere nella sua dimora cittadina; dopo un mese, il marito le comunica di doversi assentare per un certo periodo e le consegna la chiave di tutti i suoi appartamenti, come anche delle stanze, dei forzieri e delle casse contenenti oro, argento e pietre preziose, affinché ne possa godere invitando anche amiche; con fare estremamente minaccioso, le vieta però di entrare in un unico stanzino collocato al pianterreno, di cui le consegna comunque la chiave; la donna non fa passare tempo in mezzo e alla partenza dell’uomo, mentre le amiche godono alla vista di tutte le ricchezze nelle altre stanze ai piani superiori, lei si precipita giù per le scale e, tremante all’idea delle possibili conseguenze della sua disobbedienza, apre la porta dello stanzino; appesi alle pereti e riflessi nel sangue scopre i corpi sgozzati delle precedenti mogli; in preda al terrore, fa cadere la chiave nel sangue e i tentativi successivi di ripulirla sono inutili: il sangue ricompare costantemente; al suo rientro, il marito le chiede di riconsegnargli tutte le chiavi e, vedendo la macchia su quella dello stanzino, comprende che la moglie ha infranto il divieto decretando così la propria morte; si accinge quindi ad ammazzarla, ma le concede sette minuti di tempo per la preghiera con cui la donna chiede di poter prendere commiato dalla vita; in realtà, sfrutta quei minuti per implorare la sorella Anne di salire sulla torre per vedere se i fratelli (mai citati prima) stiano arrivando per fare loro la visita promessa e per pregarli di affrettarsi; i fratelli (un dragone e un moschettiere), in effetti, arrivano, e, trafiggendolo con la spada, uccidono Barbablù che, con il coltello in mano, sta ormai per tagliare la gola alla moglie; ereditate tutte le ricchezze del marito, la donna le usa per maritare la sorella e per acquistare ai fratelli il grado di capitano; infine, si risposa con un gentiluomo che le farà dimenticare i brutti momenti passati con il primo marito.

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Barbablù fa il suo ingresso nel teatro e nella letteratura tedeschi grazie alla favola teatrale di Ludwig Tieck (edita in quattro atti nel 1797, poi in cinque nel 1812). Rudolf Haym (1870, pp. 90 sgg.), giudicava l’impresa intrinsecamente impossibile: la dimensione fantastica e illogica della fiaba sarebbe costitutivamente incompatibile con i rapporti di causalità e il realismo richiesti dalla scena, sicché Blaubart potrebbe essere tollerato in teatro, grazie al potere de-realizzante della comicità e della musica, tutt’al più come musikalische Zauberposse (farsa magica in musica). Il dramma di Tieck conobbe effettivamente una fortuna scenica particolarmente scarsa a suo tempo, e nel Novecento (il secolo che pure ha reso possibile spesso in teatro ciò che in passato era ritenuto impossibile) esitò addirittura in un terribile Theaterskandal (Residenztheater di Monaco, regia di Jürgen Fehling, 1951).

Il caso di Herbert Eulenberg, dunque, sembra paradigmatico alla luce di tali premesse: rappresentato nel 1906 come dramma in prosa, il suo Barbablù si dimostrò un solenne fiasco e un eclatante Theaterskandal; riproposto nel 1920, questa volta riadattato a libretto per la musica di Rezniceck, riscosse invece un discreto successo [fig. 1]. Quando nel 1905 pubblica Ritter Blaubart (Cavaliere Barbablù) Eulenberg – autore oggi pressoché dimenticato o ricordato come degno di oblio, ma che, soprattutto tra il 1910 e l’inizio della prima guerra mondiale, godette di larghissimo favore sulle scene tedesche – era praticamente uno sconosciuto per i grandi teatri di Berlino. Improvvisamente i due maggiori uomini di teatro dell’epoca, Otto Brahm e Max Reinhardt, s’interessano al suo testo. Il primo portando nel 1889 gli Spettri di Henrik Ibsen e Prima dell’alba di Gerhard Hauptmann (epocale scandalo teatrale) alla Freie Bühne aveva ‘rivoluzionato’ le scene tedesche e inaugurato il naturalismo; il secondo, formatosi alla scuola di Brahm, era diventato il regista antinaturalista per eccellenza, deciso a bandire il grigiore della vita quotidiana e a recuperare la magia dello spettacolo.

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