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Il saggio indaga in che modo lo sguardo pittorico di Tommaso Pincio si riverbera sulla sua scrittura, agendo sottotraccia come una presenza fantasmatica. Infatti, la prosa di Pincio è caratterizzata dalla coesistenza di due anime, il pittore mancato e lo scrittore acquisito, che non cercano di raggiungere un improbabile equilibrio ma continuamente convergono e divergono tra loro. Queste oscillazioni generano una proliferazione di attriti creativi, che consentono di sperimentare diverse modalità di interazione tra parola letteraria e immagine. In particolare, nel romanzo-saggio Il dono di saper vivere (2018) lo scrittore ha trovato nella figura multiforme di Caravaggio – che da sempre lo ossessiona – lo specchio per osservare le proprie idiosincrasie e anche per indagare l’ipocrisia della società contemporanea.   

The essay investigates how Tommaso Pincio’s pictorial gaze affects his writing as a ghostly presence underlying the textual surface. Pincio’s prose is characterised by the coexistence of two souls, the failed painter and the acquired writer, who do not seek for an impossible balance but constantly converge and diverge. These oscillations generate a proliferation of creative frictions, which enable the experimentation of different interactions between literary word and image. In particular, in the novel-essay Il dono di saper vivere (2018), Pincio represents the multifaceted figure of Caravaggio – which has always obsessed him – as a mirror to observe his own idiosyncrasies and to investigate the hypocrisy of contemporary society. 

 

Nel romanzo-saggio Il dono di saper vivere (2018), il personaggio protagonista della prima parte del libro ricorda di quella volta in cui, durante una gita scolastica alla Galleria Borghese a Roma, i compagni di classe si rendono conto improvvisamente della somiglianza tra il suo volto e quello del Bacchino malato (1593-94), estendendo il sarcastico soprannome con cui lo identificano, ovvero il Melanconia, anche al quadro di Caravaggio, nel quale il pittore si è autoritratto dopo una lunga malattia. L’ombra del pittore lo perseguita fin dall’adolescenza: si tratta di un rispecchiamento che è anche una condanna, perché tutte le scelte sbagliate del personaggio che narra la propria storia dalla galera sono in qualche modo legate alla figura del pittore lombardo, il Gran Balordo.

Senza confondere questo personaggio con la biografia dell’autore, è possibile affermare che Tommaso Pincio – pseudonimo di Marco Colapietro – sia da sempre ossessionato dalla figura di Caravaggio, alla ricerca della radice profonda della sua arte, di quello sguardo sul mondo intriso di originalità e malinconia. Tale ossessione è in realtà l’emblema di quella più ampia che lo scrittore nutre nei confronti dell’immagine pittorica, che caratterizza tutta la sua opera dagli esordi narrativi fino agli esiti più recenti: la complessa e mai pacificata relazione tra arte e letteratura è il fulcro della sua scrittura. Di certo, grazie alla formazione ricevuta presso l’Accademia di Belle Arti di Roma egli possiede una conoscenza puntuale delle differenti tecniche artistiche che – pur avendo rinunciato alla strada della pittura – incide significativamente sul suo modo di guardare l’arte e il mondo circostante. Inoltre, va aggiunta l’esperienza lavorativa tra gli anni ’80 e ’90 presso le sedi di Roma e New York della Galleria d’arte internazionale di Gian Enzo Sperone, il gallerista torinese che ha avuto il merito di promuovere alcuni tra i più significativi movimenti artistici italiani del secondo Novecento, quali l’Arte Povera – così definita da Germano Celant – e la Transavanguardia – ideata da Achille Bonito Oliva. Pincio si trova a frequentare artisti italiani e internazionali, sperando di poter fare parte di quel mondo, ma allo stesso tempo comincia a scrivere d’arte, elaborando un proprio stile di scrittura tra critica d’arte e narrativa.

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Il centenario della nascita di Leonardo Sciascia, grazie alle iniziative editoriali e culturali che mettono a fuoco la passione dello scrittore per il cinema, la fotografia e le arti figurative, costituisce un’occasione per fare un bilancio degli studi dedicati al suo rapporto con la cultura visuale. Il presente saggio, partendo dalle varie iniziative celebrative, prova a verificare la fecondità di un metodo, quello dei visual studies, capace di illuminare l’opera di Sciascia da una prospettiva inedita e originale.  

Leonardo Sciascia’s Centennial is an opportunity to assess the state of the field pertaining the research into his relation with visual culture, thanks in particular to the many editorial and cultural initiatives focusing on his passion for cinema, photography and figurative arts. This essay's starting point are the anniversary's celebrative events, and its aim is to gauge the fertility of visual studies' methodology, in order to shed an original and innovative light on Sciascia's work.  

 

L’8 gennaio 2021 Leonardo Sciascia avrebbe compiuto cent’anni. Il nuovo anno si apre dunque all’insegna di mostre, eventi, pubblicazioni e articoli sui quotidiani dedicati alla celebrazione di questo importante ‘compleanno’. Una parte consistente di queste iniziative commemorative insiste significativamente sui rapporti dello scrittore con le arti visive invitando, proprio chi attraverso lo speculo di questa relazione intermediale si è occupato di Sciascia in passato, a una verifica della fecondità di un metodo che una decina di anni fa era apparso come la migliore via per studiare una delle personalità più affascinanti della letteratura contemporanea, sfuggendo a una serie di ipoteche che sembravano ormai ingabbiarlo dentro un’immagine stereotipica, in primis quella dello scrittore siciliano esperto narratore di ‘cose di cosa nostra’. Si coglie dunque questa importante ricorrenza come occasione per un bilancio delle ricerche e degli studi visuali dedicati a Sciascia, compiuti in collaborazione con studiose, incontrate anche grazie ai comuni interessi sciasciani, che fanno parte della redazione di questa rivista fin dalla sua ideazione (come Mariagiovanna Italia e Simona Scattina) che è nata – ci piace ricordarlo – nel 2013 con un esplicito omaggio alla passione dello scrittore per le arti figurative. Nel primo numero era infatti contenuto un focus intitolato Considerazioni sul mondo visibile. L’alfabeto della pittura di Leonardo Sciascia volto ad offrire una campionatura dei temi e degli artisti su cui si è posato il suo sguardo, inaugurando una rubrica che rimanda sin dal titolo alla frequentazione sciasciana delle gallerie. Il momento della fruizione dell’arte è stato infatti per lui sempre situato in luoghi di ritrovo e di discussione e la dimensione militante che si coglie in molti suoi articoli nasce dall’esperienza in presa diretta degli spazi di elaborazione intellettuale in cui si formano i pittori di cui scrive, come lo studio romano di Bruno Caruso, in via Mario de’ Fiori, e le gallerie palermitane Arte al Borgo, gestita da Eustachio e poi da Maurilio Catalano, o La Tavolozza di Vivi Caruso. Alle gallerie reali, del resto, nel suo immaginario si sovrappongono quelle ideali: non è un caso se la rivista fondata insieme a Mario Petrucciani e Jole Tornelli, da lui diretta a partire dal 1950, sia denominata appunto «Galleria» e dedichi diversi numeri speciali ad artisti come Caruso (1969), Maccari (1970), Guttuso (1971), Migneco (1972), Mazzullo (1972), Clerici (1988).

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  • Arabeschi n. 15→
  • Barbablù. Il mito al crocevia delle arti e delle letterature →

 

Il rapporto che la cultura letteraria e artistica occidentale intrattiene con Barbablù sta sotto il segno dell’ambivalenza: da una parte ne è attratta, dall’altra corre spesso ai ripari di questa attrazione, quasi a ricalcare nel complesso la dinamica narrativa su cui si innesta la vicenda dell’uxoricida fiabesco e della sua ultima moglie. Dimensione intrinseca alla storia, l’ambivalenza ne accompagna, d’altronde, la fortuna fin dal momento in cui Charles Perrault la codifica narrativamente e, con la pubblicazione delle Histoires du temps passé, avec des moralitez (1697), dà avvio al processo della sua sedimentazione nella memoria culturale europea.

Anche grazie al lavoro di artisti che illustrano numerose riedizioni del testo in Francia e in altri paesi, i personaggi e i momenti salienti del racconto si imprimono progressivamente nell’immaginario collettivo occidentale, che non smette di rielaborarli, conferendo loro, col passare del tempo, un’aura vieppiù esotica o estetizzante, significativamente assente nel testo e nelle sue primissime illustrazioni.

Vero è, comunque, che tra avvicinamento e distanziamento si muove già Perrault, in un gioco sottilmente ironico che non permette a nessuno dei due poli di prevalere. Conviene seguire a somme linee la sua operazione.

Innanzitutto, in sintesi, il racconto: un uomo estremamente ricco chiede a una gentildonna sua vicina di dargli in moglie una delle sue due figlie, ma entrambe le ragazze sono riluttanti a causa della barba blu del pretendente (motivo per cui tutte le donne lo trovano spaventoso e rifuggono alla sua vista) e per il fatto che nessuno sa che fine abbiano fatto le sue mogli precedenti; invitate dall’uomo a passare alcuni giorni nella sua casa di campagna, passano insieme a lui, alla madre, a quattro amiche e ad alcuni giovani, otto giorni di piaceri, tanto che, alla fine, la figlia minore si convince che la sua barba non sia così blu e che egli sia un gentiluomo; accetta quindi di sposarlo e va a vivere nella sua dimora cittadina; dopo un mese, il marito le comunica di doversi assentare per un certo periodo e le consegna la chiave di tutti i suoi appartamenti, come anche delle stanze, dei forzieri e delle casse contenenti oro, argento e pietre preziose, affinché ne possa godere invitando anche amiche; con fare estremamente minaccioso, le vieta però di entrare in un unico stanzino collocato al pianterreno, di cui le consegna comunque la chiave; la donna non fa passare tempo in mezzo e alla partenza dell’uomo, mentre le amiche godono alla vista di tutte le ricchezze nelle altre stanze ai piani superiori, lei si precipita giù per le scale e, tremante all’idea delle possibili conseguenze della sua disobbedienza, apre la porta dello stanzino; appesi alle pereti e riflessi nel sangue scopre i corpi sgozzati delle precedenti mogli; in preda al terrore, fa cadere la chiave nel sangue e i tentativi successivi di ripulirla sono inutili: il sangue ricompare costantemente; al suo rientro, il marito le chiede di riconsegnargli tutte le chiavi e, vedendo la macchia su quella dello stanzino, comprende che la moglie ha infranto il divieto decretando così la propria morte; si accinge quindi ad ammazzarla, ma le concede sette minuti di tempo per la preghiera con cui la donna chiede di poter prendere commiato dalla vita; in realtà, sfrutta quei minuti per implorare la sorella Anne di salire sulla torre per vedere se i fratelli (mai citati prima) stiano arrivando per fare loro la visita promessa e per pregarli di affrettarsi; i fratelli (un dragone e un moschettiere), in effetti, arrivano, e, trafiggendolo con la spada, uccidono Barbablù che, con il coltello in mano, sta ormai per tagliare la gola alla moglie; ereditate tutte le ricchezze del marito, la donna le usa per maritare la sorella e per acquistare ai fratelli il grado di capitano; infine, si risposa con un gentiluomo che le farà dimenticare i brutti momenti passati con il primo marito.

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Abbiamo incontrato Maria Nadotti – non solo traduttrice di riferimento in Italia per le opere di John Berger, ma anche sua amica e collaboratrice nell’ambito di vari progetti – nel marzo 2019, in un caffè milanese popolato da molti cani vivaci. Quello che viene pubblicato è il frutto di una conversazione che, grazie alla generosità dell’intervistata, possiamo dire essere avvenuta all’insegna di due parole molto care allo stesso Berger: l’ospitalità e il fare insieme.

 

 

Beatrice Seligardi: Come sei entrata in contatto con l’opera di John Berger e con la sua figura di intellettuale? Come sei diventata la sua traduttrice in Italia?

Maria Nadotti: Tutto è cominciato con la lettura, che risale al 1986, di un libro di John che continua ad essere la sua opera a me più cara: I nostri volti, amore mio, leggeri come foto. Lo trovai per caso in una libreria di New York, dove all’epoca vivevo. Mi colpì subito il titolo, così come la sua copertina spoglia, senza immagini, solo il titolo – And Our Faces, My Heart, Brief as Photos – scritto a mano.

Lo lessi, innamorandomi di quella scrittura, di quel pensiero, e cominciai a tradurne per conto mio alcune pagine – all’epoca non lavoravo come traduttrice –. Da quel momento cominciai a leggere tutto quello che mi capitava di suo. Tra il 1993 e il 1994, durante un mio periodo di collaborazione con la rivista Linea d’ombra, proposi di fare un’intervista a John Berger, che non avevo mai conosciuto e di cui non sapevo nulla, se non quello che avevo letto nei suoi libri. Gli scrissi una lettera, a mano, esprimendogli il mio desiderio di intervistarlo. Lui mi rispose con una lettera – sempre scritta a mano – pochi giorni dopo, dicendomi che non amava le interviste, ma proponendomi qualcosa di più interessante. All’epoca stava lavorando a quello che sarebbe diventato To the Wedding (Festa di nozze), la cui ultima e terza parte si svolge nelle valli di Comacchio. Aveva bisogno di qualcuno che lo guidasse in quello che lui definiva un paesaggio «più misterioso delle Piramidi d’Egitto», per capirne meglio l’economia che ruota intorno al mistero dell’anguilla, il pesce serpente. 

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John Berger (Londra, 5 novembre 1926 – Parigi, 2 gennaio 2017) è stato uno degli artisti e intellettuali di lingua inglese più importanti del secondo Novecento e dei primi anni del nuovo millennio. In qualsiasi campo si sia cimentato (dalla letteratura al disegno, passando per la saggistica, il cinema o il teatro), la sua produzione è stata, in sintesi, una Questione di sguardi, per citare il titolo del suo libro forse più noto, Ways of Seeing (1972), tratto dall’omonima serie di programmi televisivi per la BBC.

Guardare un’opera d’arte significa, per Berger, mettere a parte dei suoi segreti i lettori, o gli spettatori, invitandoli ad un percorso di conoscenza, inizialmente dischiuso dall’opera, che è da compiersi insieme. La dimensione collaborativa – tipica della sua stessa produzione, come testimoniano, fra gli altri, il progetto A Seventh Man (1975) insieme al fotografo Jean Mohr, oppure Smoke (2016), insieme all’illustratore turco Selçuk Demirel, o ancora l’interesse per un’arte che è paradigma della collaborazione come il cinema (si ricordino, tra gli altri, le sceneggiature di tre film di Alain Tanner: La Salamandre, 1971, Middle of the World, 1974, Jonah Who Will Be 25 in the Year 2000, 1976) – libera la scrittura d’arte di John Berger dalle pastoie di certa critica d’arte canonica e accademica, come lui stesso sottolinea nell’introduzione alla recente antologia di saggi Portraits (2015), curata da Tom Overton: «Non ho mai sopportato di essere definito un critico d’arte. […] Sarà chi legge i miei testi a valutare ciò che un’impostazione e una pratica di questo tipo producono. Io sono sempre pieno di dubbi. Di una cosa, però, sono sicuro, ed è la gratitudine che provo nei confronti degli artisti per la loro ospitalità».

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