Lo sguardo pittorico di Tommaso Pincio

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Abstract: ITA | ENG

Il saggio indaga in che modo lo sguardo pittorico di Tommaso Pincio si riverbera sulla sua scrittura, agendo sottotraccia come una presenza fantasmatica. Infatti, la prosa di Pincio è caratterizzata dalla coesistenza di due anime, il pittore mancato e lo scrittore acquisito, che non cercano di raggiungere un improbabile equilibrio ma continuamente convergono e divergono tra loro. Queste oscillazioni generano una proliferazione di attriti creativi, che consentono di sperimentare diverse modalità di interazione tra parola letteraria e immagine. In particolare, nel romanzo-saggio Il dono di saper vivere (2018) lo scrittore ha trovato nella figura multiforme di Caravaggio – che da sempre lo ossessiona – lo specchio per osservare le proprie idiosincrasie e anche per indagare l’ipocrisia della società contemporanea.   

The essay investigates how Tommaso Pincio’s pictorial gaze affects his writing as a ghostly presence underlying the textual surface. Pincio’s prose is characterised by the coexistence of two souls, the failed painter and the acquired writer, who do not seek for an impossible balance but constantly converge and diverge. These oscillations generate a proliferation of creative frictions, which enable the experimentation of different interactions between literary word and image. In particular, in the novel-essay Il dono di saper vivere (2018), Pincio represents the multifaceted figure of Caravaggio – which has always obsessed him – as a mirror to observe his own idiosyncrasies and to investigate the hypocrisy of contemporary society. 

 

Nel romanzo-saggio Il dono di saper vivere (2018), il personaggio protagonista della prima parte del libro ricorda di quella volta in cui, durante una gita scolastica alla Galleria Borghese a Roma, i compagni di classe si rendono conto improvvisamente della somiglianza tra il suo volto e quello del Bacchino malato (1593-94), estendendo il sarcastico soprannome con cui lo identificano, ovvero il Melanconia, anche al quadro di Caravaggio, nel quale il pittore si è autoritratto dopo una lunga malattia. L’ombra del pittore lo perseguita fin dall’adolescenza: si tratta di un rispecchiamento che è anche una condanna, perché tutte le scelte sbagliate del personaggio che narra la propria storia dalla galera sono in qualche modo legate alla figura del pittore lombardo, il Gran Balordo.

Caravaggio, Bacchino malato, 1594

Senza confondere questo personaggio con la biografia dell’autore, è possibile affermare che Tommaso Pincio – pseudonimo di Marco Colapietro – sia da sempre ossessionato dalla figura di Caravaggio, alla ricerca della radice profonda della sua arte, di quello sguardo sul mondo intriso di originalità e malinconia. Tale ossessione è in realtà l’emblema di quella più ampia che lo scrittore nutre nei confronti dell’immagine pittorica, che caratterizza tutta la sua opera dagli esordi narrativi fino agli esiti più recenti: la complessa e mai pacificata relazione tra arte e letteratura è il fulcro della sua scrittura. Di certo, grazie alla formazione ricevuta presso l’Accademia di Belle Arti di Roma egli possiede una conoscenza puntuale delle differenti tecniche artistiche che – pur avendo rinunciato alla strada della pittura – incide significativamente sul suo modo di guardare l’arte e il mondo circostante. Inoltre, va aggiunta l’esperienza lavorativa tra gli anni ’80 e ’90 presso le sedi di Roma e New York della Galleria d’arte internazionale di Gian Enzo Sperone, il gallerista torinese che ha avuto il merito di promuovere alcuni tra i più significativi movimenti artistici italiani del secondo Novecento, quali l’Arte Povera – così definita da Germano Celant – e la Transavanguardia – ideata da Achille Bonito Oliva. Pincio si trova a frequentare artisti italiani e internazionali, sperando di poter fare parte di quel mondo, ma allo stesso tempo comincia a scrivere d’arte, elaborando un proprio stile di scrittura tra critica d’arte e narrativa.

Per alcuni anni, in Pincio convivono sullo stesso piano le due tensioni artistiche, il doppio talento (Doppelbegabung), la pittura e la letteratura, e di conseguenza – sottolinea Andrea Cortellessa – «penna e pennello stavano insieme sul suo tavolo concettuale».[1] È in quel periodo che si forma l’attitudine dicotomica dello sguardo di Pincio, nel tentativo di mantenere vivo un duplice percorso artistico e allo stesso tempo di trovare un’impossibile simbiosi tra i due ambiti. In fondo, anche gli antichi Greci utilizzavano uno stesso termine per identificare la scrittura e il disegno, ovvero graphein, in quanto segno inciso su una superficie che rappresenta indifferentemente una lettera dell’alfabeto o una linea grafica. In uno scritto del 2012 intitolato Ritrai, ti prego, la mia storia, è l’autore stesso a delineare con lucida onestà quel passaggio decisivo dall’abbandono della pittura alla scelta della scrittura:

Volevo fare il pittore, scoprii di non avere sufficiente talento e mollai tutto senza sapere a cos’altro dedicarmi. Col tempo, come una sorta di parziale risarcimento, è sopraggiunta la scrittura, l’alternativa del descrivere e del raccontare. Evocare con parole non è come rappresentare con segni e colori, nondimeno lo sguardo del pittore mancato è rimasto dentro di me alla maniera in cui gli estinti seguitano ad abitare una casa, la maniera dei fantasmi cioè.[2]

Lo slittamento di prospettiva si rivela decisamente traumatico per il giovane aspirante pittore che si rende conto di non avere sufficiente talento per perseguire la strada dell’arte pittorica e deve ricalibrarsi verso l’arte della scrittura. Tuttavia, Pincio è anche consapevole del fatto che «lo sguardo del pittore mancato» non può sparire per sempre, ma permane dentro di sé come presenza fantasmatica, continuando ad agire sottotraccia. Infatti, lo sguardo del pittore riemerge nei momenti in cui la narrazione è chiamata a descrivere le immagini, nella più difficile delle sfide per un narratore che è quella ecfrastica di ‘evocare con parole’. Dunque, la scrittura di Pincio è caratterizzata dalla coesistenza di due anime, il pittore mancato e lo scrittore acquisito, che non cercano di raggiungere un improbabile equilibrio ma continuamente convergono e divergono tra loro, generando attriti creativi che consentono di attraversare una molteplicità di sguardi sul mondo.

Nella produzione letteraria di Pincio, la sua duplice indole si manifesta come sperimentazione delle diverse possibilità di far interagire parole e immagini, attuando la tecnica dell’ecfrasi nella descrizione di opere d’arte, ibridando per omologia il linguaggio verbale e quello visivo o realizzando veri e propri iconotesti.[3] Il primo risultato del nuovo percorso intrapreso nella scrittura è il romanzo ucronico M., pubblicato prima a proprie spese nel 1997 e poi dall’editore Cronopio di Napoli nel 1999, nel quale l’azione si svolge in una Berlino distopica coperta da una sorta di cupola che ricorda il Grand Verre (1915-23) di Marcel Duchamp. Il ribaltamento dello sguardo sull’arte proposto provocatoriamente dall’artista francese diviene per Pincio il principio cardine su cui fondare la propria poetica.

Non a caso l’epilogo di quella sorta di autobiografia attraverso ritratti altrui che è Hotel a zero stelle (2011) s’intitola D’altronde sono sempre gli altri che muoiono, come l’auto-epitaffio duchampiano – sulla tomba dell’artista nel cimitero di Rouen si legge «d’ailleurs c’est toujours les autres qui meurent». Infatti, Pincio decidere di chiudere il volume raccontando la sua azione artistica eseguita presso la galleria L’Attico di Roma nel marzo 2006,[4] inserendo anche due fotografie scattate da Alessandro Vasari a testimonianza di due fasi diverse: la prima immortala una parete bianca ricoperta da una serie di ritratti di personaggi famosi amati dallo scrittore e di suoi amici intimi; la seconda mostra la medesima parete ma stavolta sopra ai disegni l’artista ha tracciato la frase ‘Non sparite’. In questo modo, ha realizzato una sorta di paradossale epitaffio in cui il desiderio di far sopravvivere le persone importanti convive con la cancellazione stessa dei ritratti. Si può notare come, a distanza di molti anni dalla decisione di abbandonare la pittura, la necessità di esprimersi attraverso la visualità riemerga prepotentemente quasi come antidoto e divagazione all’attività solitaria ed alienante della scrittura al computer; come rivela l’autore stesso:

Il fatto di passare ore immobile, costretto a una sedia, accumulando parole su fogli di carta, cercando di far combaciare fatti che non sono mai accaduti o che non sono accaduti nel modo in cui li si vuol far combaciare, entrando nella testa di altre persone che spesso manco esistono, ha qualcosa di innaturale. Scrittori non si nasce, non è possibile. In qualche momento della vita, magari anche in tenera età, si contrae questa malattia e, siccome il morbo è incurabile, non se ne può più fare a meno: si scrive ogni giorno qualcosa […]. Ho compreso quanto grave fosse il mio male quando mi sono reso conto che la prima cosa che faccio al mattino, appena alzato, è accendere il computer. L’ultima, prima di coricarmi, è spegnerlo. […] Ho pensato allora che fosse salutare avere in casa un altro rettangolo sul quale posare lo sguardo, perciò sono entrato in un negozio di belle arti e ho acquistato un cavalletto. Prima, quando mi incagliavo nella scrittura o mi rendevo conto che mi lacrimavano gli occhi o avvertivo qualche dolore dovuto alle mie cattive abitudini posturali, il massimo che potevo fare era andare in bagno. Ora vado al cavalletto e riprendo il dipinto che ho lasciato in sospeso. Mischio qualche colore. Stendo una velatura. È un vero sollievo, anche perché la consapevolezza di non essere un grande pittore non è più una fonte di angustia intollerabile.[5]

Se è vero che Pincio ha scelto di percorre la strada della scrittura, è altresì vero che egli continua a percepirla come un’attività innaturale, perché sedentaria, metodica e pericolosa per lo sguardo. Infatti, il rettangolo dello schermo del computer consente sì di creare storie dal nulla, inventare mondi e personaggi attraverso le parole, ma allo stesso tempo si rivela una superficie che aggredisce l’occhio, imponendo la dittatura asettica di una luminosità innaturale. Diversamente, la pittura consente un’ecologia dello sguardo, praticando la libertà del segno, della pennellata sulla superficie ruvida della tela, ed esulando dalle griglie prestabilite della videoscrittura.

 Alessandro Vasari, foto della performance di Tommaso Pincio, Non sparite, 2006

Quando possibile, parola scritta e immagine tendono a convergere, proprio come in Hotel a zero stelle, iconotesto in cui la narrazione nasce a partire da una galleria di ritratti di grandi scrittori disegnati dall’autore stesso: dagli americani Greene, Kerouac, Fitzgerald, Foster Wallace, Dick, Melville, agli italiani Landolfi, Pasolini, Parise, passando per Proust, Orwell e Garcia Marquez. In un albergo di ultima categoria, le stanze sono occupate temporaneamente dagli idoli letterari di Pincio, che attraverso il ritratto e il dialogo immaginario delinea la sua personale visione di ogni scrittore, elaborata a partire dalla lettura assidua delle opere di ciascuno di loro: dalle parole alle immagini, dai ritratti alla narrazione. I riferimenti alla pittura sono numerosi (Hopper, Wool, Warhol, Caravaggio), ma l’opera d’arte che in qualche modo sintetizza l’intera operazione è Cimento dell’armonia e dell’invenzione (1969) di Alighiero e Boetti, giacché essa è composta da una serie di fogli di carta quadrettata che l’artista ha ritracciato a mano con una matita seguendo meticolosamente il reticolo stampato ma creando inevitabilmente un ulteriore reticolo del tutto personale. In merito a quest’opera, Pincio ha scritto un bel saggio intitolato Il cimento della e (1994), in cui riflette sull’originalità di un’azione apparentemente insignificante ma carica di valori eversivi:

Alighiero e Boetti si è sottomesso all’ordito dei quadratini trasformandolo in qualcosa che è agli antipodi della griglia modernista. Ha reso la griglia più umana e, cosa ancora più notevole, narrativa. […] Alighiero e Boetti, contrariamente a quanto è accaduto con l’Informale e l’Arte Povera, è stato in grado di sovvertire il razionalismo modernista accettando le sue regole e inventandone delle altre che si confacevano perfettamente a quelle già date. È riuscito a darsi una voce per mezzo di una struttura votata al silenzio, perché nulla è più premeditatamente muto di una griglia.[6]

L’attrazione di Pincio per l’artista torinese è legata proprio alla capacità di trasformare un modello preformato come la griglia quadrettata in qualcosa di intimo e personale attraverso un’azione minima in grado di mettere in crisi l’esistente e di ribaltare la prospettiva dello sguardo. Anche Pincio ambisce a ‘darsi una voce’ attraverso i modelli letterari degli autori che più ama, rispecchiandosi in loro e rielaborando dall’interno ogni singolo modello con minime variazioni e contaminazioni. In questo modo, la scrittura di Pincio si costruisce come riscrittura delle prose altrui, riuscendo a sviluppare un proprio stile ibrido e metamorfico.

Tale concezione del genere del ritratto, dipinto e descritto, ha notevoli affinità con quella esposta da un altro autore italiano caratterizzato dal doppio talento: Carlo Levi (1902-75). Infatti, lo scrittore e pittore torinese ha dato particolare rilevanza alla tecnica del ritratto, perché riteneva che essa consentisse la reciproca conoscenza tra sé e l’altro sulla medesima superficie della pagina o della tela, dando vita ad un rapporto dialettico tra chi realizza l’opera e il soggetto ritratto che si contaminano a vicenda. Nel saggio I ritratti (elaborato nel 1935 durante la reclusione a Regina Coeli), Levi riflette su quanto il pittore possa proiettare qualcosa di sé nel ritrarre un’altra persona, non solo attraverso il proprio stile ma anche conferendo al volto dell’altro qualche elemento che riconduca alla propria espressione:

Se la prima immagine è quella di sé come altro, il ritratto è l’immagine dell’altro come se stesso, cioè come quella prima immagine fondamentale che è la capacità e possibilità stessa dell’immagine, che è se stesso come altro. Questo Narciso rovesciato, che ripropone e ritrova quel suo archetipo, quella sua forma prima, in tutte le infinite cose, e vi si rispecchia per dimenticarsi di sé e per comprendersi, deve essere capace di intenderle tutte, di trovare in tutte una precedente esperienza comune, che le colleghi e le unisca, e le faccia reali non per l’amore di sé, ma per l’amore della propria somiglianza.[7]

Nel ritratto avviene il rispecchiamento di sé in un’alterità, l’altro da sé rimanda anche l’immagine del pittore, come se – ha puntualizzato Dario Stazzone – «la mimesi scivolasse necessariamente nell’automimesi».[8] Chi realizza un ritratto rivede in qualche modo se stesso nel volto altrui, si osserva con gli occhi di un altro che sono anche i propri. Così ogni ritratto si configura come «Narciso rovesciato» dell’autore, una rifrazione di sé attraverso la quale il soggetto giunge a una provvisoria e mediata autocoscienza. Per Levi tale riflessione teorica sul ritratto diventa fondamentale durante il confino lucano per riuscire ad entrare in rapporto dialettico con l’alterità di un mondo ignoto, magico e astorico, perché attraverso la pittura riesce ad individuare quell’elemento archetipico comune ad ogni essere umano: l’‘indistinto originario’ su cui è possibile fondare una reciproca comprensione – come racconta in Cristo si è fermato a Eboli.

Anche in Pincio è possibile individuare una simile concezione del ritratto, pur collocata in tutt’altro contesto. Lo scrittore romano, infatti, gioca continuamente con la rifrazione carsica della propria identità attraverso plurime identità altrui, prese in prestito da personaggi famosi o inventate, come il suo stesso pseudonimo. Pincio si rispecchia in ogni volto che sceglie di ritrarre, sia dipinto sia narrato, mantenendo l’ambiguità tra autocoscienza e disseminazione identitaria. Si attua così un gioco di rifrazioni che – a differenza di quanto detto per Levi – non corrisponde ad un Narciso ‘rovesciato’ ma ad un Narciso ‘dissolto’ in molteplici minimi frammenti, nell’impossibilità di acquisire una relazione con l’alterità che si manifesta come la costante osservazione di sé nel ribaltamento labirintico al di là dello specchio. E lo specchio è proprio il legame più stretto con la figura di Caravaggio, con cui si confronta nel suo ultimo libro, interrogandosi su che cosa possa significare possedere o meno ‘il dono di saper vivere’.

Il Dono di saper vivere (2018) è un libro stratificato e denso di rifrazioni interconnesse: è allo stesso tempo una sorta di doppia pseudo-autobiografia delle due voci narranti (entrambe alter ego dell’autore) e una pseudo-biografia di Caravaggio, progettata e mai davvero portata a termine. Tale moltiplicazione di identità si rende necessaria per indagare una figura così ingombrante e multiforme come quella del Merisi, tanto mitizzata e monumentale quanto sfuggente alle classificazioni. Per esplorare la figura del pittore in modo non convenzionale, e per potersi districare tra le numerose leggende nate sul suo conto, lo scrittore deve mettere in gioco se stesso, provando ad affrontare Caravaggio da due prospettive antitetiche e complementari: la voce di chi ha creduto di potersi rispecchiare nel pittore, sgretolando velocemente le proprie speranze e finendo in galera, e la voce di chi ha cercato di mantenere una distanza critica dalla sua vita e dalla sua opera.

Lo stesso Pincio ha rivelato – ad una conferenza TEDx tenutasi l’8 ottobre 2011 a Reggio Emilia – che l’idea del libro lo ha accompagnato per almeno vent’anni tra desideri e dubbi, lavorando in lui come un fiume carsico che giunge a destinazione solo dopo lunghe deviazioni e ferma ostinazione:

Soltanto dopo dubbi e tentennamenti ho ceduto all’idea di mettere in cantiere un romanzo su Michelangelo Merisi. Perché dubitassi, perché tentennassi, è ovvio. Parliamo di una vita già percorsa più volte; reiventata calcandone i lati oscuri e irrequieti, alimentando l’immagine di un genio maledetto oltre ogni dire ovvero il classico cliché che uno scrittore con un po’ di sale in zucca dovrebbe scansare come la peste. Più forte del buon senso era però il bisogno di risarcire.[9]

Invece di evitare l’argomento come sarebbe stato opportuno per non rischiare di ricalcare le dicerie sul pittore, Pincio decide di affrontare l’impresa di un libro su Caravaggio proprio nel tentativo di ridare complessità alla figura stereotipata del ‘genio maledetto’. La trappola si annida nella figura stessa del pittore caratterizzata da un multiforme duttilità, che lo rende un personaggio letterario dai più volti, tutti credibili perché può svolgere differenti ruoli con la medesima intensità:

Ognuno può ritagliarsi l’uomo che preferisce. L’omosessuale violento, l’eversore a rischio di inquisizione, l’anticipatore della fotografia: sono tutti ritratti credibili anche se con molta probabilità tutti falsi. E questa sua duttilità, le tante e diverse facce che assume agli occhi dei posteri, non ne sminuiscono affatto la figura, semmai la esaltano, lo rendono mirabilmente italiano, l’uomo capace di trasformarsi, di essere più cose a un tempo.[10]

La biografia di Caravaggio è talmente ricca di aneddoti intriganti – chiacchiere e leggende sul suo conto hanno generato una intrigante stratificazione di vite parallele – che chiunque può sfruttarli a suo piacimento per sviluppare l’aspetto che più lo attira, senza dissipare quel nucleo enigmatico che lo rende un personaggio allo stesso tempo sfuggente e adattabile a qualsiasi genere letterario, dal romanzo storico al noir.[11] Pincio è consapevole che tale disseminazione biografica è inscindibile dalla figura del pittore, e perciò il suo romanzo può configurarsi come biografico solo in forma parziale. Di conseguenza, per fornire una prospettiva originale rispetto alle narrazioni adagiate sugli stereotipi – fondati sulle biografie dei suoi contemporanei, non sempre benevoli – egli deve fare attenzione a non cadere nella tentazione di sfruttare gli episodi più avventurosi della vita del pittore. Si tratta di una tentazione irresistibile, della quale lo scrittore era già stato vittima quando si chiamava solo Marco Colapietro e lavorava presso la galleria d’arte romana di Gian Enzo Sperone; come ammette nella stessa conferenza del 2011: «il vero Caravaggio, se mai ce ne fu uno, ci è comunque ignoto e questo, forse, mi assolve, seppure soltanto con la condizionale, per essermene servito come strumento per blandire i visitatori della galleria della via di Pallacorda».[12] Proprio il famoso ‘fattaccio’ della Pallacorda – nella notte tra il 28 e il 29 maggio 1606 vicino al campo di pallacorda Caravaggio ferì a morte il rivale Ranuccio Tomassoni, durante un litigio per motivi di gioco o per questioni politiche, e fu costretto a fuggire da Roma perché su di lui pendeva una condanna a morte – diventa un legame tra i due narratori del romanzo, che hanno subito la stessa fascinazione di Pincio, riducendosi a sfruttare uno dei fatti più noti e cruenti della biografia di Caravaggio per attirare l’attenzione di possibili acquirenti, nascondendo la propria incapacità come venditori di opere d’arte.

La bipartizione del libro si fonda proprio su un gioco di rispecchiamenti e variazioni che il lettore è indotto a ricostruire: il primo narratore è un giovane che dalla prigione – ha forse commesso un delitto senza saperlo – ripensa a tutte le false illusioni che lo hanno portato a quella situazione, molte delle quali sono legate alla propria ossessione irrefrenabile per Caravaggio, sul quale ha millantato di scrivere una biografia per darsi un tono nel mondo dell’arte; il secondo narratore è un uomo di mezza età, riflessivo e disilluso, che racconta il proprio rapporto altrettanto ossessivo con la figura del pittore, contrapponendosi al primo narratore che egli definisce come il suo ‘falso specchio’, e si cimenta nella scrittura di una biografia strutturata secondo cinque percorsi tematici. Dunque, le due narrazioni si rispecchiano mantenendo le reciproche specificità, ma allo stesso tempo si intersecano perché è plausibile che il secondo narratore sia l’autore della confessione finzionale del primo narratore, con il quale condivide l’ossessione per l’affascinante figura di Caravaggio. Si tratta, allora, di un doppio fallimentare romanzo biografico sulla vita del Merisi, perché entrambi non sembrano riuscire a trovare la giusta distanza per narrare la densa materia biografica del pittore, trovandosi invischiati nella patina mitologica che fin dal Seicento si è stratificata sul ‘Gran Balordo’. Ad ogni modo, attraverso le prospettive straniate dei due narratori emerge un ritratto appassionato, in cui si scorge anche il rapporto ossessivo dello stesso Pincio.

Il simbolo che più di ogni altro identifica la matrice comune da cui nasce la divergenza tra i due narratori è la Y, che rappresenta una strada che si biforca e quindi gli snodi decisionali che caratterizzano ogni vita. Per illustrare il proprio catastrofico destino, il personaggio detenuto associa le decisioni sbagliate prese durante la sua esistenza ad una serie di bivi a Y – paradossalmente la medesima forma di via di Pallacorda: ogni biforcazione corrisponde da un lato alla scelta compiuta (come sono andate le cose), e dall’altro a quella abbandonata (come sarebbero potute accadere). Di scelta in scelta, di bivio in bivio, il destino individuale si configura come «una specie di filo che varierà da individuo a individuo, secondo le infinite possibilità dell’esistere, ma che manterrà l’aspetto di un filo spinato, là dove per spine devono intendersi le deviazioni non prese, le possibilità abortite, ciò che poteva essere e non è stato».[13]

Il filo spinato che rappresenta il destino del personaggio recluso è fortemente influenzato dalla sua ossessione per il pittore lombardo, perché egli ha creduto di poter cogliere nelle sue opere e nella sua biografia i segni propizi per prendere una decisione e scartarne un’altra. Se è vero che ha potuto sfruttare a suo vantaggio gli episodi più avvincenti della vita di Caravaggio nel tentativo di industriarsi nell’arte della seduzione mercantile, necessaria per poter lavorare nella nota galleria di via di Pallacorda – tale episodio è una vera e propria ossessione per Pincio che ne fa riferimento anche in Cinacittà, Hotel a zero stelle, Pulp Roma e Scrissi d’arte –, è altresì inequivocabile che tutti i segnali rintracciati nei quadri caravaggeschi si sono rivelati inattendibili, e anzi hanno danneggiato le sue esigue speranze di fare carriera nel mondo dell’arte.

Si sarebbe dovuto rendere conto immediatamente dell’inaffidabilità di segnali del destino individuati nelle opere di un pittore tanto geniale e anticonformista quanto stravagante e iracondo. Ed invece il personaggio della prima parte persevera nella sua strategia fino a trovarsi invischiato in un caso di omicidio, dal qual non riesce a farsi scagionare, e senza essere riuscito nemmeno a scrivere quella biografia sul pittore che aveva millantato di voler intraprendere.

Un forte sospetto sull’impossibilità di affidarsi al Gran Balordo gli sarebbe dovuto sorgere facendo maggiore attenzione ai risvolti a dir poco equivoci legati alla riscoperta novecentesca del pittore. Infatti, la pittura di Caravaggio viene riscoperta – dopo secoli di semi-oblio – a metà del secolo scorso con la grande mostra milanese del 1951 curata dallo storico dell’arte Roberto Longhi, che ebbe un grande successo di pubblico e di critica. Nel saggio che accompagna il catalogo, Longhi focalizza l’attenzione sulle innovazioni introdotte dall’artista, individuando in particolare quattro aspetti: i modelli presi dalla strada, la composizione teatrale, lo studio delle luci artificiali, l’uso dello specchio.[14] Da quel momento la fama dell’artista si diffonde, e nei decenni successivi diventa una vera e propria attrazione di massa, come testimonia la grande partecipazione di pubblico riscontrata alle mostre organizzate in Italia e all’estero. In realtà, questa riscoperta tardiva non mette d’accordo tutta la critica, che continua a dividersi tra sostenitori e detrattori dell’opera caravaggesca, come già era accaduto nel Seicento; nonostante il percorso di valorizzazione promosso da Longhi sia accurato e libero da pregiudizi, permane l’idea che il pittore possieda sì una tecnica pittorica audace e rivoluzionaria ma che allo stesso tempo – come sostenevano già i suoi contemporanei – si tratti di un uomo privo del «dono di saper vivere», come sentenziava il grande critico d’arte Bernard Berenson nel 1950.[15]

L’effetto collaterale del rilancio di interesse per Caravaggio, pittore e uomo, è la nascita di una nuova mitologia nella quale gli aspetti negativi del suo carattere diventano proprio gli elementi di attrazione da parte del pubblico di massa. Anche il primo narratore condivide l’entusiasmo per la nascente ammirazione per il Merisi, inventore di una nuova pittura, ma è anche destabilizzato dal repentino ed epocale cambiamento nei gusti di massa – che traslano dal mito degli artisti di spicco del Rinascimento –, che aveva dominato fino a quel momento, alla passione collettiva per un pittore stravagante che non si configura come un modello positivo di artista e soprattutto di uomo:

Il Gran Balordo si profilava come il precursore incompreso del nuovo tempo, l’inventore del realismo fotografico, l’eroe ideale per il mondo che si andava sviluppando e questo non mi piaceva. Ero cresciuto in un’epoca che adesso pare preistoria. Nei miei anni di bambino, per la gente comune il massimo del genio non era Merisi ma l’altro Michelangelo, il Buonarroti, o in alternativo Leonardo, a volte Raffaello […]. Sembra uno spostamento da nulla, un semplice avvicendarsi di gusti, eppure in quel transito da un Michelangelo all’altro presentivo il tramonto di un’intera epoca e l’alba di una nuova. Io ero preso nel mezzo, con un piede nel prima e uno nel dopo, e non mi piaceva.[16]

La mutazione di paradigma estetico incide fortemente sulla vita di entrambi i narratori, perché si trovano sospesi tra due epoche: quella rassicurante del mito del Rinascimento, che ha dominato incontrastata per secoli, e quella ‘infida’ del mito del genio caravaggesco, che sembra aprire nuovi orizzonti ma che in realtà porta instabilità. Così il primo narratore, più fragile emotivamente del secondo, non riesce a trovare un equilibrio e si affida completamente al nuovo paradigma, che lo condurrà inevitabilmente alla sconfitta personale. L’arte di Caravaggio ammalia lo sguardo e funge da specchio per tutte le emozioni più nascoste dell’animo umano, ma ciò fa sì che ogni osservatore distorca a suo piacimento l’immagine osservata, generando un perpetuo cortocircuito che amplifica ulteriormente la figura poliedrica del pittore.

Nel complesso rispecchiamento tra primo e secondo narratore si rivela ancora più inquietante la coincidenza tra la reciproca ossessione per il pittore e le prime soddisfazioni lavorative presso la galleria d’arte di Gian Enzo Sperone, chiamato l’Inestinto perché appartiene alla categoria indefinibile e perpetua dei mercanti d’arte: sui primi soldi guadagnati è stampato il volto del Merisi, come un malsano segno di successo. La Banca d’Italia, infatti, decide di adottare una veste ‘caravaggesca’ per la terza serie delle banconote da centomila lire stampate nel periodo tra il 1983 e il 1998. I due grafici incaricati, Savini e Cionini, scelgono questa impostazione per le banconote: da un lato, viene raffigurato il ritratto di Caravaggio eseguito da Ottavio Leoni nel 1621 dopo la morte dell’artista – riscoperto proprio da Longhi – sovrapposto alla seconda versione del quadro del Merisi Buona ventura (1596); dall’altro lato, invece, viene collocata la famosa Canestra di frutta (1594-98). L’importanza di questo elemento è decisiva per il romanzo-saggio: una riproduzione parziale della banconota viene scelta per la copertina, e nel capitoletto 10 le viene dedicata l’ecfrasi più estesa del testo. La banconota si configura così come l’emblema dell’intreccio tra storia dell’arte e neocapitalismo, questione che lo scrittore ritiene decisiva per la società contemporanea. Inoltre, tutte le sfortune del personaggio in galera e tutti i tentativi del secondo narratore di opporsi al consolidamento di Caravaggio in quanto icona postmoderna sono legate alla paradossale composizione della banconota.

Banconota da centomila lire, 1983-98, fronte e retro

Dopo essersi soffermato sul ritratto realizzato dal Leoni, caratterizzato da una mitezza nei lineamenti assai diversa rispetto al volto furioso o sconvolto tipico degli autoritratti caravaggeschi inseriti in molte opere, il personaggio recluso si dedica alla descrizione della banconota, prestando particolare attenzione alla fusione – che sfocia addirittura nella confusione – tra la riproduzione delle opere d’arte e il valore convenzionale del supporto della valuta cartacea:

Il volto di Caravaggio si stagliava come una quinta teatrale a lato di due giovani, un maschio e una femmina, ed era proprio quest’ultima a presidiare il centro della banconota. La ragazza teneva tra le proprie mani la destra del giovane fissandolo. Il giovane ricambiava, chiaramente soggiogato dal fascino di chi lo osservava. A prima vista, l’impressione era di due persone catturate in una corrispondenza di sguardi amorosi dove non è ben chiaro chi seduca chi né importa che lo sia. I motivi decorativi in cui era racchiusa la scena non favorivano un’osservazione più meditata. Per non parlare di quanto mi distraeva la sinuosa frase che troneggiava sulle teste della coppia: “Lire centomila pagabili a vista al portatore”.[17]

In base ai tre gradi d’interpretazione delle opere d’arte individuati da Erwin Panofsky per l’analisi iconologica, è possibile affermare che in questo caso Pincio attua una descrizione pre-iconografica della seconda versione del quadro Buona ventura, poiché la scena viene descritta nei suoi elementi primari come se fosse un incontro tra amanti, e non sapessimo che si tratta del momento in cui una zingara sta sfilando l’anello dal dito di un giovane soldato mentre finge di predirgli il futuro, ovvero la ‘buona novella’. Il paradosso è evidente: come può essere venuto in mente ai grafici della Banca d’Italia di collocare la scena di un furto al centro di una banconota? Il narratore non sa spiegarselo, però si rammarica di non aver compreso subito che quella composizione si connotasse come un cattivo presagio per il suo futuro, perché proprio come il soldato raggirato dalla zingara anche lui stava per cadere nel tranello del destino:

Come potevo essere così sprovveduto da affidarmi alla perversità tutta speciale e italiana, all’ironia spudorata e bizantina di una banca che collocava al centro di un suo titolo al portatore l’immagine di un furto con destrezza? Senza contare che quell’incidente di strada serviva da monito proprio per le persone come me, per chi si fa tentare dall’illusione che sia possibile conoscere il futuro senza viverlo. Il soldato porge la mano confidando in questa scorciatoia e viene punito. Semmai era riposto un segno in quelle banconote nuove di zecca e dai colori sobri, la sua indicazione poteva essere una soltanto. Mai fidarsi dei segni, il futuro non[18]

La prima parte del libro si interrompe proprio su questa frase senza punto fermo, confermando il carattere inconcludente del narratore in galera che aveva sconsideratamente affidato tutta la sua esistenza all’interpretazione dei segni del destino legati all’opera di Caravaggio, senza rendersi conto che era solo un modo per evitare di prendere decisioni dirette e per lasciar decidere al caso. È significativo che la confessione delirante del primo narratore si concluda sulla descrizione della banconota, mettendo in evidenza la composizione grafica decisamente paradossale e quasi ironica, che si configura come il correlativo del disagio esistenziale di chi non riesce a trovare il proprio posto in una società tardocapitalista dominata dalla mercificazione dei beni materiali e immateriali. Anche l’arte viene stravolta dal denaro: non solo le valutazioni delle opere d’arte contemporanea dipendono maggiormente dalla capacità di piazzarle sul mercato globale e non tanto dal valore artistico intrinseco, ma anche l’immagine di un artista del passato – come Caravaggio – può essere associata ad una carta stampata a cui viene dato convenzionalmente un valore di scambio.

Tutta la seconda parte del libro si configura come il tentativo di smascherare l’ipocrisia del sistema economico dominante, condotta da una voce narrante – quasi sovrapponibile a quella dell’autore – che ha volutamente interrotto il primo narratore – che lui definisce ‘falso specchio’, ed è perfettamente conscia di essere immersa senza scampo in un sistema economico tardocapitalista globalizzato. Di conseguenza, il secondo narratore deve mettere a nudo anche se stesso per poter individuare i meccanismi profondi che regolano la società contemporanea, e in base ai quali ogni significato simbolico viene immediatamente valorizzato sul piano commerciale e svalutato su quello culturale.

La riflessione si sviluppa a partire da uno spunto prettamente postmoderno, ovvero il ritrovamento nella spazzatura di un volume dedicato all’opera del Merisi: si tratta del testo di carattere divulgativo intitolato Tutta la pittura del Caravaggio e pubblicato da Rizzoli nello stesso anno della grande mostra milanese.[19] In prima istanza il narratore porta a casa il libricino senza dargli troppa importanza, ma poi decide di sfogliarlo con curiosità, come una testimonianza preziosa della rivalutazione del pittore avviata a metà del Novecento. Quasi subito sente la necessità di riscrivere l’imprecisa introduzione rivolta ad un pubblico di non esperti, correggendo le sviste e le approssimazioni, ma tale operazione lo porta a riflettere sulle ragioni complesse che hanno portato alla nascita della duratura leggenda di un pittore sì geniale ma sprovvisto del ‘dono di saper vivere’:

Il destino postumo di Caravaggio, in particolare il lungo periodo in cui venne accantonato o ricordato per le intemperanze e lo scandalo della sua pittura al vero, fu anch’esso il frutto di una serie di invenzioni dipese solo in parte da lui. La decisiva è forse quella molto diffusa che vuole Michelangelo Merisi incompreso dai suoi contemporanei. Nulla di più falso. Il Grand Balordo ebbe sì qualche problema, si vide rifiutare alcune opere pubbliche perché giudicate sconvenienti, ma non va ignorato che era un’epoca complicata. […] Certo è che le stesse “sconcezze” che a volte facevano fatica a trovare posto in una chiesa venivano apprezzate e acquistate dai cardinali che le esibivano senza troppi pudori nelle loro case. Caravaggio era amatissimo tanto tra i mecenati quanto tra i giovani artisti, anzi era proprio tra questi ultimi che il suo successo appariva più evidente. La mania del caravaggismo che dilagò un po’ in tutta Europa non aveva nulla da invidiare a quella che oggi spinge la gente a stare in fila per ore davanti all’ingresso di un museo.[20]

Sul «destino postumo» del pittore incidono negativamente non solo le accuse dei nemici coevi (come accade nelle notizie biografiche del Baglione e del Bellori, condizionate da un esplicito rancore) e dei detrattori successivi, ma addirittura la venerazione degli imitatori e degli ammiratori, a tal punto che il caravaggismo nato come idolatria del Merisi si è tramutato per assurdo in aggressione parassitaria dell’arte caravaggesca, svalutando l’originale e rischiando di annientare la fama del proprio idolo. Di conseguenza, l’intento del narratore ossessionato dal pittore lombardo è quello di scrivere una biografia diversa dalle precedenti – per quanto ogni biografia sia un’impresa impossibile da portare a termine, come sosteneva Cesare Zavattini, nel tentativo d’intaccare la mitologia distorta fondata sugli stereotipi consolidati da aneddoti, dicerie e leggende, per ridonare complessità umana e artistica alla figura di Caravaggio:

Non avevo bisogno di dare un senso ai fatti, inventarmi un mito o screditare nessuno. Mi bastava razzolare nel marciume e mischiare le carte, ricombinare ciò che pescavo secondo un filo, un motivo conduttore, un’angolazione. Individuare un filo, il resto era uno scherzo. I fatti si risistemavano quasi da soli nella mia mente e un nuovo fantasma di Caravaggio prendeva forma. Quindi, seduto sul divano o alla scrivania del mio piccolo ufficio, tenevo monologhi interiori sul Gran Balordo non molto diversi da quelli che il mio falso specchio tiene agli odiati muri della sua cella.[21]

In linea con questo proposito, la biografia non si struttura secondo la tradizionale scansione cronologica ma si articola attraverso cinque fili dedicati a temi che il narratore ritiene fondamentali per rievocare «un nuovo fantasma di Caravaggio»: denaro, morte, rumore, malinconia e specchio. Questi fili tematici offrono sguardi insoliti sulla figura del pittore e, intrecciandosi l’uno con l’altro, danno conto di una complessità biografica e artistica irriducibile a triti stereotipi. A sottolineare questa prospettiva non convenzionale, ogni capitolo della seconda parte riporta in esergo una citazione tratta dai Diari di Andy Warhol,[22] che crea un legame ironico con il tema affrontato e porta a riflettere sull’operazione ‘pop’ compiuta dal mercato dell’arte ai danni dell’iconografia popolare di Caravaggio.

Significativamente il primo filo è quello del denaro che – come abbiamo visto – ha già avuto una evidente centralità nella prima parte del libro con la descrizione della banconota da centomila lire. Il problema del possesso di denaro è di certo centrale nella società contemporanea assuefatta al capitalismo finanziario, questione che Pincio non evita ma anzi affronta direttamente. Infatti, entrambi i narratori sono angosciati dalla mancanza di denaro: il primo non riesce a trovare un lavoro soddisfacente e i primi soldi guadagnati in galleria li sperpera subito; il secondo invece si è trovato in una situazione simile a quella raffigurata nella Buona ventura di Caravaggio, proprio l’immagine utilizzata dalla Banca d’Italia. Continuano così i rispecchiamenti e gli intrecci, casuali ma decisivi, tra i due personaggi. Inoltre, il concetto di svalutazione artistica ed economica sembra insito alle opere caravaggesche, a causa della difficoltà di attribuzione – lo testimoniano anche Berenson e Longhi – connessa alla proliferazione di copie contraffatte da «uno stuolo di imitatori che hanno intorbidito le acque con le loro copie».[23] Il tema trattato dal filo della morte è quello che più comunemente viene associato all’opera di Caravaggio, come rivela il gran numero di autoritratti inseriti nei quadri in qualità di personaggio morente o di testa mozzata soprattutto dopo la fuga da Roma nel 1606 – si pensi a Davide con la testa di Golia (1607) o alla Decollazione di San Giovanni Battista (1608). Ma in questo caso il narratore espande la riflessione alla sensazione di vivere con la morte addosso, che lui stesso ha provato in un’afosa estate romana e che perseguita Antoine Roquentin ne La nausea di Sartre, giungendo alla conclusione che la morte si configura come uno ‘specchio perfetto’:

Non sappiamo quando arriverà né come, eppure in qualche modo vi scorgiamo un’immagine di noi, secondo una modalità inversa a quella dei vampiri: a sfuggire alla vista non è il nostro riflesso ma lo specchio nel quale ci osserviamo. Spesso questo specchio è il modo in cui ci raccontiamo, la versione di noi che forniamo a noi stessi o agli altri. Ma se è vero che ogni racconto tende per sua natura a risolversi in una fine, difficile non domandarsi in che cosa consista davvero il fascino di una storia. Specialmente di una storia come quella di Caravaggio, il cui epilogo maledetto è da sempre dato in partenza.[24]

L’esistenza di Caravaggio si rispecchia nelle sue opere ma non può nemmeno essere ridotta a ciò che viene raffigurato, altrimenti si cade nell’errore di interpretare tutta la sua biografia a partire dalla fine, come un’inevitabile discesa verso una tragica morte. Il filo successivo è quello del rumore, che si lega proprio alla fama postuma dell’artista condizionata dalla proliferazione delle dicerie. Il narratore porta ad esempio le divergenti interpretazioni della Vocazione di San Matteo (1600) a distanza di tre secoli l’una dall’altra ma ugualmente negative: la prima è proposta dal pittore manierista Federico Zuccari, Principe dell’Accademia di San Luca, che osservando l’opera appena svelata presso San Luigi dei Francesi pare abbia esclamato «che rumore è questo?», aggiungendo sprezzante che si trattava di un naturalismo nella rappresentazione della scena che non aveva nulla di innovativo ma era ‘epigonale’ rispetto a quello di Giorgione; la seconda è quella avanzata dal Berenson che sminuì l’opera – in chiara contrapposizione al Longhi – considerandola solo una bizzarra trovata per stupire il pubblico e generare clamore intorno alla sua arte (in effetti, quella mano di Cristo sembra essere una esplicita sfida al capolavoro di Michelangelo alla Cappella Sistina). Il quarto filo è dedicato alla malinconia – altro elemento che accomuna il narratore della seconda parte e il falso specchio in carcere, entrambi soprannominati ‘Melanconia’ –, attraverso una lunga digressione sulla storia del concetto, da Marsilio Ficino a Robert Burton, dal monologo di Amleto all’incisione di Durer, giungendo fino alla ‘nausea’ sartriana. Il dubbio di fondo è legato all’indole di Caravaggio: se sia davvero malinconico, ombroso e umorale come lo tratteggiavano i suoi biografi, oppure sia invece anti-malinconico, come traspare dalla composizione decisa e brutale delle sue opere. Il narratore, aspirante biografo, non riesce a sciogliere il dilemma ma propende per la seconda ipotesi:

Quello di Caravaggio era un mondo che reclamava l’attenzione ma concedeva poco spazio agli spettatori. Quasi sempre accadeva qualcosa e qualcuno era in qualche misura attore, e se non accadeva nulla, come in certi ritratti, il soggetto dipinto ti fissava e il malinconico, almeno per come lo intendevo io, fissa solo il vuoto. Altrettanto poteva dirsi dell’uomo, che tutto era fuorché flemmatico.[25]

Lo sguardo continua ad essere centrale e non può essere altrimenti, perché la differenza tra una figura che fissa negli occhi lo spettatore e una che guarda nel vuoto risulta fondamentale nel processo di identificazione e rispecchiamento. Così si giunge naturalmente al filo dello specchio, che chiude il libro e il tentativo di biografia. Il narratore avvia la riflessione a partire dalla propria idiosincrasia nei confronti degli specchi, che condivide con il protagonista de La nausea, il quale definisce lo specchio un buco bianco, una trappola per l’identità, perché – chiosa il narratore – «gli impostori che ci osservano da dentro gli specchi ci trasformano in attori».[26] Per il Merisi, invece, l’uso dello specchio ha una specifica funzione artistica, come ha constatato il pittore inglese contemporaneo David Hockney notando che «le figure di Caravaggio non guardano mai dove ti aspetti»,[27] guardano sempre altrove e costringono lo spettatore ad interrogarsi. Questa particolare tecnica nell’utilizzo dello specchio per catturare la luce e le pose dei modelli come in una sorta di ‘camera ottica’ era stata già individuata da Longhi negli anni Cinquanta, intuizione confermata dagli studi della storica dell’arte Roberta Lapucci, la quale si è sbilanciata a definire lo studio di Caravaggio come un vero e proprio laboratorio fotografico.[28]

Grazie allo specchio il pittore lombardo è riuscito a catturare la luce dipingendola con pregevole naturalezza, ma per farlo si dovuto confrontare tecnicamente con il buio e con le porzioni di mondo ritagliate dalle superfici specchianti: una visione vivida e ammaliante delle immagini rappresentate proprio perché indiretta.

Nell’ultima pagina della pseudo-biografia, il narratore propone una riflessione conclusiva ma non esaustiva in merito al divario tra lo sguardo fiero degli eroi dell’antica Grecia e quello indecifrabile dei personaggi raffigurati nei quadri di Caravaggio. Infatti, i primi affrontano il proprio destino senza esitazioni, mentre i secondi possono solo simulare la dignità degli eroi classici, perché in realtà stanno guardando se stessi allo specchio mentre qualcun altro li dipinge, rivelando così la propria fragilità. Per il narratore, quest’ultima condizione si avvicina molto a quella dell’individuo contemporaneo, in balìa di un destino che non è in grado di affrontare:

Mi domando se per noi semplici umani, così lontani da quella maniera di pensare, così pieni di noi stessi e dunque di niente, il dono di saper vivere non consista alla fine nel calarci senza troppe paure né pretese nella parte che qualcuno ha scritto per noi, confidando che un copione c’è, anche se non lo abbiamo letto.[29]

Lo spietato realismo caravaggesco, pur essendo realizzato artificiosamente nella ‘camera oscura’ inventata dal pittore, costringe l’osservatore a rispecchiarsi, a considerare la propria incapacità di prendere davvero decisioni davanti ad un bivio a Y, lasciando le scelte al caso e non avendo il controllo del proprio destino. Allora non è possibile determinare che cosa sia il ‘dono di saper vivere’, perché in qualche modo ogni essere umano è il personaggio di una storia scritta e narrata da altri, come è accaduto per Caravaggio con i suoi biografi.

Quindi, la seconda parte del romanzo-saggio di Pincio si configura non come lo sdipanare ordinato di una serie di fili tematici che offrono un’interpretazione lineare della vita di Caravaggio, ma come un’intricata sovrapposizione di elementi eterocliti e divergenti, tra interrogativi irrisolti e digressioni autobiografiche. Infatti, si assiste ad un costante rispecchiamento tra la biografia del pittore lombardo e la vita privata dell’autore, che mette in evidenza il difficile ‘corpo a corpo’ tra due vite caratteristico del genere biografico e – come sosteneva Carlo Levi – di ogni ritratto: pur distanziati da secoli di storia e da un magma di dicerie, il pittore e il suo aspirante biografo sono accomunati dalla medesima difficoltà di stare al mondo. L’ossessione di Pincio per Caravaggio viene trasferita ai due speculari narratori del suo libro, prendendo come in un bivio a Y due strade divergenti ma complementari: l’ossessione che porta all’anti-malinconico annientamento e quella che porta alla malinconica assuefazione per un obiettivo irraggiungibile. Attraverso la figura multiforme di Caravaggio, lo scrittore ha portato alla luce la propria intima duplicità, caratterizzata dalla coesistenza tra il pittore mancato e lo scrittore acquisito – uno sdoppiamento identitario assimilabile a quello praticato dal suo artista contemporaneo prediletto: Alighiero e Boetti. Lo sguardo pittorico di Pincio soggiace costantemente alla sua scrittura, dando vita ad una continua rifrazione tra elemento visivo ed elemento testuale, che si rispecchiano e distorcono a vicenda senza ambire ad un pacificante equilibrio.

 Marco Colazzo, Colapietro, dalla serie Ritratti unici, 1993

 

 


1 A. Cortellessa, quarta di copertina di T. Pincio, Scrissi d’arte, Roma, L’orma, 2015.

2 T. Pincio, ‘Ritrai, ti prego, la mia storia’, minima&moralia, 6 marzo 2012, scritto in occasione della mostra personale dei ritratti d’artista all’Auditorium di Roma; ora in Id., Scrissi d’arte, p. 266.

3 Cfr. L. Torti, ‘Tommaso Pincio, l’arte nella letteratura. Tra iconotesti, ‘ekphrasis’ e scrittura ‘visiva’’, Griseldaonline, 18, 2019.

4 L’iniziativa intitolata D’altronde, sono sempre gli altri che muoiono è stata ideata dal gallerista Fabio Segantini, chiedendo a un gruppo di artisti, scrittori e critici d’arte di proporre il loro epitaffio ogni sera sullo stesso muro della galleria.

5 T. Pincio, Hotel a zero stelle, Roma-Bari, Laterza, pp. 223-24.

6 T. Pincio, Il cimento della e, in Id., Scrissi d’arte, pp. 143-44. Il testo è stato pubblicato nel catalogo della mostra personale di Alighiero e Boetti curata da Marianne va Leeuw e allestita nel febbraio 1994 presso il Palais des Beaux-Arts di Bruxelles.

7 C. Levi, I ritratti, in Id., Lo specchio. Scritti di critica d’arte, a cura di P. Vivarelli, Donzelli, Roma, 2001, pp. 9-10.

8 D. Stazzone, Il romanzo unitario dell’infinita molteplicità. Carlo Levi e il ritratto, Papiro, Enna, 2012, p. 22.

9 T. Pincio, Quando rubavo la vita a Caravaggio, in Id., Scrissi d’arte, p. 269.

10 Ivi, p. 273.

11 Alcuni esempi di romanzi dedicati a Caravaggio: L. Desiato, La notte dell’angelo. Vita scellerata di Caravaggio, Milano, Mondadori, 1994; A. Camilleri, Il colore del sole, Milano, Mondadori, 2007; G. Piersanti, Giallo Caravaggio, Milano, La nave di Teseo, 2016; L. De Pascalis, Il sigillo di Caravaggio, Roma, Newton Compton, 2019.

12 T. Pincio, Quando rubavo la vita a Caravaggio, p. 273.

13 T. Pincio, Il dono di saper vivere, Torino, Einaudi, 2018, p. 40.

14 Cfr. Mostra di Caravaggio e dei caravaggeschi, catalogo della mostra di Milano, Palazzo Reale, aprile-giugno 1951, introduzione di R. Longhi, Firenze, Sansoni, 1951; R. Longhi, Caravaggio, Roma, Editori riuniti, 1968.

15 Cfr. B. Berenson, Del Caravaggio, delle sue incongruenze e della sua fama, trad. di L. Vertova, Firenze, Electa, 1950; poi col titolo Caravaggio, Milano, Leonardo, 1994; Milano, Abscondita, 2006.

16 T. Pincio, Il dono di saper vivere, p. 63.

17 Ivi, p. 76.

18 Ivi, p. 78.

19 Tutta la pittura del Caravaggio, Milano, Rizzoli, 1951.

20 T. Pincio, Il dono di saper vivere, pp. 122-23.

21 Ivi, pp. 125-26.

22 Si tratta di The Andy Warhol Diaries, pubblicati postumi nel 1989.

23 T. Pincio, Il dono di saper vivere, p. 124.

24 Ivi, p. 149.

25 Ivi, p. 172.

26 Ivi, p. 184.

27 Cfr. D. Hockney, Il segreto svelato: tecniche e capolavori dei maestri antichi, Milano, Electa, 2002.

28 Cfr. R. Lapucci, Caravaggio e l’ottica, Firenze, Restart, 2005.

29 T. Pincio, Il dono di saper vivere, p. 193.