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In un anno segnato da varie iniziative culturali destinate al ricordo di Marilyn in occasione del sessantennale della sua morte, ri-leggere il testo di Anne Carson Norma Jeane Baker of Troy (pubblicato in traduzione italiana da Crocetti nel 2021) costituisce un’occasione per tornare a riflettere sulle molteplici rifrazioni transmediali del mito della stella più luminosa di Hollywood. Il presente contributo, soffermandosi sulle potenzialità semantiche che si sprigionano dall’accostamento di Norma Jeane alla protagonista della tragedia di Euripide, su cui si fonda la pièce di Carson, mette in evidenza la persistenza del motivo del doppio e delle sue implicazioni fantasmatiche presenti nella ricezione dell’icona della star, nella letteratura come nella fotografia.  

In a year marked by various cultural events dedicated to the memory of Marilyn on the occasion of the sixtieth anniversary of her death, re-reading the text by Anne Carson, Norma Jeane Baker of Troy (published in Italian translation by Crocetti in 2021), is an opportunity to return to reflect on the multiple transmedia refractions of the myth of the brightest star in Hollywood. This contribution, dwelling on the semantic potential that is released by Norma Jeane’s approach to the protagonist of Euripide’s tragedy, on which Carson’s play is based, highlights the persistence of the motif of the double and its phantasmic implications present in the reception of the star, in literature as in photography.

 

Il titolo della edizione italiana della pièce di Anne Carson, Era una nuvola (Norma Jeane Baker of Troy. A version of Euripide’s Helen, New York, New Directions, 2019), scelto dalla stessa autrice come ricorda il curatore Patrizio Ceccagnoli nel saggio introduttivo,[1] costituisce già una evocativa chiave di lettura dell’operazione di riscrittura dell’Elena di Euripide e di sovrapposizione del mito antico con quello più moderno di Marilyn. Il testo di Carson, scritto su commissione per inaugurare lo spazio newyorkese dello Shed, affidato poi alla regia di Katie Mitchell e interpretato dall’attore Ben Whishaw e dalla cantante lirica Renée Fleming, si pone infatti sulla scia di una costante pratica di disambientazione contemporanea della classicità che la poeta, drammaturga, saggista, traduttrice e docente di greco antico di origine canadese porta avanti da tempo.

 

La ‘versione dell’Elena’ che Carson propone è concepita come un monologo (un «melologo» nell’accezione dell’autrice, nel senso di una combinazione di melòs e lògos, di canto e discorso) in cui la protagonista, Norma Jeane Baker, rivive le vicende dell’eroina euripidea in un pastiche fondato sulla moltiplicazione dei sensi attribuiti allo sdoppiamento e alla natura fantasmatica dell’immagine di Elena. Come è noto, la ‘versione’ di Euripide demistifica l’epos della narrazione della guerra di Troia, svelando al naufrago Menelao e a tutto il pubblico di ieri e di oggi che la donna che ha rincorso per mare e per terra, conducendo tanti validi eroi a impegnarsi in un conflitto lungo ed estenuante, non è niente più che un simulacro creato dalla dea Era «con un pezzo di cielo»,[2] un’immagine eterea raddoppiata della donna amata, mentre la vera Elena è stata condotta da Ermes in Egitto e tenuta prigioniera nella regia di Proteo. Carson riprende e amplifica il topos del miraggio e della copia, così come il gioco degli equivoci e dei mascheramenti su cui si fonda la drammaturgia della tragedia, e lo eleva a sistema, ne fa cioè il dispositivo cardine della sua riscrittura che agisce nella costruzione dei caratteri, del plot, del luogo in cui si svolge la vicenda, come della stessa struttura.

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  • «Noi leggiavamo…». Fortuna iconografica e rimediazioni visuali dell’episodio di Paolo e Francesca fra XIX e XXI secolo →

La mia versione del Canto V dell’inferno dantesco viene pubblicata nel 1991 dalla Cooperativa del Raccolto, in una tiratura di duecentotrenta copie numerate e «con una litoserigrafia di Gianfranco Baruchello richiesta dal poeta». Le occasioni storico-contestuali della riscrittura portiana, ultimata il «14.8.1984», sono state pazientemente ricostruite da Alessandro Terreni grazie alla corrispondenza intrattenuta da Porta con il poeta olandese Martin Mooij (Terreni 2014, p. 551). Dall’epistolario portiano apprendiamo che, durante la quindicesima edizione del «Poetry International Festival» di Rotterdam (nel giugno del 1984), gli organizzatori avevano riservato una serata alla letteratura italiana, coinvolgendo personalità del calibro di Edoardo Sanguineti, Amelia Rosselli, Franco Fortini e Giuseppe Conte – come si può verificare consultando l’Archivio storico del Festival. Nel corso di questa soirée nazionale, gli autori non erano tenuti soltanto a declamare i propri versi, ma anche a partecipare attivamente a un laboratorio di traduzione poetica, incentrato monograficamente sul quinto canto della Commedia. In particolare, Porta era intervenuto nel dibattito conclusivo facendosi alfiere della necessità pedagogica di tradurre Dante anche per il lettore italiano contemporaneo.

In una nota programmatica intitolata Perché tradurre Dante (1985), Porta illustrerà le direttrici linguistiche e ideologiche che hanno determinato lo stile dell’esercitazione traduttoria realizzata l’anno precedente, all’insegna di una ritrovata comunicabilità del messaggio dantesco, alleggerito dall’«oppressione del secolare deposito delle interpretazioni solidificato nelle sempre più monumentali ‘note al testo’» (ivi, p. 552). L’esigenza di ‘snellire’ il vocabolario della Commedia può essere ascritta a una precisa querelle storica, che eccede il perimetro del festival olandese. Nel 1985 esce significativamente la nuova edizione dell’Inferno curata da Natalino Sapegno, nelle cui Avvertenze viene esplicitato l’intento di fornire «immediatamente il senso» dei versi danteschi anche al «lettore principiante». L’apparato (agile e informativo) deve mettere il lettore nella condizione di «valutare il peso di una secolare ed ininterrotta tradizione esegetica» (Sapegno 1985, p. v), indispensabile per garantire l’assimilazione della parola dantesca da parte della «sensibilità estetica di oggi» (ivi, p. xv).

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  • Arabeschi n. 15→
  • Barbablù. Il mito al crocevia delle arti e delle letterature →

 

Il rapporto che la cultura letteraria e artistica occidentale intrattiene con Barbablù sta sotto il segno dell’ambivalenza: da una parte ne è attratta, dall’altra corre spesso ai ripari di questa attrazione, quasi a ricalcare nel complesso la dinamica narrativa su cui si innesta la vicenda dell’uxoricida fiabesco e della sua ultima moglie. Dimensione intrinseca alla storia, l’ambivalenza ne accompagna, d’altronde, la fortuna fin dal momento in cui Charles Perrault la codifica narrativamente e, con la pubblicazione delle Histoires du temps passé, avec des moralitez (1697), dà avvio al processo della sua sedimentazione nella memoria culturale europea.

Anche grazie al lavoro di artisti che illustrano numerose riedizioni del testo in Francia e in altri paesi, i personaggi e i momenti salienti del racconto si imprimono progressivamente nell’immaginario collettivo occidentale, che non smette di rielaborarli, conferendo loro, col passare del tempo, un’aura vieppiù esotica o estetizzante, significativamente assente nel testo e nelle sue primissime illustrazioni.

Vero è, comunque, che tra avvicinamento e distanziamento si muove già Perrault, in un gioco sottilmente ironico che non permette a nessuno dei due poli di prevalere. Conviene seguire a somme linee la sua operazione.

Innanzitutto, in sintesi, il racconto: un uomo estremamente ricco chiede a una gentildonna sua vicina di dargli in moglie una delle sue due figlie, ma entrambe le ragazze sono riluttanti a causa della barba blu del pretendente (motivo per cui tutte le donne lo trovano spaventoso e rifuggono alla sua vista) e per il fatto che nessuno sa che fine abbiano fatto le sue mogli precedenti; invitate dall’uomo a passare alcuni giorni nella sua casa di campagna, passano insieme a lui, alla madre, a quattro amiche e ad alcuni giovani, otto giorni di piaceri, tanto che, alla fine, la figlia minore si convince che la sua barba non sia così blu e che egli sia un gentiluomo; accetta quindi di sposarlo e va a vivere nella sua dimora cittadina; dopo un mese, il marito le comunica di doversi assentare per un certo periodo e le consegna la chiave di tutti i suoi appartamenti, come anche delle stanze, dei forzieri e delle casse contenenti oro, argento e pietre preziose, affinché ne possa godere invitando anche amiche; con fare estremamente minaccioso, le vieta però di entrare in un unico stanzino collocato al pianterreno, di cui le consegna comunque la chiave; la donna non fa passare tempo in mezzo e alla partenza dell’uomo, mentre le amiche godono alla vista di tutte le ricchezze nelle altre stanze ai piani superiori, lei si precipita giù per le scale e, tremante all’idea delle possibili conseguenze della sua disobbedienza, apre la porta dello stanzino; appesi alle pereti e riflessi nel sangue scopre i corpi sgozzati delle precedenti mogli; in preda al terrore, fa cadere la chiave nel sangue e i tentativi successivi di ripulirla sono inutili: il sangue ricompare costantemente; al suo rientro, il marito le chiede di riconsegnargli tutte le chiavi e, vedendo la macchia su quella dello stanzino, comprende che la moglie ha infranto il divieto decretando così la propria morte; si accinge quindi ad ammazzarla, ma le concede sette minuti di tempo per la preghiera con cui la donna chiede di poter prendere commiato dalla vita; in realtà, sfrutta quei minuti per implorare la sorella Anne di salire sulla torre per vedere se i fratelli (mai citati prima) stiano arrivando per fare loro la visita promessa e per pregarli di affrettarsi; i fratelli (un dragone e un moschettiere), in effetti, arrivano, e, trafiggendolo con la spada, uccidono Barbablù che, con il coltello in mano, sta ormai per tagliare la gola alla moglie; ereditate tutte le ricchezze del marito, la donna le usa per maritare la sorella e per acquistare ai fratelli il grado di capitano; infine, si risposa con un gentiluomo che le farà dimenticare i brutti momenti passati con il primo marito.

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  • Barbablù. Il mito al crocevia delle arti e delle letterature →

 

 

Ho sempre pensato che la storia di Barbablù appartenesse alle favole dell’infanzia di ognuno di noi così come Cappuccetto Rosso, Il gatto con gli stivali o Cenerentola – solo per citare alcuni titoli della stessa raccolta. Ma sbagliavo. Da una piccola indagine condotta tra i miei studenti (in una fascia di età compresa tra i 19 e i 25 anni) ho scoperto che questa storia non si racconta più. Molti non ne hanno mai sentito parlare, pochi l’hanno letta, solo qualcuno ne ha un’idea, vaga. Certo, occorrerebbe effettuare l’indagine su un campione più rappresentativo, tuttavia credo sia plausibile affermare che si tratta di una storia che non si racconta più, che non si legge più. Resta da capire il motivo: forse perché Disney non l’ha mai riproposta? Ciò nonostante, la storia di Barbablù è ben lontana dall’oblio.

All’inizio di questo lavoro mi sono messa sulle tracce di Barbablù, cercando di ricostruire i suoi passi, trovare i segni tangibili, gli indizi disseminati da questa vicenda. Un’indagine di tipo scientifico da condurre, ovviamente, sui cataloghi bibliografici. Infatti, rinviare in maniera esplicita al titolo di un testo non è solo un modo scientificamente condivisibile per citare una fonte, ma è anche un modo per capire se e come – con l’andar del tempo – un dato discorso continua, cambia, si trasforma, forse si aggiusta.

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È una frequentazione ormai pressoché costante, negli ultimi anni, quella della coppia di artisti e fotografi Adam Broomberg e Oliver Chanarin con l’opera fototestuale di Bertolt Brecht. Al 2011 risale la pubblicazione del fototesto War Primer 2, un autentico Abicí della guerra al quadrato che i due autori hanno composto sovrapponendo alle originarie immagini brechtiane una selezione di fotografie che raccontano momenti della "guerra al terrore" inaugurata dall’amministrazione Bush. Il risultato è un’opera sincretica dove le foto scelte da Broomberg e Chanarin, incastrate fra le parole e dentro le foto di Brecht, producono un insieme a tre voci non svincolabili l’una dalle altre, se non a rischio di una inevitabile perdita di senso. Si tratta di un’opera che mette evidentemente in crisi il concetto di autorialità, e in cui la relazione fra le parole e le immagini non è mai diretta o puramente illustrativa, ma sempre obliqua, “tensionale”. Il contributo approfondisce prevalentemente la forma, ancora non indagata, di questo fototesto e, con essa, la sua relazione strutturale e poetica con quello di Brecht. Ci si interroga inoltre sugli eventuali effetti di verità che le fotografie scelte dai due artisti innescano sulla memoria individuale e collettiva dei lettori/osservatori.

In recent years, artist/photographers Adam Broomberg and Oliver Chanarin have collaborated on an ongoing interaction with Berthold Brecht’s photo-textual work War Primer, which was released after long gestation in 1955. In 2011 Broomberg and Chanarin published War Primer 2, a veritable squaring of Brecht’s montage of photography and poetic epigrams, in which they replaced Brecht’s images of World War II with photographs of the Bush administration’s “war on terror”. The result is a syncretic work in which the photos selected by Broomberg and Chanarin, placed between and within Brecht’s, produce a chorus of voices distinguishable one from another only at the risk of sacrificing a sense of the whole. War Primer 2 thus pushes the concept of authorship to the breaking point: the relation between word and image is never direct or purely illustrative, but always oblique and “in tension”. This contribution concentrates on the still largely unexamined question of form in the Broomberg-Chanarin photo-text in its structural and poetic relation to Brecht’s, with particular attention to the truth effect that the photographs used by the two artists trigger in the individual and collective memory of reader/observers.

 

 

 

Photographs are the most capricious objects – way less faithful than words. They can’t be trusted.

Adam Broomberg, Oliver Chanarin

 

The real question to ask when confronted with these kinds of image-text relations is not «what is the difference (or similarity) between the words ant the images?» but «what difference do the differences (and similarity) make?» That is, why does it matter how words and images are juxtaposed, blended, or separated?

William J.T. Mitchell

 

 

Racconta Milan Kundera, all’inizio del suo Libro del riso e dell’oblio, che su un balcone di un palazzo nella piazza della Città Vecchia di Praga ha inizio la storia della Cecoslovacchia comunista. Da lì nel febbraio del 1948 Klement Gottwald, affiancato fra gli altri dal compagno Vladimir Clementis, tiene il suo discorso ufficiale di presa del potere in una piazza gremita di gente. Fa freddo quel giorno, e il premuroso amico cede a Gottwald il suo berretto di pelliccia. Ed è così, con accanto Clementis e il suo colbacco in testa, che Gottwald è immortalato nelle fotografie ufficiali di quello storico discorso. Qualche anno dopo Clementis, accusato di tradimento, è giustiziato. Cancellato dalla storia, è cancellato definitivamente anche da quella storica fotografia, dove Gottwald da lì in avanti comparirà sì da solo, ma con il colbacco di Clementis ancora sul capo, a svelare platealmente l’inganno.

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Tanti e tali sono i temi toccati dal Ritratto della giovane in fiamme di Céline Sciamma (Portrait de la jeune fille en feu, Francia 2019) che quasi non si sa di dove iniziare per parlarne: dalla storia d’amore tra Marianne e Héloïse, dalle questioni di genere, dal rapporto tra vita e arte, dall’intessitura visuale, dalla misura estetica, non meno rigorosa che erotica? Conviene, per provare a mettere un po’ di ordine, affrontare l’affascinante intrico delle suggestioni culturali del film in termini di transdiscorsività, ossia di connessioni fra discorsi, immagini e rappresentazioni.

Si può senz’altro affermare che l’ultimo lavoro di Sciamma si configura a tutti gli effetti come un perfetto case study transdiscorsivo: in primo luogo, per la sapienza cinematografica e il citazionismo figurativo, specialmente ricco di tributi verso la pittura fiamminga e l’arte romantica (ad esempio, solo per menzionare i nomi più noti, Rembrandt per gli interni notturni sfumati da eterei chiarori e Frederich per gli esterni marini tempestosi). È l’intera vicenda, tuttavia, a rimotivare il tradizionale tema del rapporto tra arte e vita, sebbene in una prospettiva tutto sommato costruttiva e vitale: al posto di un Frenhofer che nel balzachiano Capolavoro sconosciuto impazzisce di insoddisfazione cercando di cogliere nella tela l’inafferrabile complessità del reale, siamo al cospetto di una pittrice che a un certo punto semplicemente, senza una parola in più, riconosce che il quadro è finito e non ha alcuna esitazione, in seguito, a ritrarsi per lasciare all’amata un’immagine di sé in ricordo – ed è già questa distanza un primo segnale del senso complessivo del lavoro di Sciamma. In ogni caso, senza anticipare le conclusioni, il film ripropone in tal modo un motivo letterario e artistico di lunghissima durata, quello del ritratto dell’amato o dell’amata conservato in sua assenza, e lascia intuire come le citazioni siano comprese in una più ampia dinamica di riscrittura che, oltre ai modelli allusi dal discorso filmico, coinvolge parimenti quelli menzionati dalle protagoniste. Ne è dimostrazione la scena in cui Marianne, Héloïse e la domestica Sophie discutono sul gesto sconsiderato di Orfeo che, voltandosi, perde Euridice un attimo prima del ritorno alla luce: si tratta non solo di un’efficace mise en abyme del film, ma anche del punto di avvio di una cifrata riproposizione narrativa del mito. La possibilità, ipotizzata da Marianne, che Orfeo compia la scelta poetica di sostituire il ricordo alla realtà, prelude al distacco da Héloïse che lei stessa sancirà concludendo il quadro, così come il congedo tra le due mette in scena l’interpretazione di Héloïse quando questa invita Marianne a voltarsi per vederla un’ultima volta, vestita da sposa e perduta, come già l’aveva, del resto, immaginata.

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Nel Convegno Internazionale Sconfinamenti di genere. Donne coraggiose che vivono nei testi e nelle immagini (Crossing Gender Boundaries. Brave Women Living in Texts and Images), svoltosi, a cura di Cristina Pepe e Elena Porciani, dal 26 al 28 novembre 2019 a Santa Maria Capua Vetere presso il Dipartimento di Lettere e Beni Culturali dell’Università della Campania ‘Luigi Vanvitelli’, molteplici sono state le voci impegnate ad attraversare millenni di cultura occidentale per approdare dall’epoca classica sul suolo della contemporaneità: alla scoperta o riscoperta di quei personaggi femminili che sono fuoriusciti dal binarismo di genere e dalle sue regole sessuali e comportamentali, riconducibili ai pregiudizi dell’infirmitas sexus e della levitas animi. Non per questo non è stato possibile mettere a fuoco, negli oltre trenta contributi, di cui tre affidati alle keynote speaker Jacqueline Fabre-Serris, Ita MacCarthy e Gloria Camarero Gomez, alcune costanti che hanno rappresentato il tessuto connettivo fra i diversi approcci disciplinari e le differenti metodologie messi in campo nelle tre giornate di studio.

 

 

La questione della corporalità, ad esempio, è emersa sin dall’intervento inaugurale di Heather Reid, che, incentrato sul corpo gareggiante della Parthenos, ha subito fatto entrare in scena divinità e guerriere del mito, in primis le Amazzoni, ma anche la Camilla virgiliana destinata a perdere la vita per mano di Arunte, trattata da Antonella Bruzzone. In particolare, Fabre-Serris ha trattato il mito delle Amazzoni e due riscritture diversamente esemplari: quella romantica di Henrich Von Kleist (1808) e quella femminista radicale di Monique Wittig (1969). Lo spettro degli sconfinamenti classici non si è però esaurito qui, dato che dopo un excursus sugli aspetti giuridici della condizione della donna a Roma (Judith Hallett), si è parlato di donne dai profondi convincimenti etici: se Laura Kopp ha elevato il personaggio euripideo di Creusa a cittadino ideale ateniese, in altri casi si sono mostrate donne disponibili a sacrificare la vita per un proprio ideale. Si tratta sia di personaggi derivati dal mito, come l’euripidea Alcesti, disposta a morire per salvare il proprio sposo, di cui Diana Perego ha ricostruito la ricezione figurativa in età moderna, sia di personaggi storici, come Epicari, che, come hanno mostrato Caitlin Gillespie e Lucia Monaco, è l’unica tra i partecipanti alla congiura dei Pisoni di cui Tacito presenta il coraggio di suicidarsi per evitare di tradire i compagni. In questo filone rientra anche l’anonima giovane, oggetto dell’intervento di Ivana Djordjević, che in un episodio apparentemente marginale del Roman de Waldef (secolo XIII) ci illustra un esempio di tragic love e female agency nel romanzo cortese. La cultura medievale, del resto, non ha un peso minore nel trattamento tematico del corpo femminile: nei termini della negazione mistica, come mostra il caso di Roswita di Gandersheim (secolo X) illustrato da Marco Sciotto a proposito della rivisitazione teatrale di Ermanna Montanari proposta in Roswita nel 1991 e nel 2008, o nei motivi del travestimento e del mutamento di sesso, di cui Anna Lisa Somma ha mostrato la rilevanza nella produzione canterina italiana. La dismisura fisica delle regine combattenti, come Rovenza e Ancroia, dell’epica cavalleresca del Quattrocento è stata invece al centro della relazione di Annalisa Perrotta, che ha messo in evidenza lo stupore turbato dello sguardo maschile di fronte alle guerriere, nonché la riconduzione all’ordine tramite la loro uccisione da parte dell’eroe cristiano di turno.

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  • Un istinto da rabdomante. Elio Vittorini e le arti visive →

 

«Sai», egli le disse, «che cosa sembra?»

«Che cosa?» disse Berta.

«Che io abbia un incantesimo in te».

«E io in te. Non l’ho anch’io in te?»

«Questa è la nostra cosa».

Elio Vittorini, Uomini e no

 

Autore centrale per la cultura italiana del secondo dopoguerra, ma poco frequentato rispetto alla sua notorietà intellettuale, Elio Vittorini è oggi al centro di un ritorno di attenzione anche da parte del mondo teatrale. Le ragioni del recente interesse drammaturgico nei confronti dell’opera dello scrittore siciliano vanno ricondotte sostanzialmente a due fattori: da un lato la spiccata inclinazione della letteratura teatrale contemporanea alla riscrittura di romanzi, tendenza a cui si aggiunge la prassi novecentesca volta alla costruzione di spettacoli tratti da testi non drammatici; dall’altro la naturale disposizione al teatro della narrativa vittoriniana, frutto di un uso particolare dei dialoghi, fitti e dallo stile recitativo, e di un registro linguistico visuale, plastico e teso all’evocazione.

Riguardo a questo secondo fattore, principale leva dell’interesse dei teatranti verso la pagina di Vittorini, va detto che un’impronta di ‘teatro nascosto nel romanzo’ è stata rilevata da tempo nella sua opera, specialmente nei testi considerati sperimentali come Conversazione in Sicilia (1941) e Uomini e no (1945). Quest’ultimo romanzo, in particolare, condensa magistralmente la doppia tensione della penna di Vittorini: l’apertura mitico-universale e la concentrazione storico-realistica; le quali, unite a un linguaggio intriso di pulsione visuale, ne fanno un ‘oggetto’ narratologico che ben si presta a una migrazione verso il palcoscenico.

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