Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →

La ‘rigenerazione’ e la ‘rinascita’, il ‘ricominciare’, il ‘ricostruirsi’ da capo sono parole chiave che spesso vengono associate al racconto della persona pubblica dell’attrice e presentatrice televisiva Ambra Angiolini. Associazioni che vengono proposte da altri, o direttamente da lei stessa, come è possibile riscontrare in molte interviste rilasciate in tempi recenti.

Così, nella video intervista per il magazine online «Déluge» nell’ottobre 2021, Angiolini commenta ironicamente la frase che accompagnava un suo post di auguri pasquali del 4 aprile 2021 – «Ho ricominciato così tante volte nella vita che Pasqua è diventata il mio secondo compleanno» – dicendo che si è trattato di uno dei «rari deliri di onnipotenza» della sua vita [fig.1]. In una recentissima intervista rilasciata a «Vanity Fair» nell’estate 2022, definisce questo suo sapersi «rifare da capo» (spesso dopo che la sua vita privata è stata resa pubblica senza il suo consenso) con queste parole: «l’ennesimo superpotere che è stato attribuito a questa mia esistenza targata Marvel». In entrambi i casi, Angiolini usa il tono giocoso e scanzonato, autocritico e autoironico allo stesso tempo, che oramai la contraddistingue. E, tuttavia, negli stessi momenti in cui abbraccia la fama di eterna e tenace ‘Araba Fenice’, tenta allo stesso tempo di smarcarsene, rivendicando non solo totale libertà e leggerezza nelle proprie relazioni private, ma anche un’agency nuova sulle sue scelte professionali, da sempre improntate all’ecclettismo tra televisione, radio, teatro e cinema.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
Abstract: ITA | ENG

«Le sue feste sono affollatissime. Lei […] dirige le conversazioni con la sicurezza e la grazia di una madame du Deffand»: così ricorda Elio Pecora nel Libro degli amici (2017) gli incontri organizzati da Elsa de’ Giorgi presso la propria abitazione in via di Villa Ada a Roma nei primi anni Settanta. Ad incrociare le loro esistenze con quella dell’attrice-scrittrice nelle sue abitazioni, a partire dagli anni Trenta, sono stati numerosi esponenti della scena culturale, intellettuale e artistica italiana del Novecento, tra i quali Anna Magnani, Alberto Moravia, Aldo Palazzeschi, Pier Paolo Pasolini. A partire da questo dato biografico, il contributo propone un’analisi dei riflessi e della rielaborazione dell’immagine di de’ Giorgi come figura di salonnière rintracciabile nei testi autobiografici dell’autrice – ad esempio nei Coetanei (1955) – e nell’interpretazione del personaggio della signora Maggi nel film Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pasolini.

«Le sue feste sono affollatissime. Lei […] dirige le conversazioni con la sicurezza e la grazia di una madame du Deffand»: this is how Elio Pecora remembers (Libro degli amici, 2017) the meetings organized in the early seventies by Elsa de’ Giorgi at her home in via di Villa Ada in Rome. Starting from the thirties, there were numerous exponents of the Italian cultural, intellectual and artistic scene of the twentieth century crossing their lives with the actress-writer in her homes, including Anna Magnani, Alberto Moravia, Aldo Palazzeschi, Pier Paolo Pasolini. Starting from this biographical data, the article proposes an analysis of the image of de’ Giorgi as a salonnière that can be traced in the autobiographical texts of the author – for example in I coetanei (1955) – and in the interpretation of the character of signora Maggi in Pasolini’s film Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975).

In un’indagine dedicata al rapporto tra Elsa de’ Giorgi e gli spazi domestici, ciò che immediatamente emerge in primo piano, ripercorrendo la biografia dell’autrice e la sua inesausta attività artistica e letteraria, è l’importanza del salotto come crocevia di incontri e luogo di una pratica mondana che ha caratterizzato l’esistenza della diva per un lungo arco di tempo. A partire dagli anni Quaranta e fino ai mesi che hanno preceduto la sua morte, avvenuta nel 1997, de’ Giorgi ha ospitato con cadenze regolari numerosi esponenti della scena culturale, intellettuale, artistica italiana del Novecento, tra i quali si annovera, solo per citare alcuni esempi, la presenza di Renato Guttuso, Carlo Levi, Anna Magnani, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini. Teatro degli scambi tra gli habitué del salotto culturale animato dalla carismatica personalità dell’attrice – dopo il trasferimento a Firenze in seguito al matrimonio, nel 1948, con Sandro Contini Bonacossi – è stata la casa romana di via di Villa Ada 4; indirizzo riportato anche nei bigliettini che de’ Giorgi donava agli amici. Fornito delle componenti materiali che hanno tradizionalmente adornato lo spazio fisico dei salons culturali, come la ricca biblioteca e il pianoforte (cfr. Palazzolo 1985, pp. 56-57), il salotto di quell’appartamento si conserva nel ricordo di un numero considerevole di amici; tra questi, Elio Pecora restituisce nel Libro degli amici l’immagine «di una grande sala, ricavata con l’abbattimento dei muri divisori di quattro stanze» (Pecora 2017, p. 100): di una camera, dunque, che sembra addirittura occupare l’intera abitazione e a cui si aggiungono, sempre come scenari di ritrovi periodici, la casa di via Ruggero Fauro, ai Parioli, abitata dalla diva prima dello spostamento a Firenze, e la villa di San Felice Circeo, sede di indimenticati soggiorni estivi.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →

Nel numero 12 di Film d'oggi, pubblicato nel marzo 1946, una serie di scatti ritrae Isa Miranda davanti alle macerie della casa milanese di Porta Genova dove era cresciuta. Allo sguardo smarrito dell'attrice, che osserva quello che resta della dimora traballando sui tacchi in bilico sulle pietre, si accompagna un breve componimento in poesia, dedicato proprio a quelle mura arcigne che pure avevano accolto i suoi primi anni di vita. In effetti il legame con Milano rappresenta un tratto forte della personalità divistica dell’attrice, e lo spazio domestico ne accoglie spesso le raffigurazioni. Nelle scritture della diva (romanzi e raccolte di liriche) come nelle personagge che incarna sullo schermo, da La signora di tutti (M. Ophuls, 1934) all’episodio di Siamo donne (L. Zampa, 1953), la casa si delinea come luogo ambivalente, segnato dalle tracce orgogliose di un percorso tenace verso il successo e insieme da una ricorrente inclinazione melanconica dagli accenti lancinanti che appanna la figura di femme fatale sovente attribuita a Miranda.

 

 

1. Isa Miranda, milanese

La prima sequenza de La signora di tutti basta ad affermare per Isa Miranda la postura di femme fatale e al contempo ne segnala l’inevitabile piegatura tragica. Lo spazio che la inquadra è quello della camera di un hotel elegante: le corbeille di fiori, i ricchi arredi, i lampadari lucenti introducono chi guarda al personaggio di Gaby Doriot segnalandone da subito lo statuto di diva. Ma il corpo di lei, avvolto in una liseuse di seta, giace a terra, inerte: la donna ha tentato il suicidio. Le stanze sfarzose, i saloni signorili, i camerini accoglienti, le ville di lusso circondano poi la figura di Gaby lungo tutto il racconto accompagnandone le svolte drammatiche che conducono al suo destino fatale: seduttrice senza intenzione, la donna porta alla rovina gli uomini che hanno la ventura di innamorarsi di lei, per poi darsi la morte [fig. 1]. Dunque il film di Max Ophuls assegna Miranda al ruolo di donna del destino, sul quale l’attrice costruirà la sua fama e il viaggio a Hollywood, dove lo star system la accosterà a Greta Garbo e Marlene Dietrich (Muscio, 2009).

Ma l’immagine divistica di Miranda non è monolitica. I ruoli nei film italiani del decennio Trenta sembrano voler sfuggire al cliché della tragica seduttrice: meno fatali e più misurate sono, ad esempio, l’emigrante Maria Brunetti di Passaporto rosso (G. Brignone, 1935) o la sobria Velia di Scipione l’Africano (C. Gallone, 1937). Così, nei due testi autobiografici (Miranda, 1945 e 1946) come nella autofiction dal titolo La piccinina di Milano (1965), l’attrice tiene a distanza l’immagine della femme fatale per tracciare piuttosto il racconto degli anni difficili della gavetta, in quel tentativo tenace «di controllare il proprio personaggio pubblico», come scrive Elena Mosconi (2021), che percorre tutte le sue divagrafie. Il motivo ritornante è quello di Cenerentola: l’attrice disegna un ritratto di sé molto più terragno e ambienta in spazi modesti e miserabili un passato di ragazzina povera ma volitiva, impegnata in mille lavori, dalla aiutante di sartoria, la “piccinina”, a scatolaia, commessa, indossatrice, stenodattilografa, per sbarcare il lunario e potere, un domani, lasciare il «decrepito portone» da dove era «uscita un giorno per intraprendere il cammino della sua vita» (Miranda 1946).

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
Abstract: ITA | ENG

Dopo un breve cameo nella Ricotta (1963), a cui prende parte nelle vesti di una diva, Elsa de’ Giorgi connota l’ultima fase del cinema di Pier Paolo Pasolini, in particolare attraverso l’interpretazione di una delle narratrici in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). Oltre a fornire una sintetica ricognizione relativa al rapporto tra l’autore e l’attrice-scrittrice, il contributo focalizza l’attenzione sul personaggio della signora Maggi in Salò cercando di cogliere nella performance attoriale di de’ Giorgi, così come nell’orizzonte divistico convocato nel film, esiti e possibili motivazioni legate alle scelte di casting da parte del poeta-regista.

After a cameo role in La ricotta (1963), in which she takes part as a diva, Elsa de’ Giorgi characterizes the last phase of Pier Paolo Pasolini’s cinema, in particular through the interpretation of one of the narrators in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). Besides proposing a synthetic insights about the relationship between the author and the actress-writer, the contribution focuses on the character of signora Maggi in Salò, trying to analyze through de’ Giorgi’s acting, as well as the stardom recalled in the film, outcomes and possible motivations related to the poet-director’s casting choices. 

«Restò sempre legato a Elsa De Giorgi […]. A lei, con una divertita soggezione, dedicava – e la cosa durò anni – alcune serate. Andavano a cena fuori: […] Elsa De Giorgi, che amava stendere attorno a sé un qualche alone di spettacolo […], lasciava che alle labbra le venisse, con una foga insolita, certa cultura classica che amava coltivare. Pier Paolo ascoltava» (Siciliano 2005, p. 233): ricordato dalle parole di Enzo Siciliano, il rapporto tra Pier Paolo Pasolini e Elsa de’ Giorgi rientra fra le amicizie instaurate dallo scrittore nella Roma degli anni Cinquanta e Sessanta. Nel 1963 l’autore coinvolge l’attrice-scrittrice nelle riprese della Ricotta assegnandole – e la scelta non appare casuale – il ruolo di una delle dive che, insieme ai paparazzi, irrompono sul set alla fine dell’episodio, ma le relazioni tra il poeta-regista e de’ Giorgi si riflettono, in parte, anche nelle rispettive attività letterarie. Seguendo infatti i rimbalzi suggeriti dalle loro produzioni narrative, poetiche e saggistiche, si scopre che la diva si è rivolta a Pasolini sul finire degli anni Cinquanta per chiedergli di intercedere con Garzanti per la pubblicazione della sua seconda prova narrativa, L’innocenza, poi uscita nel 1960 per una casa editrice veneziana, Sodalizio del Libro; due anni dopo l’autore scrive una prefazione in forma di lettera al testo poetico dell’attrice La mia eternità e, mettendone in evidenza la pregnante metaforicità, rivolge all’opera di de’ Giorgi un’attenzione critica (cfr. Pasolini 2008a). L’artista, dal canto suo, dedica a Pasolini, dopo la sua morte, il poemetto del 1977 Dicevo di te, Pier Paolo.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

Abstract: ITA | ENG

In un anno segnato da varie iniziative culturali destinate al ricordo di Marilyn in occasione del sessantennale della sua morte, ri-leggere il testo di Anne Carson Norma Jeane Baker of Troy (pubblicato in traduzione italiana da Crocetti nel 2021) costituisce un’occasione per tornare a riflettere sulle molteplici rifrazioni transmediali del mito della stella più luminosa di Hollywood. Il presente contributo, soffermandosi sulle potenzialità semantiche che si sprigionano dall’accostamento di Norma Jeane alla protagonista della tragedia di Euripide, su cui si fonda la pièce di Carson, mette in evidenza la persistenza del motivo del doppio e delle sue implicazioni fantasmatiche presenti nella ricezione dell’icona della star, nella letteratura come nella fotografia.  

In a year marked by various cultural events dedicated to the memory of Marilyn on the occasion of the sixtieth anniversary of her death, re-reading the text by Anne Carson, Norma Jeane Baker of Troy (published in Italian translation by Crocetti in 2021), is an opportunity to return to reflect on the multiple transmedia refractions of the myth of the brightest star in Hollywood. This contribution, dwelling on the semantic potential that is released by Norma Jeane’s approach to the protagonist of Euripide’s tragedy, on which Carson’s play is based, highlights the persistence of the motif of the double and its phantasmic implications present in the reception of the star, in literature as in photography.

 

Il titolo della edizione italiana della pièce di Anne Carson, Era una nuvola (Norma Jeane Baker of Troy. A version of Euripide’s Helen, New York, New Directions, 2019), scelto dalla stessa autrice come ricorda il curatore Patrizio Ceccagnoli nel saggio introduttivo,[1] costituisce già una evocativa chiave di lettura dell’operazione di riscrittura dell’Elena di Euripide e di sovrapposizione del mito antico con quello più moderno di Marilyn. Il testo di Carson, scritto su commissione per inaugurare lo spazio newyorkese dello Shed, affidato poi alla regia di Katie Mitchell e interpretato dall’attore Ben Whishaw e dalla cantante lirica Renée Fleming, si pone infatti sulla scia di una costante pratica di disambientazione contemporanea della classicità che la poeta, drammaturga, saggista, traduttrice e docente di greco antico di origine canadese porta avanti da tempo.

 

La ‘versione dell’Elena’ che Carson propone è concepita come un monologo (un «melologo» nell’accezione dell’autrice, nel senso di una combinazione di melòs e lògos, di canto e discorso) in cui la protagonista, Norma Jeane Baker, rivive le vicende dell’eroina euripidea in un pastiche fondato sulla moltiplicazione dei sensi attribuiti allo sdoppiamento e alla natura fantasmatica dell’immagine di Elena. Come è noto, la ‘versione’ di Euripide demistifica l’epos della narrazione della guerra di Troia, svelando al naufrago Menelao e a tutto il pubblico di ieri e di oggi che la donna che ha rincorso per mare e per terra, conducendo tanti validi eroi a impegnarsi in un conflitto lungo ed estenuante, non è niente più che un simulacro creato dalla dea Era «con un pezzo di cielo»,[2] un’immagine eterea raddoppiata della donna amata, mentre la vera Elena è stata condotta da Ermes in Egitto e tenuta prigioniera nella regia di Proteo. Carson riprende e amplifica il topos del miraggio e della copia, così come il gioco degli equivoci e dei mascheramenti su cui si fonda la drammaturgia della tragedia, e lo eleva a sistema, ne fa cioè il dispositivo cardine della sua riscrittura che agisce nella costruzione dei caratteri, del plot, del luogo in cui si svolge la vicenda, come della stessa struttura.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Summer, ultimo romanzo della scrittrice scozzese Ali Smith, pubblicato nel 2020 e uscito nell’estate del 2021 anche in traduzione italiana per i tipi di SUR, chiude il quartetto romanzesco Seasonal, in cui l’autrice ha cercato di indagare l’iper – o ultra – contemporaneo, tuttavia avvalendosi, in ogni volume, della mediazione intermediale di un’artista del Novecento. Questa operazione, che potremmo definire quasi ‘curatoriale’ nell’intento di predisporre un canone artistico alternativo per la storia delle arti visive del Novecento, ha consentito di portare di fronte a un pubblico più ampio di lettrici e lettori figure che, al momento, si trovano ancora per lo più confinate nell’avanguardia e nello sperimentale, categorie ermeneutiche di per sé estremamente fruttifere, ma purtroppo ancora relegate in una posizione marginale all’interno del dibattito critico e accademico. Se in Autumn (2016), romanzo inaugurale dell’esperimento narrativo di Smith, era stata Pauline Boty, pittrice della Pop Art inglese e attrice cinematografica, a essere fatta oggetto di riscoperta, i successivi Winter (2017) e Spring (2019) includono riferimenti intermediali a Barbara Hepworth, forse la più importante scultrice inglese nella storia dell’arte, e Tacita Dean, artista poliedrica nota soprattutto per i film sperimentali in 16mm.

Con Summer Ali Smith chiude non solo il quartetto narrativo legato a questioni attuali quali la Brexit, i migranti, il cambiamento climatico, la pandemia, ma anche questa delicata operazione di mediazione culturale al femminile con una figura particolarmente interessante per riflettere su una serie di elementi che riguardano lo studio delle donne nelle arti e nell’audiovisivo. Per Summer, infatti, Smith ha scelto di gettare luce su Lorenza Mazzetti, cineasta e scrittrice italiana emigrata a Londra ancora giovanissima e tra le principali animatrici del Free Cinema inglese, un movimento sorto negli anni Cinquanta a partire dalla collaborazione della filmmaker con Lindsay Anderson, Karel Reisz e Tony Richardson, firmatari con lei di quello che sarebbe diventato il Manifesto del Free Cinema Movement, che recita così:

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

L’uso strategico dei social media come strumento imprescindibile per creare e mantenere una propria celebrity persona è un fenomeno relativamente recente nell’ecosistema delle celebrity italiane. In parte per una minore o più tardiva pervasività dei social e della loro adozione, in parte per una riluttanza di adattamento a un sistema transnazionale e internazionale che soltanto in tempi recenti è diventato alla portata delle più o meno giovani star italiane, in un fiorire di nuove strategie comunicative profondamente genderizzate. In particolare, a mio avviso è interessante concentrarci sulle attrici che hanno avuto una svolta importante per le loro carriere proprio all’interno di produzioni rese popolarissime sia in Italia che all’estero grazie alla loro distribuzione su Netflix, produzioni dedicate specificamente a un target di giovani e giovanissimi, avvezzi all’uso di un mezzo come Instagram.

Ho selezionato quindi tre profili di giovani attrici con simili caratteristiche: Benedetta Porcaroli, classe 1996, la cui carriera avviata da giovanissima prendendo parte alla serie Tutto può succedere (Rai, 2015-2018) è decollata dopo aver interpretato per tre stagioni Chiara, una delle protagoniste della serie teen Baby (Netflix, 2018-2020) [fig. 1]. Ludovica Martino, classe 1997, che negli ultimi tempi ha iniziato a interpretare anche ruoli di giovane adulta come ne Il Campione (Leonardo d’Agostini, 2019) e Lovely Boy (Francesco Lettieri, 2021), ma che deve la sua fama al ruolo di Eva, una delle protagoniste di SKAM Italia (2018-, la serie è notoriamente un format nato in Norvegia, e riadattato in nove versioni in altrettanti Paesi [fig. 2]. E infine Coco Rebecca Edogamhe, classe 2001, la più giovane delle tre, che al momento conta in carriera soltanto il ruolo che l’ha fatta conoscere, quello di Summer, la protagonista di Summertime (Netflix, 2020-) [fig. 3].

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

«Si direbbe che apprendiamo qualche cosa intorno all’arte quando sperimentiamo ciò che la parola “solitudine” vorrebbe designare». Così scrive Maurice Blanchot in Lo spazio letterario, specificando tuttavia che la solitudine «essenziale», nella quale si addentra nel suo saggio, non è quella esistenziale né quella tipica dell’artista che «gli sarebbe necessaria, si dice, ad esercitare la sua arte [...]. Quando Rilke scrive [...]: “la mia solitudine finalmente si chiude e io sto nel lavoro come il nocciolo nel frutto”, la solitudine di cui parla non è essenzialmente solitudine: è raccoglimento» (Rilke 1967, p. 9).

È invece proprio di solitudine intesa come raccoglimento e come sospensione dal mondo che tenterò di occuparmi in questa breve analisi. Esplorando lo spazio letterario «divagrafico» (Rizzarelli 2017; Cardone, Masecchia, Rizzarelli 2019; Rizzarelli 2021), cercherò di tracciare i punti di congiunzione tra la dimensione dell’arte e quella riservata alla capacità di attivare una relazione con la realtà di tipo performativo, in cui la concentrazione e l’attenzione acquistano un ruolo di primo piano.

Scriveva Cristina Campo nel saggio Attenzione e poesia: «l’attenzione è il solo cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero. Infatti è solidamente ancorata nel reale, e soltanto per allusioni celate nel reale si manifesta il mistero» (Campo 2019 [1961, 1987], p. 167).

Nella parola autobiografica delle attrici l’arte si pone spesso come istanza di libertà, di autonomia, di uscita dallo stereotipo divistico, di accesso a quella creatività accordata tradizionalmente al mondo maschile e a cui molte, seppure con esperienze e linguaggio differenti, dimostrano di aver desiderio di partecipare come soggetti attivi (in alcuni casi, divenendo esse stesse autrici di opere, come nel caso di Elsa De’ Giorgi, recentemente analizzato da Corinne Pontillo, 2020). Allo stesso tempo, è nel rapporto con la dimensione dell’arte in cui le attrici esprimono l’abilità di un radicarsi nell’attenzione, la stessa necessaria all’atto performativo.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

1 2