Summer, ultimo romanzo della scrittrice scozzese Ali Smith, pubblicato nel 2020 e uscito nell’estate del 2021 anche in traduzione italiana per i tipi di SUR, chiude il quartetto romanzesco Seasonal, in cui l’autrice ha cercato di indagare l’iper – o ultra – contemporaneo, tuttavia avvalendosi, in ogni volume, della mediazione intermediale di un’artista del Novecento. Questa operazione, che potremmo definire quasi ‘curatoriale’ nell’intento di predisporre un canone artistico alternativo per la storia delle arti visive del Novecento, ha consentito di portare di fronte a un pubblico più ampio di lettrici e lettori figure che, al momento, si trovano ancora per lo più confinate nell’avanguardia e nello sperimentale, categorie ermeneutiche di per sé estremamente fruttifere, ma purtroppo ancora relegate in una posizione marginale all’interno del dibattito critico e accademico. Se in Autumn (2016), romanzo inaugurale dell’esperimento narrativo di Smith, era stata Pauline Boty, pittrice della Pop Art inglese e attrice cinematografica, a essere fatta oggetto di riscoperta, i successivi Winter (2017) e Spring (2019) includono riferimenti intermediali a Barbara Hepworth, forse la più importante scultrice inglese nella storia dell’arte, e Tacita Dean, artista poliedrica nota soprattutto per i film sperimentali in 16mm.

Con Summer Ali Smith chiude non solo il quartetto narrativo legato a questioni attuali quali la Brexit, i migranti, il cambiamento climatico, la pandemia, ma anche questa delicata operazione di mediazione culturale al femminile con una figura particolarmente interessante per riflettere su una serie di elementi che riguardano lo studio delle donne nelle arti e nell’audiovisivo. Per Summer, infatti, Smith ha scelto di gettare luce su Lorenza Mazzetti, cineasta e scrittrice italiana emigrata a Londra ancora giovanissima e tra le principali animatrici del Free Cinema inglese, un movimento sorto negli anni Cinquanta a partire dalla collaborazione della filmmaker con Lindsay Anderson, Karel Reisz e Tony Richardson, firmatari con lei di quello che sarebbe diventato il Manifesto del Free Cinema Movement, che recita così:

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

 

In Ellissi dello sguardo. Pathosformeln dell’inespressività femminile dalla cultura visuale alla letteratura (Morellini Editore, 2018) Beatrice Seligardi individua con una felice intuizione critica un’area di famiglia tra fenomeni testuali e visivi, contigui ma non del tutto sovrapponibili, che hanno a che fare con la rappresentazione dell’inespressività femminile nella pittura, nel cinema, nella fotografia e nella letteratura occidentali degli ultimi duecentocinquanta anni.

Il libro si divide in due parti. La prima è a sua volta divisa in due capitoli Pathosformeln: definizione di un traveling concept e Lo sguardo inespressivo: inquadrature, ai quali Seligardi affida una densissima definizione teorica della Pathosformel dell’inespressività, i cui riferimenti spaziano da Warburg a Didi-Huberman, da Benjamin a Barthes, solo per nominare i più noti. Del concetto warburghiano, autentico primum mobile di tutto il discorso, si enuclea subito la «duplicità dura da definire e più facile da intuire: la componente emotiva del moto dell’animo e la struttura razionale di una forma che renda visibile e intellegibile l’energia interna» (pp. 13-14), raddoppiata dalla rilevazione, di Salvatore Settis, che le Pathosformeln si presentano «a) come repertorio di forme per esprimere il movimento e le passioni, messo a punto dagli artisti antichi, tramandato e ripreso nel Rinascimento; b) come classificazione delle formule usate nella tradizione figurativa europea» (citato a p. 15). Ed è qui che interviene il clic alla base di Ellissi dello sguardo: «Ma potremmo anche tradurre quell’Antichità con un più generico “passato”, e dunque svincolare la Pathosformel dal legame con la classicità più stretta, adeguandola piuttosto alle configurazioni del tempo che si sono via via sviluppate in seno ad epoche diverse, una fra tutte la modernità, che sarà il grande bacino di prova del nostro discorso» (ibidem). Il fatto, però, che a tale bacino non si fornisca un’effettiva concretezza storico-culturale rischia a tratti di convogliare quel «ma», che pure rende conto della vivacità intellettuale della studiosa, verso una certa astrattezza teorica, specie nel traslare, sulla scia di Benjamin, la Pathosformel da dispositivo espressivo-narrativo ad allegoria della modernità.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

Tra tutte le dive del cinema italiano, Monica Vitti è stata quella che più ha reso la rappresentazione della ‘scopia’ femminile una vera e propria iconografia cinematografica. Consacrata dalla collaborazione con Michelangelo Antonioni nella cosiddetta trilogia dell’incomunicabilità (L’avventura - 1960, La notte - 1961, L’eclisse - 1962) in bianco e nero, il cui atto finale può essere considerato l’uso poetico del colore in Il deserto rosso, l’attrice ha poi inanellato collaborazioni con numerosi registi italiani e internazionali, sviluppando inoltre una spiccata caratterizzazione comica, soprattutto a partire dai film di Monicelli. Eppure, è proprio l’inespressività del volto dei suoi personaggi nei film del regista ferrarese ad averla trasformata da attrice a icona e poi a diva, bacino di caratteri individuali e collettivi che si fondono all’interno di un’immagine insieme astratta e concreta.

Il processo di trasfigurazione del corpo e dell’individualità dell’attrice verso la sfera simbolica dell’icona è già di per sé parte integrante della parola Ê»divaʼ, cui siamo soliti attribuire la capacità di riflettere una serie di desideri (per lo spettatore) e di processi di identificazione (per la spettatrice). Tuttavia, nell’approfondire il rapporto con l’etimo latino divinum (Bronfen, Straumann 2002), emerge anche un’ontologia singolarizzante, in cui è possibile leggere in modo innovativo il rapporto fra attrice e sguardo. Il significato etimologico di Ê»divinoʼ sembra sopravvivere infatti nella somiglianza che la diva intrattiene con la figura della santa martire, attraverso due opposizioni semantiche: pubblico vs. privato (perché è il pubblico a possedere il loro corpo), esibizione vs. perdita di sé (come effetto mediatico, ma anche fisico nel caso del martirio).

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

Abstract: ITA | ENG

Partendo dalla definizione che ne ha dato Walter Benjamin, l’articolo propone un’interpretazione del concetto di aura all’interno della produzione narrativa di Ali Smith, e in particolare nei romanzi Artful (2012) e How To Be Both (2014). Dopo una preliminare riflessione sulla concezione di aura di Bejamin, definendone le caratteristiche e i tratti epistemologici, si passa all’analisi della rappresentazione delle immagini (soprattutto fotografiche e cinematografiche) nei romanzi di Smith. Scopo dell’articolo è quello di dimostrare come le specifiche strategie messe in atto dall’autrice lascino aperta la possibilità di interpretare anche le immagini della contemporaneità in una chiave ‘auratica’. 

Starting from Benjamin’s definition of aura, the purpose of this article is to interpret such a concept in the narrative production of the Scottish writer Ali Smith, in particular in her novels Artful (2012) and How To Be Both (2014). In the first part of the article, I will dwell upon Benjamin’s notion of aura and its epistemological functions. In the second part, I will analyse the representation of the images (especially photographic and cinematic ones) in Smith’s novels in order to demonstrate that the concept of aura is applicable to interpreting contemporary images too.

Secondo la celebre interpretazione di Walter Benjamin, nell’epoca moderna della riproducibilità tecnica l’opera d’arte perderebbe una delle caratteristiche fondanti che l’avevano contraddistinta sino (e poco oltre) l’apparizione della fotografia: l’aura, quell’alone di sacralità e di unicità che aveva reso l’opera d’arte un oggetto cultuale. La possibilità di moltiplicare e di mercificare l’oggetto artistico ne ricondurrebbe la sfera ontologica dal trascendente all’immanente, modificando in maniera ineludibile la percezione e la fruizione da parte di un pubblico sempre più massificato. L’aura sembrerebbe quindi assumere i tratti di un concetto storico, dotato di una sua specificità temporale che ha, come limite ad quem, l’epoca modernista: con l’avvento del cosiddetto postmoderno e della società tardo-capitalistica, quei residui auratici che Benjamin ancora individuava nel dagherrotipo (e che appartengono in qualche modo anche ai primi esiti cinematografici) vengono a cadere in modo evidente non solo per quanto riguarda i meccanismi produttivi, ma anche all’interno delle stesse poetiche di artisti e scrittori, consci ormai dei processi di reificazione in cui sono immersi.

È dunque possibile parlare di aura all’interno della produzione artistica attuale? Questo articolo propone una lettura “eccentrica” di una scrittrice contemporanea, Ali Smith, da molti considerata fra le voci più originali del panorama britannico e non solo e le cui opere sono state spesso interpretate in chiave postmodernista e culturale (secondo prospettive gender, queer, eco-critiche). La lettura qui proposta di alcuni suoi romanzi (in particolare Artful e How To Be Both) mira invece a rintracciare un possibile recupero dell’aura nell’uso che Smith fa delle immagini all’interno del tessuto narrativo. Lontano dal citazionismo ironico e dall’uso ludico della cultura visuale esibito da buona parte della letteratura postmodernista, l’impianto iconografico delle opere di Ali Smith si innesta sulla vita emotiva, psichica dei personaggi all’interno di una configurazione molto spesso luttuosa. Come vedremo, proprio l’insistenza sulla distanza (sia temporale che intermediale, nel restituire sulla pagina scritta la sfera visiva) e sulla dimensione dell’«è stato»[1] delle immagini inserite all’interno della narrazione fa sì che queste ultime acquisiscano agli occhi tanto dei personaggi quanto dei lettori quella dimensione auratica, magica e trascendente che Benjamin aveva identificato nell’era pre-massmediale.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →