In Ellissi dello sguardo. Pathosformeln dell’inespressività femminile dalla cultura visuale alla letteratura (Morellini Editore, 2018) Beatrice Seligardi individua con una felice intuizione critica un’area di famiglia tra fenomeni testuali e visivi, contigui ma non del tutto sovrapponibili, che hanno a che fare con la rappresentazione dell’inespressività femminile nella pittura, nel cinema, nella fotografia e nella letteratura occidentali degli ultimi duecentocinquanta anni.
Il libro si divide in due parti. La prima è a sua volta divisa in due capitoli Pathosformeln: definizione di un traveling concept e Lo sguardo inespressivo: inquadrature, ai quali Seligardi affida una densissima definizione teorica della Pathosformel dell’inespressività, i cui riferimenti spaziano da Warburg a Didi-Huberman, da Benjamin a Barthes, solo per nominare i più noti. Del concetto warburghiano, autentico primum mobile di tutto il discorso, si enuclea subito la «duplicità dura da definire e più facile da intuire: la componente emotiva del moto dell’animo e la struttura razionale di una forma che renda visibile e intellegibile l’energia interna» (pp. 13-14), raddoppiata dalla rilevazione, di Salvatore Settis, che le Pathosformeln si presentano «a) come repertorio di forme per esprimere il movimento e le passioni, messo a punto dagli artisti antichi, tramandato e ripreso nel Rinascimento; b) come classificazione delle formule usate nella tradizione figurativa europea» (citato a p. 15). Ed è qui che interviene il clic alla base di Ellissi dello sguardo: «Ma potremmo anche tradurre quell’Antichità con un più generico “passato”, e dunque svincolare la Pathosformel dal legame con la classicità più stretta, adeguandola piuttosto alle configurazioni del tempo che si sono via via sviluppate in seno ad epoche diverse, una fra tutte la modernità, che sarà il grande bacino di prova del nostro discorso» (ibidem). Il fatto, però, che a tale bacino non si fornisca un’effettiva concretezza storico-culturale rischia a tratti di convogliare quel «ma», che pure rende conto della vivacità intellettuale della studiosa, verso una certa astrattezza teorica, specie nel traslare, sulla scia di Benjamin, la Pathosformel da dispositivo espressivo-narrativo ad allegoria della modernità.
Del resto, la stessa Seligardi sembra riconoscere una provvisorietà argomentativa al proprio lavoro intitolando il suo paragrafo più impegnativo Appunti per una teoria della Pathosformel della modernità: a suggerire come in questa occasione si stia limitando a spargere dei semi ermeneutici che devono ancora produrre una compiuta tipologia, verificata su un più vasto e sistematico corpus testuale. I cases studies della seconda parte – anticipati, peraltro, in due articoli di «Arabeschi» (n. 7 e n. 9) – costituiscono infatti solo un assaggio di quanto possiamo – e vogliamo – chiedere a una ricerca così originale. E dall’Olympia di Édouard Manet (1863) e dall’Absinthe di Edgar Degas (1873) sino alle contemporaneissime Cindy Sherman e Ali Smith, passando per altri nomi quali, ad esempio, Jean Rhys, Jean Edward Hopper, Cesare Pavese, Elio Pagliarani, già si intuisce quanto complessa e rizomatica è destinata a essere la tipologia dello «sguardo inespressivo femminile come dettaglio che ingenera nella fissità del momento intervallo un movimento narrativo rivelatore di un profondo moto interiore» (p. 43). Quella fra parola e immagine, con la diversa gestione, attraverso l’ellissi verbale e la still visuale, degli intervalli temporali legati al rapporto – ossimorico e in-between – tra il pathos sospeso di superficie e il soggiacente movimento narrativo, è solo la distinzione più appariscente: non meno decisiva appare quella tra la focalizzazione esterna, legata al predominante male gaze della produzione culturale fino a tempi recenti, e la «focalizzazione interna, in cui è lo sguardo del soggetto femminile rappresentato a essere considerato come punto di individuazione della Pathosformel» (p. 56). Una simile distinzione si sfaccetta poi in molteplici formazioni di compromesso, in cui entrano in gioco non solo i riflessi reciproci tra sguardo maschile e sguardo femminile, ma anche tutta una fenomenologia di possibili motivi espressivo-narrativi come, ad esempio, l’atteggiamento malinconico, lo stordimento da alcool e stupefacenti e l’atto di guardarsi allo specchio.
Sia chiaro: nonostante la contrapposizione tra la prima parte teorica e la seconda parte dei case studies possa alimentare il senso di una dicotomia non del tutto pacificata tra elaborazione categoriale e materiale analizzato, ad avercene di libri così inquieti, di giovani studiose e studiosi con una tale profusione di idee e, aggiungerei, con una tale ambizione teorica, evidente anche nell’altra monografia licenziata dall’autrice lo scorso anno: Finzioni accademiche. Modi e forme del romanzo universitario (Cesati, 2018). I lavori di Seligardi mostrano che la teoria della letteratura è ancora ben viva, nonostante il riflusso storico-filologico da un lato e la coolness della letteratura comparata più culturale e intermediale dall’altro. Peraltro, una simile inquieta inconclusività ha un suo indubbio fascino ed è il fascino dell’intelligenza: di un’esuberanza cognitiva che Seligardi potrebbe coltivare facendo più omogeneamente emergere la volontà sistemica dalla pluralità dei testi. Attendiamo con curiosità, in ogni caso, sviluppi ulteriori della ricerca, auspicabilmente in una veste grafica che contenga anche le immagini trattate, suggerendo, fra i tanti possibili, due cases studies come Jules et Jim di François Truffaut e L’età del malessere di Dacia Maraini.
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