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Remo Pagnanelli (1955-1987) è stata una figura tra le più significative della poesia italiana del secondo Novecento, sebbene ancora attenda il pieno riconoscimento critico che merita. Inoltre Pagnanelli è stato anche un attento conoscitore dell'arte e della teoria artistica; in particolare è da rilevare il suo interesse per l'opera di Freud, Jung, Arnheim, Warburg, Gombrich. Il presente intervento si concentrerà su un aspetto poco noto ma decisivo del suo lavoro, ovvero l'intenso rapporto con la cultura visuale e il ruolo giocato dalla pittura nei suoi versi. Verranno così analizzati, sulla base di un inquadramento delle peculiarità dello sguardo di Pagnanelli sui fatti dell'arte, i suoi saggi critici ed alcuni testi ispirati a opere di Caravaggio. Ma anche il cinema entra nella sua opera: il paragrafo finale dell'intervento sarà infatti dedicato all'analisi di un testo dalle forti risonanze autobiografiche, ispirato dalla visione del film L'histoire d'Adèle H. (1976) di François Truffaut. 

Remo Pagnanelli (1955-1987) has been one of the most interesting personalities in Italian poetry during the second half of the 20th Century, and he is still waiting to be fully rediscovered by critics. He was also a distinguished connoisseur of Art and Art Theory; notably, he was influenced by the works of Freud, Jung, Arnheim, Warburg, Gombrich. This essay will focus on this little-known but crucial aspect of Pagnanelli’s poetry: his deep interest in Visual Culture. Using as a framework the theoretical ideas structuring Pagnanelli’s instances of gazing, we will discuss his critical essays and some poems containing references – explicit or not – to Caravaggio’s paintings. But cinema also plays a role in the work of Pagnanelli: that’s why in the final paragraph we will examine a poem (with strong autobiographical resonances).

 

 

[…] Il tuo occhio non regge la visione?

E tu saltala, se sei un arcangelo

Remo Pagnanelli

1. Il poeta come archeologo dell’inconscio

 

«Scrivere fa parte dell’esistenza sebbene io abbia qualche dubbio in proposito. Il dubbio deriva, a seconda dei casi, dall’ipotesi di un di più di vitalità che lo scrivere rappresenta oppure, all’opposto, dal sintomo di incompletezza, di non adeguata attitudine a vivere pienamente».[1] Queste parole di Vittorio Sereni, che tolgo da un Autoritratto del 1978, si attagliano perfettamente alla figura di uno scrittore che a Sereni fu molto legato, Remo Pagnanelli, nato nel 1955 a Macerata e ivi morto suicida a soli trentadue anni.[2] Per comprendere appieno il percorso creativo di Pagnanelli è decisivo riflettere sulla sua concezione «archeologica» del sentire umano in generale e della scrittura in versi in particolare. «La poesia», osserva, «è per me operazione archeologica, nella duplice direzione di discorso del Principio e conservazione e custodia di ciò che è andato perduto o che si sta perdendo, di ciò che comunque il nostro cervello antichissimo vede di continuo “ri-affiorare”»[3] Tale concezione viene maturandosi già nel giovane Pagnanelli sulla scorta di alcuni decisivi stimoli intellettuali: in primis, il pathos dionisiaco nicciano; in secondo luogo, la lezione freudiana del sintomo e la teoria junghiana secondo cui la psiche inconscia sarebbe una struttura metapersonale, ovvero eccedente la cornice individuale.[4] E ancora, la convinzione eliotiana che la tradizione si muova per cooptazione di individualità da parte di forze sovraindividuali;[5] i contributi bachelardiani che sollecitano una lettura psicoanalitico-elementale del fatto creativo; l’ipotesi ermeneutica di Arnheim secondo cui l’iconicità deriverebbe dall’inconscio.[6] Ma, soprattutto, la nozione warburghiana di sopravvivenza e la centralità attribuita dallo storico dell’arte tedesco alla dinamica degli intrichi psichici in cui la vita simbolica non cessa di dibattersi.

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In Ellissi dello sguardo. Pathosformeln dell’inespressività femminile dalla cultura visuale alla letteratura (Morellini Editore, 2018) Beatrice Seligardi individua con una felice intuizione critica un’area di famiglia tra fenomeni testuali e visivi, contigui ma non del tutto sovrapponibili, che hanno a che fare con la rappresentazione dell’inespressività femminile nella pittura, nel cinema, nella fotografia e nella letteratura occidentali degli ultimi duecentocinquanta anni.

Il libro si divide in due parti. La prima è a sua volta divisa in due capitoli Pathosformeln: definizione di un traveling concept e Lo sguardo inespressivo: inquadrature, ai quali Seligardi affida una densissima definizione teorica della Pathosformel dell’inespressività, i cui riferimenti spaziano da Warburg a Didi-Huberman, da Benjamin a Barthes, solo per nominare i più noti. Del concetto warburghiano, autentico primum mobile di tutto il discorso, si enuclea subito la «duplicità dura da definire e più facile da intuire: la componente emotiva del moto dell’animo e la struttura razionale di una forma che renda visibile e intellegibile l’energia interna» (pp. 13-14), raddoppiata dalla rilevazione, di Salvatore Settis, che le Pathosformeln si presentano «a) come repertorio di forme per esprimere il movimento e le passioni, messo a punto dagli artisti antichi, tramandato e ripreso nel Rinascimento; b) come classificazione delle formule usate nella tradizione figurativa europea» (citato a p. 15). Ed è qui che interviene il clic alla base di Ellissi dello sguardo: «Ma potremmo anche tradurre quell’Antichità con un più generico “passato”, e dunque svincolare la Pathosformel dal legame con la classicità più stretta, adeguandola piuttosto alle configurazioni del tempo che si sono via via sviluppate in seno ad epoche diverse, una fra tutte la modernità, che sarà il grande bacino di prova del nostro discorso» (ibidem). Il fatto, però, che a tale bacino non si fornisca un’effettiva concretezza storico-culturale rischia a tratti di convogliare quel «ma», che pure rende conto della vivacità intellettuale della studiosa, verso una certa astrattezza teorica, specie nel traslare, sulla scia di Benjamin, la Pathosformel da dispositivo espressivo-narrativo ad allegoria della modernità.

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Una voce significa questo: c’è una persona viva, gola, torace, sentimenti, che spinge nell’aria questa voce diversa da tutte le altre voci.

Italo Calvino, Un re in ascolto

 

Io ti racconto questa storia affinché tu possa raccontarmela.

Adriana Cavarero, Tu che mi guardi tu che mi racconti

 

Sin dalle prime pagine del nuovo romanzo di Alessandra Sarchi, La notte ha la mia voce (Einaudi Stile Libero, 2017), appare chiaro che uno dei modi per cercare il senso della storia è quello di provare a dipanare il fitto intreccio di rimandi visivi che attraversano lo sviluppo della narrazione. Nel prologo, che precede le tre parti in cui è scandito il racconto della voce narrante (Terra, Aria, Acqua), l’evocazione delle immagini di un’intervista televisiva durante la quale McEnroe, mentre trasmettono alcuni fotogrammi della partita «più importante della sua carriera» giocata a Wimbledon contro Borg nel 1980, si alza e «s’inchina col capo e col busto a sé stesso, cioè all’immagine vittoriosa e giovanissima di sé che scorre nel filmato», annuncia la valenza speculare che la trama visuale riveste per il romanzo. Quella sequenza trasmessa sul piccolo schermo, in cui un uomo adulto rende omaggio e dice addio al simulacro di un sé giovane, suggerisce alla protagonista – una donna che non può più camminare a seguito di un incidente automobilistico che racconta in prima persona – un analogo e straziante requiem alla propria immagine ancora ignara del destino che di là a poco l’avrebbe privata dell’uso delle gambe. La fotografia che la ritrae di schiena, mentre sale le scale del teatro greco di Taormina, diventa il metro che misura la distanza incolmabile dal presente («si tratta di un’altra persona»), ma lascia intuire come la via del racconto sia segnata imprescindibilmente dalla relazione con l’altro e dalle sue corrispondenze («il mio altro, l’unica possibilità che avrei trovato di raccontare di me»).

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Il volume La vita dei dettagli di Antonella Anedda si presenta a un tempo come una dichiarazione di poetica, un cahier di appunti visivi, un piccolo trattato sulla ricezione e sulla percezione, una serie di études (nel senso musicale e pittorico del termine) letterari e molto altro ancora. Il presente studio affronta due concetti chiave al centro del libro: la nozione di dettaglio, cui Anedda conferisce un valore autonomo e personale, e quella di spettro/fantasma, attorno a cui la poetessa costruisce la propria riflessione sul rapporto tra ciò che è impersistente (il tempo, la vita stessa) e ciò che persiste, ciò che perdura oltre la morte (l’immagine).

Anedda’s La vita dei dettagli may be considered at the same time a declaration of poetics, a cahier of visual notes, a small treatise on reception and perception, a series of literary études (in the musical and pictorial sense of the word) and much more. This essay focuses on two key concepts at the heart of the book: the notion of detail (interpreted in a very personal way) and the interconnected ideas of spectrum and ghost, referring to the relationship between human life and what persists after death (the image).

 

E adorare i quadri che gli esseri umani hanno dipinto

i mondi senza vento che respirano quieti nei musei

Antonella Anedda, Adorare (le immagini)[1]

 

Il tempo non ha importanza: gli anni sono premuti sulla carta,

sulla tela, tela e carta che trattengono le cose

Antonella Anedda, Dall’arca[2]

 

 

La coazione a vedere e il bisogno di comprendersi mediante l’esercizio della scrittura sono i due perni attorno a cui ruota tutta l’opera di Antonella Anedda, la cui parola si fonda sull’interiorizzazione e rielaborazione dell’esperienza diretta e sul libero gioco dell’immaginazione. La passione della poetessa romana (ma di origine sarda) per la pittura è, da questo punto di vista, assolutamente paradigmatica, dal momento che non si traduce mai, sulla pagina, in mera ekphrasis; al contrario, l’opera d’arte funziona nei suoi testi come dispositivo di accrescimento della dicibilità dell’esperienza del reale, come una sorta di objet à réaction poétique, per parafrasare una nota formula di Le Corbusier. Il volume La vita dei dettagli. Scomporre quadri, immaginare mondi, che si presenta a un tempo come una dichiarazione di poetica, un cahier di appunti visivi, un piccolo trattato sulla ricezione e sulla percezione, una serie di études (nel senso musicale e pittorico del termine) letterari e molto altro ancora, è da questo punto di vista un’opera esemplare.

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Nouvelles histoires de fantômes è l’ultima mostra curata dallo storico dell’arte e filosofo francese Georges Didi-Huberman, in collaborazione con Arno Gisinger. Un essai visuel, secondo la definizione dello stesso autore, che ricompone nello spazio del Palais de Tokyo e attraverso il dispositivo dell’esposizione molti snodi cruciali del suo pensiero. Come per Atlas. ¿Cómo llevar el mundo a cuestas? (Reina Sofia, 2010), e a distanza di oltre dieci anni dalla pubblicazione di L’Image survivante. Histoire de l’art et temps des fantômes selon Aby Warburg (2002), la matrice centrale dell’intera operazione, la sua ‘cassetta degli attrezzi’, è l’Atlante della memoria di Warburg.

Centrale per la modalità di orientamento attraverso le immagini proposta dai pannelli del Bilderatlas warburghiano (Devant le temps. Histoire de l’art et anachronisme des images, 2000); per il tema delle Pathosformel e della loro trasmissione, che Didi-Huberman sviluppa in direzione di una riflessione critica costante sul presente, con il concetto di ‘sopravvivenza’ che si trasforma in quello di resistenza politica (Survivance des lucioles, 2009). E ancora, per le modalità attraverso cui le immagini vengono associate tra loro, con l’atlante e il montaggio individuati come temi-figure tra loro correlati e comuni a tutta una generazione di intellettuali tedeschi. È il caso ad esempio del Kriegsfibel di Bertold Brecht, il ‘sillabario’ composto nella forma di un atlante fotografico sul tema della guerra (Quand les images prennent position. L’Œil de l'histoire 1, 2009) che Didi-Huberman non a caso inserisce tra le proiezioni in mostra.

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Dopo una serie di importanti studi sull’opera e sul metodo warburghiani, in Atlas, ou le gai savoir inquiet (terza anta di un trittico intitolato all’«occhio della storia»), Georges Didi-Huberman ha inteso mostrare come dal caso-Mnemosyne si possa ricavare un’idea di «atlante» che non coincide con il significato puramente denotativo attribuito comunemente al termine. Strumento di visualizzazione del sapere, forma ibrida tra parola e immagine, l’atlante diviene così soprattutto traduzione in oggetto non solo librario di un modo ‘diverso’ di organizzare la conoscenza: diverso in primo luogo dal canone positivista dei cui risultati esso era divenuto forma privilegiata di espressione e divulgazione.

Pertanto, di una possibile storia dell’atlante egli non cerca qui di «dérouler le récit, mais plutôt […] tenter de construire une archéologie visuelle autant que théorique» (p. 116). Allo scopo di definire lo statuto epistemologico proprio della forma in questione, egli oppone allo spazio riquadrato e organizzato prospetticamente del tableau il piano orizzontale della table, che può anche accogliere l’accostamento incongruo o addirittura il caos. Nella creazione di un simile concetto si intravede a mio parere l’influenza del famoso tópos novecentista, di origine schiettamente letteraria (dai Chants de Maldoror di Lautréamont), che celebra l’incontro di un ombrello e di una macchina da cucire su un tavolo di dissezione anatomica (poi divenuto divisa dell’estetica surrealista). Del resto «le désordre n’est déraison que pour celui qui refuse de penser, de respecter, d’accompagner en quelque sorte, le morcellement du monde. La table serait donc un lieu privilégié pour recueillir et présenter ce morcellement. Pour en affirmer la valeur fondatrice et opératoire, c’est-à-dire la possibilité, toujours ouverte, de se modifier, de produire une nouvelle configuration» (p. 56). A conferma si convocano insieme l’enciclopedia cinese di Borges (quella che suscita la risata dianoetica di Foucault all’inizio de l’Archelogia del sapere) e i mille plateaux di Deleuze e Guattari, le enumerazioni caotiche dello stesso Borges e la ‘macchina per pensare’ di Lullo.

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