Georges Didi-Huberman, Nouvelles histoires de fantômes

di

     

Nouvelles histoires de fantômes è l’ultima mostra curata dallo storico dell’arte e filosofo francese Georges Didi-Huberman, in collaborazione con Arno Gisinger. Un essai visuel, secondo la definizione dello stesso autore, che ricompone nello spazio del Palais de Tokyo e attraverso il dispositivo dell’esposizione molti snodi cruciali del suo pensiero. Come per Atlas. ¿Cómo llevar el mundo a cuestas? (Reina Sofia, 2010), e a distanza di oltre dieci anni dalla pubblicazione di L’Image survivante. Histoire de l’art et temps des fantômes selon Aby Warburg (2002), la matrice centrale dell’intera operazione, la sua ‘cassetta degli attrezzi’, è l’Atlante della memoria di Warburg.

Centrale per la modalità di orientamento attraverso le immagini proposta dai pannelli del Bilderatlas warburghiano (Devant le temps. Histoire de l’art et anachronisme des images, 2000); per il tema delle Pathosformel e della loro trasmissione, che Didi-Huberman sviluppa in direzione di una riflessione critica costante sul presente, con il concetto di ‘sopravvivenza’ che si trasforma in quello di resistenza politica (Survivance des lucioles, 2009). E ancora, per le modalità attraverso cui le immagini vengono associate tra loro, con l’atlante e il montaggio individuati come temi-figure tra loro correlati e comuni a tutta una generazione di intellettuali tedeschi. È il caso ad esempio del Kriegsfibel di Bertold Brecht, il ‘sillabario’ composto nella forma di un atlante fotografico sul tema della guerra (Quand les images prennent position. L’Œil de l'histoire 1, 2009) che Didi-Huberman non a caso inserisce tra le proiezioni in mostra.

Nouvelles histoires de fantômes si apre con la tavola 42 del Mnemosyne Atlas, che Warburg dedicò al motivo della Pietà e delle lamentazioni funebri. Ripresa da una telecamera e proiettata a parete su uno schermo quasi cinematografico, questa tavola definisce non solo il paradigma operativo dell’intera installazione ma anche il suo punto di partenza tematico. Composta da una lunga carrellata di immagini fotografiche e sequenze video, proiettate sul pavimento e osservabili sia dall’alto, grazie ad un corridoio rialzato che percorre l’intero perimetro espositivo, che dal basso, per ritrovarsi al centro dell’allestimento, tra gli intervalli delle immagini o sulla loro superficie di proiezione, la mostra si presenta come un gigantesco puzzle sul tema dei gesti che accompagnano il dolore dei vivi davanti alla morte. Dalle figure delle pleureuseus, ricorrenti nei sarcofagi antichi o nella pittura vascolare greca, ai Disastri della guerra di Goya (1810-1815); dal canto funebre in forma di poesia che Pasolini dedica a Marilyn Monroe ne La rabbia (1963), alle riprese del funerale di Buenaventura Durruti, sindacalista e anarchico, tra i protagonisti della guerra civile spagnola (1936). Dal documentario di Zhao Liang, Petition (1996-2009), gigantesco cahiers de doléances, testimonianza delle iniquità o ineguaglianza della Cina di oggi ma anche della forza di una richiesta ininterrotta di giustizia, alla sequenza de La corazzata Pötemkin (1925) in cui il dolore per la morte del marinaio Vakulinčuk si trasforma rapidamente in collera e resistenza, «comme si le peuple en larmes devenait, sous nos yeux, un peuple en armes».[1]

Si tratta di immagini inquiete, forse ancora di ‘immagini malgrado tutto’, comunque sempre di immagini che invitano a prendere posizione, a trovare cioè – scrive Didi-Huberman in Quand les images prennent position – una nostra dysposition. Disposizione ‘alle’ immagini: comprensione della loro problematicità, singolarità, differenza. E disposizione ‘delle’ immagini: presa in carico delle loro relazioni, della loro articolazione, del loro ordine di apparizione, in altre parole del loro montaggio.

Prendre position, c’est désirer, c’est exiger quelque chose, c’est se situer dans le présent et viser un futur. Mais tout cela n’existe que sur le fond d’une temporalité qui nous précède, nous englobe, en appelle à notre mémoire jusque dans nos tentatives d’oubli, de rupture, de nouveauté absolue. [...] Pour savoir il faut donc se tenir dans deux espaces et dans deux temporalités a la fois. Il faut s’impliquer, accepter d’entrer, affronter, aller au cœur, ne pas louvoyer, trancher. Il faut aussi – parce que trancher l’implique – s’écarter, violemment dans le conflit, ou bien légèrement, comme le peintre lorsqu’il s'écarte de sa toile pour savoir où il en est de son travail.[2]

Prendere posizione è dunque avvicinarsi e distanziarsi al contempo dallo spazio e dal tempo storico delle immagini, in una sorta di contatto interrotto che è il movimento stesso del montaggio. Ma non basta. Ogni movimento, infatti, implica una decisione, un gesto, una responsabilità rispetto al proprio presente, una presa di posizione di fronte a esso. È il caso ad esempio di Bertold Brecht e del suo Kriegsfibel, dove la posizione dell’esule, ‘esposto’ alla guerra in lontananza, si combina con l’intenzione di ‘esporre la guerra’ attraverso il montaggio di immagini, didascalie ed epigrammi. Una postura etica dell’autore che mostra delle responsabilità politiche. Questa tensione etico-politica che è propria dell’autore, e che appartiene allo stesso tempo all’immagine, trova un punto di unione in quell’estetica dell’esposizione elaborata da Didi-Huberman nel corso degli anni. Come scrive Raoul Kirchmayr:

Non c’è dubbio che l’intero discorso sul valore politico della produzione/esposizione di immagini dialettiche poggia sul movimento di apertura dell’immagine e di esposizione di qualcosa che, apparendo in un’immagine prodotta (il che significa selezionata, smontata, rimontata, inquadrata ecc.), rende evidente allo sguardo un poter-essere-altrimenti del mondo.[3]

Sono forse questi i fantasmi, questo poter-essere-altrimenti del mondo, che incontriamo in Nouvelles histoires de fantôme. Li incontriamo, perché così ce li fa incontrare l’autore/curatore Didi-Huberman, in quelle formule patetiche attraverso le quali il dolore, l’emozione di fronte alla morte, si espone e si condivide. Il dolore, però, può trasformarsi, come nel caso de La corazzata Pötemkin, in un’istanza di giustizia, in azione e pensiero politico.

 

 


1 G. Didi-Huberman, Quelle émotion! Quelle émotion?, Montrouge, Bayard Éditions, 2013, p. 54.

2 G. Didi-Huberman, Quand les images prennent position. L’oeil de l'histoire, 1, Paris, Les Éditions de Minuit, 2009, pp. 11-12.

3 R. Kirchmayr, ‘L’occhio della storia. Didi-Huberman tra un’“etica” e una politica delle immagini’, Engramma, 89, aprile 2011.