Disobbedire all’oblio. Appunti su La vita dei dettagli

di

     
Abstract: ITA | ENG

Il volume La vita dei dettagli di Antonella Anedda si presenta a un tempo come una dichiarazione di poetica, un cahier di appunti visivi, un piccolo trattato sulla ricezione e sulla percezione, una serie di études (nel senso musicale e pittorico del termine) letterari e molto altro ancora. Il presente studio affronta due concetti chiave al centro del libro: la nozione di dettaglio, cui Anedda conferisce un valore autonomo e personale, e quella di spettro/fantasma, attorno a cui la poetessa costruisce la propria riflessione sul rapporto tra ciò che è impersistente (il tempo, la vita stessa) e ciò che persiste, ciò che perdura oltre la morte (l’immagine).

Anedda’s La vita dei dettagli may be considered at the same time a declaration of poetics, a cahier of visual notes, a small treatise on reception and perception, a series of literary études (in the musical and pictorial sense of the word) and much more. This essay focuses on two key concepts at the heart of the book: the notion of detail (interpreted in a very personal way) and the interconnected ideas of spectrum and ghost, referring to the relationship between human life and what persists after death (the image).

 

E adorare i quadri che gli esseri umani hanno dipinto

i mondi senza vento che respirano quieti nei musei

Antonella Anedda, Adorare (le immagini)[1]

 

Il tempo non ha importanza: gli anni sono premuti sulla carta,

sulla tela, tela e carta che trattengono le cose

Antonella Anedda, Dall’arca[2]

 

 

Antonella Anedda, La vita dei dettagli, copertina

La coazione a vedere e il bisogno di comprendersi mediante l’esercizio della scrittura sono i due perni attorno a cui ruota tutta l’opera di Antonella Anedda, la cui parola si fonda sull’interiorizzazione e rielaborazione dell’esperienza diretta e sul libero gioco dell’immaginazione. La passione della poetessa romana (ma di origine sarda) per la pittura è, da questo punto di vista, assolutamente paradigmatica, dal momento che non si traduce mai, sulla pagina, in mera ekphrasis; al contrario, l’opera d’arte funziona nei suoi testi come dispositivo di accrescimento della dicibilità dell’esperienza del reale, come una sorta di objet à réaction poétique, per parafrasare una nota formula di Le Corbusier. Il volume La vita dei dettagli. Scomporre quadri, immaginare mondi, che si presenta a un tempo come una dichiarazione di poetica, un cahier di appunti visivi, un piccolo trattato sulla ricezione e sulla percezione, una serie di études (nel senso musicale e pittorico del termine) letterari e molto altro ancora, è da questo punto di vista un’opera esemplare.

Come ha rilevato Eloisa Morra, la scrittura di Anedda è punteggiata da una moltitudine di parole-segno che tornano costantemente nella sua opera con il valore di marche di riferimento, rivestendo una funzione simile a quella degli «schizzi di colore nei quadri di Pollock» o dei «tagli nei quadri di Fontana», ovvero quella di creare uno «spazio interiore nel mondo».[3] Tra queste parole – Morra ricorda i casi esemplari di «balcone», «ossa, «tregua, «isola» – è da annoverare anche il termine «dettaglio», che ha una lunga e articolata storia nell’opera di Anedda, a partire da Notti di pace occidentale passando per Dal balcone del corpo fino alla più recente raccolta Salva con nome.[4] Giocano qui un ruolo fondamentale le raffinate competenze dell’autrice in fatto d'arte, e in particolare la sua approfondita conoscenza dei problemi teorici connessi alla nozione di “dettaglio”, a partire dagli studi di figure lontane tra loro ma per certi versi convergenti come quelle di Heinrich Wölfflin e Giovanni Morelli, fino allo studioso francese Daniel Arasse, autore del capitale saggio Le détail. Pour une histoire rapprochée de la peinture (1992). Tuttavia, sin dai suoi esordi Anedda ha sviluppato una autonoma accezione di questo vocabolo, contravvenendo alle leggi fondamentali della metodologia attributiva ed eludendo la ricerca di 'senso' che finalisticamente orienta il lavoro interpretativo a favore delle ragioni del desiderio, di un rapporto totalmente personale con il fatto visivo. Come ha osservato Alberto Casadei, ne La vita dei dettagli «la tecnica dell’analisi del dettaglio perde la sua matrice filologico-investigativa per rivelare quella sciamanica e ‘risarcitiva’, prima di tutto nei confronti dell’io osservante».[5] Il ‘dettaglio’ di Anedda non è il ‘particolare’, indice o indizio per riscontri morfologici chiamato a far sistema con altri elementi analoghi, bensì rappresenta un fatto figurativo estrapolato dal contesto, isolato e poi ri-significato perché agisca da motore creativo di un originale spazio interiore, emotivo ed esistenziale, vera e propria «scheggia di un’immagine impercepibile nella sua interezza, residuo dotato insieme di mitezza e fermezza, ricettacolo di memoria».[6] Siamo insomma in presenza di una deliberata trasgressione rispetto alla progettualità ermeneutica di un sapere obiettivo e sistematico, prossimi semmai a un vedere inteso come gesto esistenziale, e in parte apotropaico, che si attua per verba.

Tale gesto implica scelte precise a livello percettivo, sul piano cioè delle dinamiche cinestetiche che determinano i modi di fruizione dell’immagine, dai movimenti degli occhi alla posizione del corpo. Alla radice dell’atto di visione di Anedda notiamo infatti un moto totalmente eterodosso: mi riferisco alla volontà di «trasgredire lo spazio» e «disubbidire alla distanza»,[7] di incollare cioè l’immagine agli occhi, lasciando da parte il criterio oggettivante-distanziante che il rigore scientifico imporrebbe per compromettersi soggettivamente con l’opera, fino ad accettare di confondersi con essa (senza peraltro che questo significhi abbandonarsi a uno sguardo naif se, come in questo caso, il soggetto percipiente non può e non vuole dimenticare le proprie specifiche competenze storico-critiche).[8] Tale postura ricettiva è programmaticamente annunciata in questo stralcio della prosa Bonifacio, notte raccolta nel volume La luce delle cose:

Non di quadri e libri [ho provato a parlare], ma a quadri e libri come spazi che in sé stringevano il segreto di un ulteriore spazio, di un ulteriore tempo. A quadri e libri, davanti a quadri e libri, frontalmente e non al di sopra. Non l’insidioso per ma il semplice a della dedica e del dono: un gesto veloce.[9]

Se «il dettaglio costruisce non solo l’orizzonte ma l’autenticità dello spazio»,[10] è allora da questa acquisita autonomia ‘esistenziale’ del dettaglio stesso – è significativo che Anedda abbia scelto di intitolare il libro non La vita nei bensì La vita dei dettagli – che scaturisce per il poeta la possibilità di immergersi nel fatto artistico come in uno spazio tutto interiore, di portata a un tempo privata e cosmica. «Così è in Pasternak e in Anna Achmatova», si legge nella prosa Sui pavimenti di pietra, «per i quali i dettagli: la brocca e l’icona, il tappeto e il lenzuolo, sono le fessure attraverso cui accogliere l’universale».[11] La funzione precipua del dettaglio, ciò che l’immagine custodisce, il suo resto latente,[12] è insomma quella di costituire un luogo «dove gli oggetti e gli esseri possono respirare davvero gli uni accanto agli altri»,[13] entro una comune dimensione di scambio e confronto (nelle parole d’autore sopra citate, le figure della «dedica» e del «dono»). «Volevo che i dettagli raccolti dal mio sguardo», precisa Anedda, «potessero vivere in modo diverso e imprevedibile nello sguardo degli altri».[14]

Occorre sottolineare quanto sia qui decisiva quella nozione di sguardo che ha contraddistinto i rapporti tra poesia e arti della visione nel corso di tutto il Novecento e che ancora li caratterizza in questo primo scorcio di Ventunesimo secolo.[15] Nel caso di Anedda, si tratta di uno sguardo di natura prensile, uno sguardo che, abolite le distanze, accoglie e sa vedere, intento a operare sull’immagine «come coltello»,[16] resecando dall’insieme quanto è in grado di entrare in dialogo con le intime vicende di chi osserva. La parola «dettaglio», del resto, deriva dall’antico francese détailler, ovvero ‘tagliare a pezzi’, e non è un caso che la sezione di apertura del libro si intitoli Ritagli. Il rischio, ricordato da Arasse, «che l’amatore tagli materialmente il quadro, lo smembri, quasi per ottenerne un concentrato di godimento»,[17] si fa in Anedda evenienza gioiosa, occasione creativa, gesto necessario di liberazione e disvelamento. «Capisco quel soldato», si legge nel paragrafo Istruzioni per l’uso, «che durante l’occupazione di Bergamo, nel 1528, “invaghito” – racconta Ridolfi – del paesaggio con il Monte Sinai sullo sfondo delle Nozze mistiche di Santa Caterina dipinte da Lorenzo Lotto, “lo tagliò dal quadro”».[18] Lo sguardo che ritaglia, ‘sguardo-dettagliante’ potremmo dire,[19] è per Anedda questa esperienza anche sconveniente, persino sfacciata di esercizio della propria libera volontà creatrice, assecondando gli impulsi fisici e sensoriali che gli stimoli visivi sollecitano: «Infila lo sguardo nell’immagine come infileresti la mano in una pelliccia scucita».[20] Siamo insomma in presenza di un occhio che fruga, che rovista nel visibile per tentare, attraverso ripetuti découpages poetici, un continuo esperimento con il sé, nella misura in cui la poetessa si pensa, e pensa l’intera natura del mondo, avendo l’opera (e/o l’artista) come interfaccia, talora come specchio.[21]

In quest’ottica, le varie sezioni che compongono La vita dei dettagli possono essere lette come altrettanti esperimenti verbali scaturiti dalla stringente interazione tra la forma discreta del dettaglio e lo spazio emotivo che questo crea, elargendo alla parola nuovi spazi espressivi. Nel che inevitabilmente si giunge a toccare quello che è forse il tema centrale dell’intero lavoro di Anedda, ovvero il rapporto tra forme della persistenza e natura informe (difforme) dell’impersistente, a partire dal nodo tanto affascinante quanto insolubile della persistenza quasi patologica di ciò che è impersistente per definizione, ossia il tempo. E qui incontriamo un’altra decisiva parola-segno, o meglio una coppia di parole-segno, che ricorrono in modo quasi ossessivo in tutto il corpus creativo dell’autrice: «spettro», «fantasma».[22] Se la nozione di dettaglio rinvia almeno in parte al magistero di Arasse, esplicitamente evocato, la diade sinonimica spettro/fantasma è riconducibile all’affascinante scommessa, ormai lunga un secolo, di tracciare una psico-storia dell’arte da parte di Aby Warburg e dei suoi allievi e continuatori, fra i quali spicca oggi il nome di Georges Didi-Huberman, peraltro compagno generazionale di Antonella Anedda.[23] Mi riferisco all’idea che l’immagine sia «ce qui survit d’un peuple de fantômes»,[24] e che praticare la storia dell’arte significhi svolgere un’indagine intorno al Nachleben delle immagini stesse, alla loro sopravvivenza o vita post-umana, considerando le figure che popolano quadri e sculture come una folta, variopinta schiera di revenants.

Queste suggestioni, declinate anche nel senso ‘umorale’ e malinconico-saturnino di un altro studioso ‘warburghiano’ come Rudolf Wittkower, inducono lo ‘sguardo-dettagliant’e di Anedda a cercare il punto di rottura, per così dire, oltre il quale la mimesis pittorica, «avvolgente nel suo effetto di presenza»,[25] viene scavalcata, per via di afflato empatico, in direzione della phantasia, ossia verso una ricerca di dialogo con i phantasmata. Ecco dunque che lo spazio interiore che il dettaglio spalanca, innescando un meccanismo riflessivo-rammemorativo-immaginativo, non resta mai vuoto ma immediatamente si popola di spettri/fantasmi «ancora colmi di desideri, ancora tesi verso la vita come creature che la perdita del corpo ha reso più inquiete», come si legge nella prosa Mattine del mondo.[26] «Questo libro è una storia di fantasmi», scrive Anedda introducendo La vita dei dettagli,[27] ma tale asserzione potrebbe essere estesa alla quasi totalità della sua opera. In tal senso, credo che potrebbe risultare proficuo confrontare alcuni dei suoi testi lirici – penso in particolare ad Anniversario I e Anniversario II in Dal balcone del corpo – con un componimento di Giovanni Raboni intitolato Le nozze, dove i personaggi che animano la più celebre tela di Jan Van Eyck, Il ritratto dei coniugi Arnolfini, mimano il vissuto autobiografico del poeta e vi si sovrappongono: in entrambi i casi, ci troviamo di fronte a degli sguardi autoriali che si radicano nel quadro per abitarlo, per vivere 'al suo interno', per avviare un dialogo con i fantasmi che vi dimorano.[28] Una dinamica simile è all’opera anche in questi versi della memorabile lirica Quello che sappiamo sopportare:

 

Dalla metà della vita in poi aumentano gli spettri
o forse sono ombre mosse dall’accanimento della luce
voci che ancora ruotano su corpi ormai irreali.
Schiere, dall’infanzia a oggi
sguardi che non siamo in grado di contare,
vite appena decifrate dai dettagli.
Sofferenza, dico. Rispondono: proiezioni.
Soffri solo tu al pensiero che soffrano.[29]

 

Se sul piano spaziale l’occhio ravvicinato e assorto di Anedda intende «disubbidire alla distanza», annullando quel minimo di distacco percettivo che l’attività critica impone, sul piano temporale la sua propensione alla disobbedienza si manifesta attraverso la volontà – che è anche dolorosa, ineluttabile necessità – di sfidare la distanza imposta dal tempo, sottraendosi alle ingiunzioni della trappola soggettivizzante (l’illusione privatistica e regressiva di un Io-monade che vive isolato nel proprio hic et nunc), in cerca di un’identificazione transtemporale con i molteplici ‘io’ che popolano i quadri, quei «mondi senza vento» che racchiudono il mistero della condizione umana.

In questa prospettiva, La vita dei dettagli può essere letto come l’esperimento di un sé che, a partire dallo spazio intimo eppure partecipativo creato dal dettaglio,[30] giunge attraverso la parola poetica a traslocare intera la propria psiche e la propria vicenda esistenziale nell’opera d’arte, entrando in diretto contatto con altre vite, aderendo fisicamente ai corpi visti e immaginati fino a incarnarli, fino a vivere le loro stesse percezioni. Dal ‘cavaliere errante’ Guidoriccio da Fogliano di Simone Martini, figura già cara a Luzi, all’enigmatica fanciulla egizia di uno dei ritratti di Fayum, arrivando alle smarrite anime purgatoriali che fanno capolino nelle opere dei contemporanei statunitensi Edward Hopper e Bill Viola,[31] una coralità di destini trascinati alla vita dal richiamo irresistibile/ineluttabile del dettaglio si accumula e riecheggia sulla pagina.[32] Anedda sente che quei morti la sollecitano e quasi le impongono di scrivere su di loro; non solo, ma avverte che quegli spettri le assomigliano, la riguardano, sono carne della sua carne. Come si legge nella prosa Rotte notturne, «forse solo così è possibile dare un senso alle cose e agli incontri: trasformare il dettaglio in visione, in uno scorrere di vite che vanno per brani in altre vite».[33] «Ecco una schiena, potrebbe essere mia», annota in riferimento alla Venere allo specchio di Velázquez;[34] i fulvi capelli del cadavere di Johann Fonteyn in La lezione di anatomia del Dottor Reyman di Rembrandt, constata, sono «quasi del mio stesso colore»;[35] dinnanzi all’urticante fisicità del Cristo morto di Mantegna, ricorda: «rivedo me stessa davanti a piedi simili».[36] Non diversamente, quando l’occhio solca in lungo e largo, attraverso il tempo e lo spazio, il movimentato paesaggio urbano di Arles, immagini e phantasmata si moltiplicano, inducono a «visioni» con cui è fatale avviare uno scambio, intrattenere un dialogo. Come ignorare che su quella panchina del cortile dell’Hôpital du Saint-Esprit siede qualcuno che le è profondamente affine, l’alienato fou de peinture Vincent Van Gogh?«Vedo un uomo dai capelli rossi che legge Tommaso de Kempis e Tolstoj e scrive sermoni nel Borinage e a Isleworth».[37]

Fotogramma da Corvi, episodio del film Sogni di Akira Kurosawa, 1990

Vanno in questa direzione anche la seconda e terza sezione del libro, Un museo interiore e Ritratti, dove lo sguardo di Anedda si concentra più che sulle creazioni (le opere) direttamente sui creatori, attraverso un dialogo a tutto campo tra le sfere congiunte della visualità e della verbalità. «Tra l’immagine e il linguaggio», si legge nella terza sala della sua personalissima Galleria, «scatta la rivelazione di un resto che s’incendia e rischiara».[38] La parola letteraria ‘restituisce’ ai pittori quella vita che loro stessi, con le loro opere, hanno contribuito a ‘significare’, e viceversa: questo, credo, il senso del paragrafo Galleria (un intrico di corridoi della mente lungo i quali stanno appesi i ritratti di poeti come lei malati di pittura, da Baudelaire a Jaccottet, da Williams ad Elizabeth Bishop) e del capitolo Ritratti, composto da quattro prose meditative dedicate ad altrettanti artisti amati, De Staël, Rothko, Viola, Holzer, letti alla luce di scrittori a loro affini. Così Nicolas De Staël, pittore dell’accecamento per eccesso di luce, artista della precarietà e della fragilità di ogni sensazione, è evocato con le parole di Celan e Char; Mark Rothko, viaggiatore del profondo, meditativo e solitario, con Dostoevskij, Kafka e Beckett; Bill Viola, interrogatore della natura liquida, inafferrabile del tempo, con Stevens e Carson; Jenny Holzer, esploratrice del linguaggio, impegnata in continui esercizi di spossessamento e indagine sulla natura instabile dell’identità, con Celan, Mandel’štam e il poeta americano contemporaneo Henri Cole.

Jenny Holzer, Your Oldest Fears are the Worst Ones, Times Square, New York, 1982

Nell’ultima sezione, Collezionare perdite, il precipitato di tutti gli spettri altrui dà luogo a un esperimento col sé assolutamente diretto, non mediato. Avviando un lavoro di scavo che poi proseguirà con l’interrogazione delle fotografie della madre e dei propri cari in Salva con nome,[39] Anedda interroga frammenti del proprio vissuto, confrontandosi con i dettagli persino fisici, fisiologici della sua stessa esistenza, interpellando senza cautele e diaframmi «il desiderio (e la disperazione) dell’assenza».[40] Esemplare in tal senso la fotografia che ritrae una mano dell’autrice sovrapposta a una foto ingrandita e ‘ritagliata’ della stessa: «Guarda questa immagine», si legge nella didascalia di accompagnamento, «una mano è mia, quella che sembra la sua ombra è l’orma di carta della mano di un corpo assente».[41] Il tema dell’assenza, dell’«apprendistato della perdita» – Perdita era già il titolo di una prosa di Cosa sono gli anni, e Perdita si intitola l’ultimo paragrafo di La vita dei dettagli[42] – viene significativamente evocato a suggellare il libro. Avendo davanti agli occhi la prova fisica, tangibile della precarietà dell’'esserci', la conferma materiale della propria natura impermanente, l’autrice riconosce la natura spettrale del suo stesso sguardo. «Salvandosi dal buio, rompendo la distanza», ha osservato Franca Mancinelli, «si può entrare in un nuovo mondo creato dalla luce del proprio sguardo, fino a deporre il proprio corpo, a divenire spettri, a incrociare gli occhi dei morti».[43] Nel vocabolario di Anedda, «perdere» – lo si legge nel paragrafo conclusivo non significa celebrare un narcisistico lutto dell’io, bensì al contrario «smettere di possedere, dare oltrepassando», ossia «donare attraverso, scavalcare se stessi smarrendo, smarrendosi».[44] Siamo insomma, ancora, entro un’idea di poesia come luogo intimo ma non chiuso, proteso alla creazione di una comune dimensione di scambio e confronto, ribelle agli imperativi della soggettività monadica e alle leggi eterne del silenzio e della rimozione.

Il senso profondo di questi esperimenti di sovrapposizione della propria carne con quella dei morti, perduta alla vita ma perdurante nell’immagine e dunque ancora presente nel mondo, può allora essere rinvenuto nell’estrema volontà di compiere un immane lavoro di ‘restituzione’, inteso letteralmente come risarcimento di una vita (quella di chi non è rimasto, eppure torna ad apparire) attraverso un’altra vita (quella di chi sta, eppure sa che dovrà scomparire). È questo forse il più estremo gesto di trasgressione che si possa immaginare: disobbedire all’oblio, contravvenire alla regola fondamentale della vita sulla terra, «l’incommensurabilità tra chi resta e chi muore»,[45] per tessere legami e cucire rapporti tra due schiere che l’opera nientificante del tempo procede implacabilmente a contrapporre. Vengono alla mente le parole pronunciate da François Truffaut/Julien Davenne nel film che più di ogni altro rappresenta un feroce e insieme tenerissimo atto di disobbidienza contro l’inesorabile legge dell’oblio, non a caso tratto dall’opera di un grande evocatore di fantasmi come Henry James: La chambre verte. «Ne pensez pas que vous l’avez perdue», dice Julien a un giovane vedovo, «pensez que maintenant vous ne pouvez plus la perdre. Consacrez-lui toutes vos pensées, tous vos actes, tout votre amour. Vous verrez que les morts nous appartiennent si nous acceptons de leur appartenir. Croyez-moi, nos morts peuvent continuer à vivre».

 Fotogramma da La camera verde di Francois Truffaut, 1978

 


1 A. Anedda, Il catalogo della gioia, Roma, Donzelli, 2003, p. 28.

2 A. Anedda, La luce delle cose. Immagini e parole nella notte, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 95.

3 «Si tratta», osserva la studiosa, «di una gamma di vocaboli emersi inizialmente in forma inconscia, ma che con il susseguirsi delle raccolte sono divenuti polisemici ed hanno la funzione di richiamare costantemente l’attenzione del lettore sul gesto e la riflessione di chi scrive. Si contrappongono al dettato, solitamente piuttosto ricercato, del resto delle poesie ed assumono per chi legge un valore che comprende insieme il lato oggettuale e quello astratto» (E. Morra, ‘Scomporre quadri, immaginare mondi. Dinamiche figurative e percezione nella poesia di Antonella Anedda’, Italianistica, xl, 3, settembre-dicembre 2011, p. 178).

4 «meditare sullo spazio e dunque sui dettagli» è un verso del quarto testo di A. Anedda, Notti di pace occidentale, Roma, Donzelli, 1999, p. 12. Per la raccolta del 2007 ricordiamo l’esemplare distico «Gli uni vicini agli altri / unici in pace riposano i dettagli» (A. Anedda, Dal balcone del corpo, Milano, Mondadori, 2007, p. 72); in quella del 2012 si legge «e subito dai dettagli si srotola una storia» (A. Anedda, Salva con nome, Milano, Mondadori, 2012, p. 103).

5 A. Casadei, Poesia, pittura, giudizio di valore (a partire dalle opere di Antonella Anedda) in Poetiche della creatività. Letteratura e scienze della mente, Milano, Bruno Mondadori, 2011, p. 131.

6 C. Verbaro, ‘Natura morta con cornice. La poesia di Antonella Anedda’, Italian Poetry Review. Plurilingual Journal of Creativity and Criticism, v, 2010, p. 320.

7 A. Anedda, La vita dei dettagli. Scomporre quadri, immaginare mondi, Roma, Donzelli, 2009, p. x e 2.

8 Recensendo il volume, Maria Anna Mariani lo ha definito «un elogio della disobbedienza», specificando: «A che cosa disobbedisce? Alla prospettiva, che fa della postura una legge. L’osservazione di un quadro può essere una prigione per lo sguardo [...]» (M. A. Mariani, recensione a La vita dei dettagli, Italian Poetry Review. Plurilingual Journal of Creativity and Criticism, v, 2010, p. 372, poi in Atelier. Trimestrale di poesia, narrativa, teatro, xvii, 66, giugno 2012, p. 48).

9 A. Anedda, La luce delle cose, p. 12.

10 A. Anedda, Cosa sono gli anni. Saggi e racconti, Roma, Fazi, 1997, p. 86.

11 Ivi, p. 95.

12 A. Anedda, La vita dei dettagli, p. 78.

13 A. Anedda, Cosa sono gli anni, p. 19.

14 A. Anedda, La vita dei dettagli, p. x.

15 Per questa nozione mi permetto di rinviare a R. Donati, Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione, Firenze, Le Lettere, 2014.

16 A. Anedda, La vita dei dettagli, p. 3. La parola “coltello”, che torna in Salva con nome («appunto un verso su un foglio e a volte mi ferisco / scambiando la penna col coltello»: A. Anedda, Salva con nome, p. 111), è forse eco di quei versi di Kavafis che la poetessa cita nella prosa Note per un venerdì santo. Poeti vecchi: «Il mio corpo, la mia figura invecchiano: / è una ferita di orrido coltello» (A. Anedda, Cosa sono gli anni, p. 53). Ma è qui probabile anche l’influenza di Omar Calabrese, il quale afferma che il dettaglio «presuppone un soggetto che “taglia” un oggetto» (citato in D. Arasse, Il dettaglio. La pittura vista da vicino, Milano, Il Saggiatore, 2007, p. 16).

17 Ibidem.

18 A. Anedda, La vita dei dettagli, p. 3.

19 Modello questo participio su quello creato da Nathalie Barberger per definire la funzione del dettaglio nell’opera di un altro grande intellettuale appassionato d’arte, Michel Leiris: «Le détail ne s’analyse que dans un rapport intime à l’œuvre où la jubilation d’un regard “détaillant” – un regard qui découpe le tableau – est, de même, découpe dans le temps, extraction, isolement et jouissance de l’instant» (N. Barberger, Michel Leiris. L’écriture du deuil, Villeneuve-d’Ascq, Presses Universitaires du Septentrion, 1998, p. 23).

20 A. Anedda, La vita dei dettagli, p. 63.

21 Quello di ‘sguardo-esperimento’ è uno degli indirizzi orientativo-interpretativi da me formulati nel già citato volume Nella palpebra interna, al quale rinvio per eventuali approfondimenti.

22 Tra le numerose occorrenze della parola ‘spettro’ ricordiamo un brano della prosa Bonifacio, notte dove si legge: «I nomi ruotano, si spengono, a volte in una luce improvvisa ricompaiono. Sono spettri che abitano le opere» (A. Anedda, La luce delle cose, p. 12), mentre per la poesia citiamo, tra i tanti possibili, un suggestivo verso di Anniversario I: «[...] lei era irreale: uno spettro che solo il suo sguardo animava» (A. Anedda, Dal balcone del corpo, p. 13, ma si ricordi anche la lirica Spettri in A. Anedda, Salva con nome, p. 13). La parola torna a più riprese nel libro del 2009, cfr. ad esempio A. Anedda, La vita dei dettagli, p. 43, 55, 162. La poetessa non manca peraltro di giocare anche sull’accezione tecnica del termine: penso ad esempio alla nozione di ‘spettro cromatico’.

23 Naturalmente non si intende qui affermare che Warburg e i suoi continuatori siano estranei al tema del dettaglio: è ormai quasi proverbiale la formula warburghiana secondo cui «Der liebe Gott steckt im Detail».

24 G. Didi-Huberman, L’image survivante: histoire de l’art et temps des fantômes selon Aby Warburg, Paris, Les édition de minuit, 2002, p. 41.

25 D. Arasse, Il dettaglio, p. 17.

26 A. Anedda, La luce delle cose, p. 135.

27 A. Anedda, La vita dei dettagli, p. xii.

28 Nell’illustrare la genesi de Le nozze, Raboni ricordava la propria fascinazione per Il ritratto dei coniugi Arnolfini, tanto intensa da indurlo ad «ambientarci una poesia»: non, specificava, a «farci una poesia sopra», ma proprio ad «ambientarci una poesia, cercare di entrare dentro il quadro» (Il poeta e la poesia, a cura di N. Merola, Napoli, Liguori, 1986, p. 140).

29 A. Anedda, Dal balcone del corpo, pp. 51-52.

30 Sul sentimento di «intimità» che il dettaglio instaura si sofferma lo stesso Arasse in D. Arasse, Il dettaglio, p. 12.

31 A Bill Viola è ispirato il componimento Video, che nei primi versi recita: «Chi se ne è andato non desidera tornare. / Pensiamo che si strugga per il mondo / prestandogli la nostra nostalgia» (A. Anedda, Salva con nome, p. 114).

32 La dimensione corale è una costante dell’opera di Anedda; ricordiamo che Cori si intitola la prima sezione di Dal balcone del corpo, e vari Cori tragici scandiscono le raccolte dell’autrice.

33 A. Anedda, La luce delle cose, p. 82.

34 A. Anedda, La vita dei dettagli, p. 41.

35 Ivi, p. 45.

36 Ivi, p. 67.

37 Ivi, p. 149.

38 Ivi, p. 78.

39 Ma già in Residenze invernali si poteva leggere un testo come questo: «La casa veglia le foto dei morti / ogni parete stretta / sui loro verticali sorrisi» (A. Anedda, Residenze invernali, Milano, Crocetti, 1992, p. 63).

40 A. Anedda, Cosa sono gli anni, p. 85.

41 A. Anedda, La vita dei dettagli, p. 169.

42 Il sintagma «apprendistato della perdita», sorta di libera reinterpretazione del celebre verso di Elizabeth Bishop «The art of losing isn’t hard to master», si legge nella riflessione che chiudeva la prosa Suoni della mente: «Forse la contemplazione di un particolare è solo l’apprendistato di una perdita, appena venato di promessa: ciò che è perduto sta per compiersi diversamente. Non è la verità, ma il sogno di quella perdita. Ed essendo sogno, ed essendo solo in parte nostro, a noi non duramente legato, riusciamo a contemplarlo» (A. Anedda, La luce delle cose, p. 108).

43 F. Mancinelli, recensione a La vita dei dettagli, Poesia, xxiii, 253, ottobre 2010, p. 66 (poi in Atelier. Trimestrale di poesia, narrativa, teatro, xvii, 66, giugno 2012, p. 47).

44 A. Anedda, La vita dei dettagli, p. 177.

45 A. Anedda, Dal balcone del corpo, p. 53.