Dopo una serie di importanti studi sull’opera e sul metodo
warburghiani, in Atlas, ou le gai savoir inquiet (terza anta
di un trittico intitolato all’«occhio della storia»), Georges
Didi-Huberman ha inteso mostrare come dal caso-Mnemosyne si
possa ricavare un’idea di «atlante» che non coincide con il
significato puramente denotativo attribuito comunemente al termine.
Strumento di visualizzazione del sapere, forma ibrida tra parola e
immagine, l’atlante diviene così soprattutto traduzione in oggetto
non solo librario di un modo ‘diverso’ di organizzare la
conoscenza: diverso in primo luogo dal canone positivista dei cui
risultati esso era divenuto forma privilegiata di espressione e
divulgazione.
Pertanto, di una possibile storia dell’atlante egli non cerca qui di «dérouler le récit, mais plutôt […] tenter de construire une archéologie visuelle autant que théorique» (p. 116). Allo scopo di definire lo statuto epistemologico proprio della forma in questione, egli oppone allo spazio riquadrato e organizzato prospetticamente del tableau il piano orizzontale della table, che può anche accogliere l’accostamento incongruo o addirittura il caos. Nella creazione di un simile concetto si intravede a mio parere l’influenza del famoso tópos novecentista, di origine schiettamente letteraria (dai Chants de Maldoror di Lautréamont), che celebra l’incontro di un ombrello e di una macchina da cucire su un tavolo di dissezione anatomica (poi divenuto divisa dell’estetica surrealista). Del resto «le désordre n’est déraison que pour celui qui refuse de penser, de respecter, d’accompagner en quelque sorte, le morcellement du monde. La table serait donc un lieu privilégié pour recueillir et présenter ce morcellement. Pour en affirmer la valeur fondatrice et opératoire, c’est-à-dire la possibilité, toujours ouverte, de se modifier, de produire une nouvelle configuration» (p. 56). A conferma si convocano insieme l’enciclopedia cinese di Borges (quella che suscita la risata dianoetica di Foucault all’inizio de l’Archelogia del sapere) e i mille plateaux di Deleuze e Guattari, le enumerazioni caotiche dello stesso Borges e la ‘macchina per pensare’ di Lullo.
La parte centrale del saggio specula poi sulla figura mitica eponima, il titano condannato a reggere la volta del cielo. Pathosformel opposta alla celebre ninfa, quella di Atlante esprimerebbe insieme la sofferenza di chi porta il peso incommensurabile del mondo e la forza necessaria per sorreggerlo. L’autore passa quindi in rassegna una serie di personalità ‘atlantee’, a propria volta ‘figure’ di Warburg medesimo, esseri capaci di sopportare il peso tanto di un sapere-sul-mondo quanto del Weltschmerz che lo pervade: quasi una visualizzazione del motto warburghiano Per monstra ad sphaeram. Le principali sono Goya e Goethe, recanti entrambi in sé segni profondi del conflitto tra Lumi e tenebre inconsce: il primo è rappresentato intento ad allestire atlanti figurati dei monstra che genera il sonno della ragione, il secondo a reinventare una scienza delle forme che abolisca i confini tra arte e indagine razionale (ad esempio naturalistica). Nietzsche (ispiratore del titolo col suo gai saber) è colui che ha fatto del dolore e della malattia un mezzo di conoscenza, mentre Benjamin è l’incarnazione dell’ ‘ebreo errante’ che si muove nel mondo impoverito d’esperienza dell’umanità post-bellica.
La prima guerra mondiale, non a caso, e il tracollo psichico di Warburg a essa intimamente legato, avrebbero rappresentato secondo Didi-Huberman una tappa cruciale per la nascita di Mnemosyne, creata allo scopo di «remonter un monde démonté par les désastres de l’histoire, d’en renouer les fils mémoriels par-delà ses épisodes, d’en renouveler la cosmographie intellectuelle» (p. 254). Affascinante è l’analisi hubermaniana dell’esplosione mediale che accompagnò e seguì il primo conflitto mondiale, e dell’allestimento da parte di Warburg di una monumentale Kriegskartothek per farvi fronte (impresa che può richiamarci alla mente la titanica schedatura del letale chiacchiericcio giornalistico-propagandistico che Karl Kraus mise in atto in difesa della lingua tedesca – e della cultura europea). Il valore conoscitivo di tale corpus è indubbio, pur essendo intimamente legato all’ossessione psicotica per la guerra e i suoi svolgimenti che prese l’iconologo fin dal 1914. Ma l’autore si avventura poi intrepidamente sul terreno insidioso dei rapporti tra il profilo patologico e quello intellettuale di Warburg, il cui sintomo principale sarebbe stato la difficoltà a instituire dei nessi causali elementari tra le più piccole cose quotidiane: proprio questo difetto, argomenta Huberman, gli avrebbe però permesso nei suoi studi di vedere nuovi nessi tra i fenomeni che la storiografia positivista incatenava in un rigido susseguirsi di cause ed effetti.
In questo libro, come nell’‘invenzione’ dell’atlante quale genere e quale idea che ne forma il contenuto, potremmo individuare un intento che già campeggiava nell’incipit dell’ormai classico Spie. Radici di un paradigma indiziario di Carlo Ginzburg: «uscire dalle secche della contrapposizione tra “razionalismo” e “irrazionalismo”». Del resto, la problematica del rapporto tra morfologia e storia nel quadro di un ripensamento dell’eredità warburghiana, che faceva da sfondo a tutti i saggi raccolti in Miti emblemi e spie, è grossomodo la stessa che si rimodella qui. Ma se Ginzburg procedeva per sondaggi separati – e la sua forma-feticcio era, ed è, piuttosto quella del ‘saggio’ di adorniana memoria – Didi-Huberman, in linea con gli oggetti della sua ricerca, fa esplodere una nebulosa in cui i nessi tra i fenomeni affrontati si accavallano tra analogia e genealogia, analisi storica e costruzione di una sorta di mito moderno: quello appunto del ‘sapere atlanteo’. Nell’esplorare la struttura psichica del suo illustre auctor, poi, l’autore ha il merito di prenderne davvero sul serio il sintomo patologico e di confrontarsi altrettanto seriamente con il contenuto del suo delirio. Warburg giganteggia però, nell’affresco dipinto da Didi-Huberman, al centro di una vera e propria teoria di eroi culturali, la tragica problematicità delle cui figure – pur sempre dichiarata e fatta oggetto di seria analisi – potrà apparire a tratti un po’ offuscata dall’entusiasmo. Infine, l’apparato iconografico di cui si correda il saggio (che nasce, lo ricordiamo, come testo introduttivo al catalogo di una mostra sullo stesso argomento), ne segue ed esprime perfettamente l’andamento serpentino, il procedere per nessi arditi, cosicché, sfogliandone le tavole e tentando di carpire del senso dalla sequenza quasi sempre enigmatica delle immagini, il lettore ha modo di fare un’esperienza davvero warburghiana, contribuendo inoltre a realizzare in prima persona l’idea ‘aperta’ di atlante che Didi-Huberman ha così energicamente tratteggiato nel testo.