In una sequenza famosa di Il sorpasso di Dino Risi (1962), i protagonisti Bruno (Vittorio Gassman) e Roberto (Jean-Louis Trintignant) corrono in auto lungo la via Aurelia e ascoltano Vecchio frac di Domenico Modugno. Bruno commenta: «A me ‘sto Vecchio frac me fa impazzi’. Perché pare una cosa da gnente e invece aho’, c’è tutto. La solitudine, l’incomunicabilità, e poi quell’altra cosa, che va de moda oggi… la… l’alienazione, come nei film de Antonioni. L’hai visto L’eclisse?». Roberto inizia ad abbozzare una risposta, ma Bruno riprende deciso: «Io c’ho dormito, ‘na bella pennichella. Bel regista, Antonioni. C’ha una Flaminia Zagato. Una volta sulla fettuccia di Terracina m’ha fatto allunga’ il collo». La tentazione di leggere in questo dialogo una sorta di gioco post-moderno ante litteram tra cultura alta e cultura bassa è forte, ma muoverebbe in una direzione diversa da quella suggerita dal saggio di Simona Busni (Roma, Edizioni Ente dello Spettacolo, 2019) del quale vorrei scrivere. E dunque, mi limito a notare come nello spazio breve di poche battute Risi e gli sceneggiatori Ettore Scola e Ruggero Maccari abbiano saputo condensare i luoghi comuni che più spesso circolavano – e ancora si ascoltano – sul cinema del regista ferrarese: la crisi dei sentimenti come atmosfera narrativa pervasiva e asfissiante, la cupa pesantezza dei dialoghi, e più di tutti l’alienazione.
Così scriveva Michele Smargiassi alcuni anni or sono nel suo blog, sottolineando come gli autori di narrativa, nutrendo la presunzione del primato della parola sull’immagine, si pongano in atteggiamento competitivo nei confronti della fotografia. Dopo aver rilevato che la maggior parte degli autori non vede l’immagine, ma vede solo attraverso l’immagine, e cerca quindi di andare oltre la foto per individuarne significati reconditi che solo la parola sarebbe in grado di cogliere, Smargiassi concludeva: «Questi scrittori si tuffano nell’immagine fotografica dando una spallata brutale al fotografo».[2] Se questo è l’atteggiamento più comune dei romanzieri nei confronti della fotografia (e lo dimostrerebbe la famosa – per non dire famigerata – affermazione di William Saroyan secondo cui una foto vale più di mille parole solo a patto che qualcuno le pronunci) va tuttavia rilevato che nel corso del tempo molti scrittori hanno posto al centro dei loro romanzi, in funzione squisitamente metanarrativa, figure di fotografi, ovvero hanno usato la fotografia come mise en abyme non solo del testo, ma della stessa scrittura.
Già nel 1851, neppure una dozzina d’anni dopo quel 1839 che vide il riconoscimento ufficiale della dagherrotipia da parte del governo francese, negli Stati Uniti, Nathaniel Hawthorne, affidando a un dagherrotipista, Holgrave, lo scioglimento del mistero al centro del suo romanzo The House of the Seven Gables (La casa dei sette abbaini), riconosceva l’importanza della fotografia, ancora guardata con diffidenza dai suoi contemporanei, incerti se considerarla un manufatto scientifico, prodigioso, ma non equiparabile a opera d’arte, o una magia perturbante, se non, addirittura, una stregoneria. Hawthorne, invece, omologava paradossalmente alla propria arte il lavoro del dagherrotipista, per lo più praticato da individui privi di cultura e conoscenze tecniche e, secondo Nadar «alla portata dell’ultimo imbecille e dei falliti di tutte le carriere».[3] In tal modo, l’autore americano dimostrava non solo di comprendere le potenzialità del mezzo fotografico, ma anche di intuire, al pari del grande fotografo francese suo contemporaneo, la necessità di un talento innato, non dissimile da quello dello scrittore, per esercitare al meglio questa pratica così umile e bistrattata. L’attitudine di Holgrave nei confronti del proprio mestiere – «Faccio quadri con la luce del sole»,[4] spiega alla giovane Phoebe che gli chiede quale sia il suo lavoro – sembra riflettersi, infatti, in un altro pronunciamento di Nadar, di sei anni posteriore al romanzo di Hawthorne: