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Il cinema di Michelangelo Antonioni è pieno di indagini fallimentari votate alla scomposizione: interminabili e inconcludenti esercizi di blow-up finalizzati all’affermazione del cosiddetto ‘mistero dell’immagine’. E se fosse possibile applicare il blow-up ai paesaggi dei suoi film allo scopo di ridurli allo stato elementare (acqua, aria, terra, fuoco)? Quale elemento risulterebbe predominante? E, soprattutto, in che modo lo sguardo del regista-scrittore-pittore si rapporta al fuoco e, in particolare, al vulcano come ultimo enigma simbolico della dimensione meridiana? Dalle isole vulcaniche di L’avventura alle montagne incantate, passando per i numerosi deserti (realistici, emozionali, metropolitani, industriali) del suo cinema – L’eclisse (1962), Il deserto rosso (1964), Zabriskie Point (1970), Professione: reporter (1974) –, l’obiettivo è quello di rintracciare i segni del fuoco e le loro più significative manifestazioni.

 

 

Questa idea si colloca in un posto imprecisato. Qualsiasi riferimento con la realtà è casuale.

Michelangelo Antonioni

 

Una volta le isole Eolie erano tanti vulcani…

Giulia (Dominique Blanchar), L’avventura (M. Antonioni, 1960)

 

Nel 1966 Michelangelo Antonioni gira Blow-Up, il film che traduce più fedelmente i termini del suo scetticismo nei confronti della realtà. Oltre a comprovare l’irrilevanza narrativa della detection (come topos emblematicamente atopico), l’indagine fallimentare del fotografo protagonista raddoppia a livello del contenuto l’ossessione formale nutrita dell’autore per il cosiddetto ‘mistero dell’immagine’:

 

 

Quello che vi propongo in questa scheda non è altro che un innocente esperimento critico di blow-up, messo in atto nel tentativo di scomporre una porzione di paesaggio rappresentato nel cinema antonioniano fino a ridurlo alla sua dimensione elementare. Qual è l’elemento, in assoluto, più presente?

Essendo il suo sguardo registico contaminato da potentissime infestazioni memoriali, una risposta plausibile potrebbe riguardare la natura selvaggia del Delta (felicemente eternata nel finale di Gente del Po, 1963-67, prim’ancora di diventare prerogativa neorealista per Visconti e Rossellini): le acque del fiume e del mare, fuse in un aggiogante enigma materico, che include anche lo strato uniforme, setoso, del cielo e quello screziato della sabbia [fig. 1]. Acqua, aria e terra, dunque, come elementi riconvocati negli anni da Antonioni in una combinatoria visionaria di climatescapes, tendenzialmente, autunnali, freddi e nebbiosi (Nowell-Smith 2015) – ben poco meridiani, come testimoniano le immagini tratte da film quali Cronaca di un amore (1950), La signora senza camelie (1953), Le amiche (1955), Il grido (1957), La notte (1961), Identificazione di una donna (1982), Al di là delle nuvole (1995).

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Sebbene La Montagne infidèle (1923) nasca come reportage, ci si rende subito conto che più che soddisfare il bisogno d’informazione e di istruzione previsto da questo genere di film, il lavoro di Epstein presenta una portata di valore teorico e non è un caso se di lì a qualche anno il cineasta pubblicherà il fondamentale Il cinematografo visto dall’Etna (1926). Si è qui scelto, in particolare, di strutturare in sette voci la riflessione sul paesaggio che attraversa il film e che si rivela coerente con la visione epsteiniana del rapporto tra il cinema e il mondo naturale poi espressa e sviluppata dal teorico francese negli scritti degli anni successivi. La voce ‘Paesaggio-teoria’ apre la nostra analisi ricordando come per Epstein il concetto di paesaggio conservi una matrice romantica filtrata però dal modernismo degli anni Venti e soprattutto sia connesso alla ricerca fotogenica nelle sue diverse articolazioni. Le altre voci entrano quindi nel dettaglio della fotogenia del paesaggio abbinandolo a termini tematici e formali salienti nel film e nella teoria del cinema di Epstein: ‘Paesaggio-primo piano’, ‘Paesaggio-personaggio’, ‘Personaggio-metamorfosi’, ‘Paesaggio-corpo’, ‘Paesaggio-suono’, ‘Paesaggio-storia’.

Although La Montagne infidèle (1923) was created as a reportage, one soon realises that more than satisfying the need for information and education expected of this kind of film, Epstein’s work has a theoretical value and it is no coincidence that a few years later the filmmaker would publish the seminal The Cinema Seen from Etna (1926). We have chosen here, in particular, to structure in seven headings the reflection on the landscape that runs through the film and which proves to be coherent with the Epsteinian vision of the relationship between cinema and the natural world later expressed and developed by the French theorist in his writings of the following years. The heading ‘Landscape-Theory’ opens our analysis by recalling how for Epstein the concept of landscape has its roots in Romanticism filtered however by the modernism of the 1920s and above all is connected to photogenic research in its various articulations. The other entries then go into detail about the photogénie of the landscape by matching it with thematic and formal issues in Epstein's film and film theory: ‘Landscape-close-up’, ‘Landscape-character’, ‘Landscape-metamorphosis’, ‘Landscape-body’, ‘Landscape-sound’, ‘Landscape-history’.

 

*Il testo è stato concepito congiuntamente dalle due autrici in tutte le sue parti. A fini pratici, Laura Vichi ha redatto le voci numero: 1. Paesaggio-teoria, 2. Paesaggio-primo piano, 6. Paesaggio-suono e 7. Paesaggio-storia. Chiara Tognolotti ha curato le voci numero: 3. Paesaggio-personaggio, 4. Paesaggio-metamorfosi e 5. Paesaggio-corpo. Un caloroso ringraziamento va alla Filmoteca de Catalunya per i fotogrammi de La Montagne infidèle (variante Pathé-KOK).

 

Per me, il luogo per pensare la più amata macchina vivente

fu quella zona di morte quasi assoluta che circondava,

a uno o due chilometri di distanza, i primi crateri.

Jean Epstein

Paesaggio-teoria [fig. 1]

Sin dai suoi primissimi film e scritti, Jean Epstein dedica un’attenzione particolare al paesaggio e al suo trattamento. Il cineasta, mutuando da Blaise Cendrars il concetto di ‘danza del paesaggio’ (Epstein [1921] 2019a, p. 236, traduzione nostra), individua in quest’ultima una soluzione eminentemente cinematografica legata a una visione modernista: il paesaggio, rilavorato dal cinema e reso fotogenico soprattutto grazie al movimento che le riprese e il montaggio gli conferiscono, provoca sensazioni fisiche e associazioni mentali che lo rendono interessante e coinvolgono lo spettatore (Branca, Busni, Vichi 2024). Nello stesso tempo, Epstein recupera la concezione romantica del paesaggio come «stato d’animo» (Epstein [1921] 2000, p. 92) e come proiezione dell’interiorità, integrandola alla visione determinata dal dispositivo cinematografico. In tal modo, l’esperienza romantica del sublime scaturita dall’esperienza dell’eruzione vulcanica diviene, grazie al cinema, un «sublime tecnologico» (Wild 2012, p. 121, traduzione nostra) che può essere visto, nell’unione delle sue componenti oggettiva e soggettiva, come una declinazione della fotogenia. A La Montagne infidèle (1923), che risponde alla richiesta di Pathé di mostrare l’Etna attraverso il cinema, Epstein sovrappone dunque la propria visione e aggiunge una dimensione teorica invertendo i termini della sua missione e firmando l’atto di nascita de Il cinematografo visto dall’Etna.

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