Questa idea si colloca in un posto imprecisato. Qualsiasi riferimento con la realtà è casuale.
Michelangelo Antonioni
Una volta le isole Eolie erano tanti vulcani…
Giulia (Dominique Blanchar), L’avventura (M. Antonioni, 1960)
Nel 1966 Michelangelo Antonioni gira Blow-Up, il film che traduce più fedelmente i termini del suo scetticismo nei confronti della realtà. Oltre a comprovare l’irrilevanza narrativa della detection (come topos emblematicamente atopico), l’indagine fallimentare del fotografo protagonista raddoppia a livello del contenuto l’ossessione formale nutrita dell’autore per il cosiddetto ‘mistero dell’immagine’:
Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà (Antonioni 2009, pp. 61-62).
Quello che vi propongo in questa scheda non è altro che un innocente esperimento critico di blow-up, messo in atto nel tentativo di scomporre una porzione di paesaggio rappresentato nel cinema antonioniano fino a ridurlo alla sua dimensione elementare. Qual è l’elemento, in assoluto, più presente?
Essendo il suo sguardo registico contaminato da potentissime infestazioni memoriali, una risposta plausibile potrebbe riguardare la natura selvaggia del Delta (felicemente eternata nel finale di Gente del Po, 1963-67, prim’ancora di diventare prerogativa neorealista per Visconti e Rossellini): le acque del fiume e del mare, fuse in un aggiogante enigma materico, che include anche lo strato uniforme, setoso, del cielo e quello screziato della sabbia [fig. 1]. Acqua, aria e terra, dunque, come elementi riconvocati negli anni da Antonioni in una combinatoria visionaria di climatescapes, tendenzialmente, autunnali, freddi e nebbiosi (Nowell-Smith 2015) – ben poco meridiani, come testimoniano le immagini tratte da film quali Cronaca di un amore (1950), La signora senza camelie (1953), Le amiche (1955), Il grido (1957), La notte (1961), Identificazione di una donna (1982), Al di là delle nuvole (1995).
E il fuoco?! Seppure, in apparenza, meno preponderante, si tratta di un elemento evocato dalla reiterazione (anche solo concettuale) di alcuni ambienti ‘soleggiati’, caratterizzati da un’iconografia canicolare, come il deserto e l’isola. Nel primo caso, si devono distinguere le aree desertiche effettive – Zabriskie Point (1970) e Professione: reporter (1974) [fig. 2] – dalle occorrenze di desertificazione più radicale (emozionale, metropolitana, industriale), come quelle riferibili a L’eclisse (1962) e, soprattutto, a Il deserto rosso (1964), in cui, com’è noto, non figura alcun deserto reale (men che meno ‘rosso’) e il titolo perde la consueta carica didascalica associabile ad altri lavori di Antonioni per iscriversi in un regime pittorico irrisolvibile, che corrisponde al ‘mondo totale’ (scarnificato, mutante, irrealistico) della personaggia nevrotica Giuliana (Monica Vitti). Prima di rintracciare concretamente i segni del fuoco in questi film, è necessario però soffermarsi sull’immagine dell’isola e sulla pellicola che, senza dubbio, ne ha fatto una sorta di perturbante icona misterica: L’avventura (1960), il cui titolo provvisorio, fino all’agosto del 1959, era per l’appunto L’isola, come risulta da un primo soggetto inedito (Vitella 2010, p. 71) [fig. 3]. Il riferimento è a Lisca Bianca, teatro della sparizione di Anna (Lea Massari), ma può essere più proficuamente esteso alla totalità della Sicilia, ossia alla Trinacria, luogo che richiama la peculiare geometria passionale espressa dal ménage tra Anna, Claudia (Monica Vitti) e Sandro (Gabriele Ferzetti): «Alludendo alla sua caratteristica forma triangolare, esso coniuga in sé sia la dimensione geometrica che quella geografica, dando così un’espressione cartografica alla forma del desiderio mediato» (Marcus 2015, pp. 264-265). Secondo Millicent Marcus, sussiste oltretutto un nesso abbastanza evidente tra le ‘inquadrature formalistiche’ che includono i profili delle isolette vulcaniche eoliane e quelle che, invece, attestano la triangolazione del desiderio tra i protagonisti. Più che l’isola in sé, si potrebbe azzardare che sia proprio il vulcano a rappresentare un qualche valore formale aggiunto, come effige verticale di alterità svettante sull’orizzonte acquatico, medium ancestrale (soglia, margine, passaggio) in grado di connettere l’interno con l’esterno, la terra addormentata con il segreto vivido del fuoco: «Il film rivela il paesaggio come se assorbisse i tempi stessi del mare e del vulcano che ne formano la geografia. Il tempo filmico è rallentato e trasformato in durata per fare posto a questo spazio. Si sente che L’avventura procede a ondate temporali geologiche» (Bruno 2015, p. 126). Non a caso, Antonioni comprende la sagoma innevata dell’Etna, opposta a un muro, nel celeberrimo fotogramma finale, in un senso che mira a inspessire geometricamente il perimetro dell’estraneità donna-uomo (nonché quello uomo-natura), pietrificandolo in una declinazione pietosa dell’essere e non essere (Bernardi 2002, p. 168): «Il muro corrisponde all’uomo e l’Etna corrisponde un po’ alla posizione della donna. Quindi il fotogramma è esattamente diviso in due; la metà del muro corrisponde alla parte pessimistica mentre l’altra metà a quella ottimistica. Ma il rapporto tra i due non so se sarà duraturo o no, ma è già un risultato che queste due persone non si separino. È un risultato già che la ragazza non sfugga all’uomo, ma resti lì e gli perdoni. Anche perché in un certo senso si scopre un po’ come lui» (Antonioni 2009, p. 34) [fig. 4].
Arrivati a questo livello del blow-up, è plausibile che in Antonioni il fuoco si possa ricondurre, principalmente, alla presenza del vulcano – come ideale ultimo baluardo sacro di scomposizione – o, in alternativa, alle apparizioni di alcuni suoi riconoscibili simulacri, che si impongono come parodia del paesaggio naturale e che vanno a popolare un portentoso catalogo simbolico e mitologico della contemporaneità (Bernardi 2022, pp. 177 e 181): il fungo-acquedotto dell’EUR ne L’eclisse, prodromo immaginifico di quell’incubo nucleare esemplificato dall’esplosione luminosa che chiude il lungometraggio e che, per certi versi, prefigura la deflagrazione definitiva di Zabriskie Point [fig. 5]; la foresta artificiale del Deserto rosso, fatta di imponenti ciminiere, lingue di fuoco e torri di raffreddamento, nel cui dedalo lo sguardo terrorizzato di Giuliana finisce per smarrirsi e per estroflettersi in un estremo atto di rivendicazione dogmatica [fig. 6].
[…] dietro di lei c’è in lontananza la grande ciminiera, il dio profano a cui l’uomo sacrifica senza sosta, come suggerisce la fiamma che appare a vampe alterne, che sembra anche un occhio cui è impossibile sfuggire. In effetti, la donna ha sempre più l’aria di voler fuggire da qualcuno che la guarda dall’alto. Le quattro soggettive sono stranamente monocrome, come un’allucinazione vera, sono a colori e non lo sono. Mostrano un piccolo paesaggio miniaturizzato, fra il nero e il grigio, nel quale sopravvive miseramente solo qualche resto, ricordi di colori soffocati, spenti, collinette, mucchi di cenere, un microcosmo di detriti metallici, tubi, ferri accartocciati, grigi brillanti, un ammasso di ceneri ancora fumanti che sembrano quasi un piccolissimo vulcano ancora attivo. Si tratta di un mucchietto di rifiuti o di un paesaggio del futuro? Chi guarda? (Bernardi 2002, p. 182).
Dopo un fugace passaggio eoliano sottoforma di malinconico remake apocrifo nel cortometraggio Ritorno a Lisca Bianca (1983), i vulcani si palesano nuovamente in Noto, Mandorli, Vulcano, Stromboli, Carnevale (1992), che Antonioni realizza per il Padiglione Italiano all’ExPO di Siviglia: qui il focus sulla conformazione (i)conica cede il passo a una scansione sopraelevata, tramite un sorvolo che gradualmente discende verso la superfice rocciosa per soffermarsi sul prodigio fotogenico delle bocche fumanti, in un ulteriore esercizio di blow-up che si arresta, ancora una volta, sul segno e non va oltre [fig. 7]. La forma del vulcano resiste alla scomposizione e sembra non rivelare la vera (ultima, assoluta, misteriosa) immagine del fuoco.
Anche quando l’Antonioni pittore astratto, negli anni Ottanta, prova ad assemblare i materiali più disparati e a ingrandirli, ciò che ottiene sono delle piccole ‘montagne incantate’: «Mi piacciono le montagne. Sono montagne immaginarie e quindi non si esauriscono mai» (Antonioni 2018, p. 292). Nell’ultima fase della sua lunghissima vita, contrassegnata dalla menomazione linguistica a seguito di un ictus, il «regista colorista» – come si autodefinisce in un vecchio articolo pubblicato nel 1947, Il colore non viene dall’America (Antonioni 2004, p. 195) – continua a dipingere e nel 2006, un anno prima di morire, espone i suoi quadri a Roma in una mostra intitolata Il silenzio a colori. Non stupisce individuare nel catalogo ben due opere dedicate alle sue adorate montagne di fuoco: Il vulcano (2003) e Colata lavica (2005). Nella prima, il colorista disegna il cono nero e lo incorona con un cumulo aranciato, probabilmente una nube di ceneri incandescenti, mentre ai lati il cielo è viola a metà (più scuro, ‘tonante’, a sinistra, lavanda-quarzo a destra). Lungo il fianco della montagna Antonioni piazza una macchia verde di vegetazione – un verde un po’ fangoso, come quello di Ravenna nel Deserto rosso – e ai piedi tornano uno strato di viola e uno arancione. L’impressione è che lo sguardo non trapassi il vulcano, ma che lo contempli dall’esterno e che quindi la base bicolore simuli le onde del mare, su cui si riflettono evidentemente le sfumature del cielo, il viola della metà tonante e l’ocra più caldo del fuoco. Il vulcano sarebbe pertanto un’isola, una montagna incantata sospesa sulla superficie dell’acqua, l’ennesima soglia triangolare in grado di troneggiare sull’orizzonte, ‘né in cielo né in terra’. O, chissà, il regista alla fine potrebbe essere riuscito a eliminare uno strato e a proiettarsi verso l’interno, trasfigurando il cono in un plumbeo camino e concependo la camera magmatica come una chiazza sulfurea. In questo secondo caso, il fuoco sarebbe verde, la roccia arancione e il vulcano viola (E. Antonioni 2006, p. 73). In Colata lavica, invece, l’astrazione è, senz’altro, maggiore, le forme meno definite, i colori più aciduli. Tornano il nero, l’arancio, il viola e il verde, si aggiungono l’ottanio e un marrone polveroso (rarefatto, sfumato), che riprende la consistenza della terra vulcanica e sul quale sono evidenti le tracce delle pennellate. Si intravedono almeno quattro potenziali coni-camini, incastrati sul margine tra l’elemento-fuoco, arancione, e la terra, marrone (E. Antonioni 2006, p. 156).
L’esperimento è concluso. Com’era prevedibile, non vi è stata alcuna identificazione e l’esito dell’indagine non ha fatto che riaffermare il mistero dell’immagine. Forse allora, parafrasando un passaggio tratto da uno dei suoi racconti (Antonioni 1983, p. 162), si può affermare che il fuoco per Antonioni è semplicemente un colore. Sconosciuto. ‘Che nessuno vedrà mai’.
Bibliografia
E. Antonioni (a cura di), Il silenzio a colori di Michelangelo Antonioni, Roma, Campisano Editore, 2006.
M. Antonioni, Quel Bowling sul Tevere, Torino, Einaudi, 1983.
M. Antonioni, Sul cinema, a cura di C. di Carlo, G. Tinazzi, Venezia, Marsilio, 2004.
M. Antonioni, Fare un film è per me vivere. Scritti sul cinema, a cura di C. di Carlo, G. Tinazzi, Venezia, Marsilio, 2009.
M. Antonioni, Il mio Antonioni, a cura di C. di Carlo, Fondazione Cineteca di Bologna, Bologna 2018.
S. Bernardi, ‘Antonioni: la perdita del centro’, in Id., Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia, Marsilio, 2002, pp. 109-212.
G. Bruno, Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema, tr. it., Milano, Johan & Levi Editore, 2015.
M. Marcus, ‘Trinacria: la forma del desiderio’, in A. Boschi, F. Di Chiara (a cura di), Michelangelo Antonioni. Prospettive, culture, politiche, spazi, Milano, Il Castoro, 2015, pp. 260-269.
G. Nowell-Smith, ‘«Se piove, mi comprerò un ombrello»: clima e paesaggio nei film di Antonioni’, in A. Boschi, F. Di Chiara (a cura di), Michelangelo Antonioni. Prospettive, culture, politiche, spazi, Milano, Il Castoro, 2015, pp. 243-248.
F. Vitella, L’avventura, Torino, Lindau, 2010.