Ed è vero che tu avevi troppa pelle. Ma, sotto tutti quei rivestimenti, come sapere di che cosa era fatta? Attorno a te, ti avviluppavano tante stoffe orizzonti che tu non conoscevi i tuoi bordi.
Luce Irigaray
Cara Eleonora, ho visto solo di recente il film Le amiche di Antonioni, che ormai possiamo considerare con certezza una delle poche persone veramente serie del nostro cinema. Non è qui mio compito fare apprezzamenti sul film, che del resto mi è piaciuto molto. Soltanto mi premeva fare presente un’impressione che ho avuto subito e che mi ha sbalordito: voglio dire il fatto che, pur trattandosi di un film di donne e d’amore, era un film di donne vestite. Ed io mi rivolgo a Lei, la protagonista, per manifestarLe tutta la mia ammirazione, da estendersi alle Sue colleghe, in considerazione del fatto che avete accettato di interpretare – di questi tempi – una storia che non prevedeva l’esibizione dei vostri recessi fisici, come elemento fondamentale dello spettacolo. Noi assistiamo, oggi, al trionfo incondizionato di un sesso da caserma, banale e stupido come non era dato immaginare. S’è creato, al cinema, un clima balneare dove la pelle è tutta al sole, ci si è abituati, i nudisti dicono che è un bene, solo il parroco crede di no, ma non sa che difende proprio quel mistero che ormai siamo costretti a reclamare a gran voce.
Chi scrive è Renzo Renzi, studioso di Michelangelo Antonioni, e la suddetta Eleonora, destinataria di questa spiritosa lettera-articolo, apparsa sulle pagine di ʻCinema Nuovoʼ, è ovviamente Rossi Drago, una delle protagoniste del film Le amiche (1955) [fig. 1]. Ho scelto di iniziare il mio excursus sulle donne di Antonioni da queste considerazioni, anche se in un’accezione puramente pretestuosa, senza tener conto del loro reale peso all’interno del contesto storico-sociale degli anni Cinquanta, per almeno due motivi. Il primo è che nel suo ʻelogio della donna vestitaʼ Renzi, oltre a chiamare in causa direttamente la pelle, utilizza la parola ʻmisteroʼ a proposito della femminilità, aspetto che sarà centrale nel prosieguo del discorso. Il secondo è che le sue parole mi hanno fatto tornare in mente una battuta abbastanza emblematica pronunciata nel film da una delle amiche, la civettuola Mariella (Annamaria Pancani) la quale, nella famigerata sequenza della gita al mare, seduce Cesare (Franco Fabrizi) facendo infuriare Momina (Yvonne Fourneaux). I due vengono sorpresi ad amoreggiare in un anfratto della spiaggia e, nel ricomporsi, Cesare suggerisce a Mariella di darsi una sistemata perché ha il vestito sporco di sabbia. La risposta della giovane si ricollega in qualche modo a quanto scritto da Renzi: «Lo sai qual è il vestito della donna? La pelle» [fig. 2]. Lungi dal voler problematizzare la questione dell’habitus, che ci porterebbe inevitabilmente a esondare nello sconfinato territorio dei rapporti tra il cinema di Antonioni e l’universo della moda, mi limito qui a constatare che il mistero della femminilità antonioniana si inscrive in un apparato visivo di stratificazioni, tramite cui diventa possibile esaminare le caratteristiche formali della sua poetica. È il corpo della donna in sé ad essere ʻstratoʼ – derma, tessuto, superficie, involucro, filtro, specchio – all’interno di un flusso sinestetico, tensivo ed enigmatico, in cui risulta annullata la differenza convenzionale tra esterno e interno, unione e separazione, oggettivo e soggettivo, personaggio e paesaggio, sfondo e figura, vero e falso, aisthesis e senso. Da questo punto di vista, si tratta dello stesso mistero che, secondo Antonioni (come si evince dalla celebre dichiarazione di poetica contenuta nel testo del 1964 Prefazione a «sei film»), è riferibile all’immagine cinematografica e alla potenza fotogenica vincolata alla sua ontologia: «Noi sappiamo che sotto questa immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto questa un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà». L’esperienza del mondo è segnata da un’ambiguità radicale, dal disaccordo creativo tra percezione e immaginazione, dall’insanabile lacerazione dei legami emozionali ed esistenziali, dalla separazione tra i corpi (e le menti), dalla metamorfosi perpetua del senso e dall’impossibilità di comprendere in maniera univoca le parole, le persone e le cose. Per questa ragione la realtà deve essere costantemente interrogata, decifrata, letta per gradi, trasfigurata, dilatata, sottoposta a insindacabile blow-up, attraverso una processualità visiva aperta, libera, scettica, problematica, ʻestraniataʼ, per dirla con Lorenzo Cuccu: «[…] una forma di visione le cui strutture o articolazioni spazio-temporali svolgono una funzione per così dire “autorappresentativa”, nel senso che servono a rendere percepibile e a fare protagonista dell’immagine filmica l’esperienza visiva che l’autore viene compiendo sul mondo visibile, nelle sue varie possibilità di articolazione e di specificazione e dunque nella sua mobilità e pluridirezionalità di relazioni».
La donna tout court è senz’altro uno dei fenomeni più indagati dallo sguardo critico antonioniano, la sorgente immaginifica per eccellenza, un soggetto da ritrarre all’infinito (ʻsenza fineʼ). L’intento del regista è quello di «scomporla in gesti, atteggiamenti, sguardi. Risalire alla femminilità assoluta, individuarla nel senso recondito, fissarla in immagini», fin dai tempi in cui Antonioni scrive da critico per il ʻCorriere padanoʼ – un periodo di certo fondamentale per ciò che riguarda la formazione e l’elaborazione del suo pensiero estetico . In un articolo del 1939, intitolato appunto Ritratto, la penna del (non ancora) maestro ferrarese dipinge con accuratezza il profilo di una superba sconosciuta – di cui tutti parlano – in tre momenti distinti, ognuno legato a un diverso grado di definizione della sua immagine e contrassegnato da un’ineluttabile incapacità di penetrarne il mistero. Il primo si focalizza sulla voce, una voce ʻgiovane in quanto vivaʼ: «Uscivano le parole con furia allegra e ognuna aveva il marchio d’una personalità immatura, ma stigmatizzata, schizzata come un disegno a carboncino». Il secondo momento si concentra invece sulla bizzarria dei suoi occhi luminosi e inafferrabili: «Quando si posa, lo sguardo rimbalza e rientra. È lo sguardo di chi non ha nulla da osservare e rimane inattivo in un’inezia vigilante e sospesa. Tutto dentro». Infine Antonioni arriva a ‘scorticare’ l’ultimo strato di quella figura, nella speranza di riuscire ad andare oltre, di scorgere qualcos’altro con l’ausilio del suo occhio interiore: «Oggi, sconosciuta, mi sedeva accanto a guardare un quadro. E mi piaceva immaginarmi i suoi pensieri estetici del momento; […] La sentii fanciulla, in un prato. Mi parve che a stringerla dovesse avere la morbidezza delle corolle, a guardarla la tenerezza dei mattini». La sconosciuta del ritratto oppone resistenza: nella progressione accelerata e fuori controllo del desiderio (in)espresso dallo sguardo maschile – che dal pretendere in primis di venire semplicemente ricambiato arriva ad auspicarsi perfino l’amore, «Solo una cosa m’importava ormai: che m’amasse, m’amasse» – resta opaca, separata, al fondo inclassificabile. Il suo è un ʻcorpo di fangoʼ (per citare il titolo di un racconto antonioniano che ha per protagonista un’altra sconosciuta «indecifrabile. Come se fosse vuota. Un impermeabile vuoto, gettato via il corpo. Questo corpo di fango») e rappresenta una prefigurazione verbale delle immagini filmiche a venire: il corpo femminile è, nella singolare visione dell’autore, un guscio contenitore di alterità in grado di schermare ogni tentativo di identificazione e determinazione, una massa sottile che perturba il vettore della radiazione conoscitiva, un microcosmo osservabile solo a livello poetico.
Nel cinema di Antonioni le donne svolgono il prezioso ruolo di personaggi-guida, soprattutto nella fase in cui il suo stile si è espresso nella forma più pura – per intenderci, i capitoli della quadrilogia dei sentimenti, essendo le opere antecedenti ancora in parte influenzate dai residui formali del cinema popolare. La donna è infatti, per natura, una creatura più profondamente consapevole e ricettiva dell’uomo, dotata di ʻpenetrazione emozionaleʼ, disposta ad accogliere la realtà, a percepirne l’armonia recondita e a trovare delle risposte. Cuccu rileva che il carattere privilegiato del personaggio-guida: «[…] è indizio di una modificazione strutturale assai importante che permette ad Antonioni di attribuirgli, liberandolo pienamente, non solo il proprio punto di vista, ma anche il proprio modo di vedere, la propria sensibilità originaria». Chiaramente l’identificazione non può essere totale, permane un margine misterioso di distacco fondato su un’ulteriore strato di diversità, una nuova pelle femminile mutante che avviluppa fatalmente la differenza di base tra i due sessi. Personagge come Anna e Claudia (L’avventura, 1960), Lidia e Valentina (La notte, 1961), Vittoria (L’eclisse, 1962) e Giuliana (Il deserto rosso, 1964) sono diverse, anticonvenzionali, originali precorritrici della soggettività femminile ʻimprevistaʼ degli anni Settanta, come sottolinea in proposito Lucia Cardone: «[…] queste donne problematiche, irriducibili alla norma patriarcale, centrate come sono su se stesse, sul loro desiderio, sulla lieve materialità dei loro corpi». Impreviste, complesse e moderne finanche a livello fisiognomico, essendo la loro pelle fotogenica cucita sulle corporeità di attrici come Monica Vitti – eccessiva, piena di voce, lentiggini e capelli (biondi e ʻfolliʼ) – e Jeanne Moreau – sensuale, oscura e vibrante di verità . Si tratta di donne che non si lasciano incorporare passivamente dall’impianto elusivo che sorregge il narcisismo predatorio degli uomini, essendo loro stesse capaci di eludere o di smascherare l’elusione. Donne che, per rimanere fedeli al loro mistero, hanno ancora il coraggio di sentire, di sentirsi, di somigliare alle altre donne, di restare da sole, di passeggiare, di dire «non ti amo più» e di pretendere di sentirselo dire, di perdere tempo, di entrare in dialogo con le cose toccandole, di entrare nel paesaggio, di giocare, di cantare, fino ad arrivare addirittura a sparire o, più terribilmente, a perdonare.
Ad Antonioni non resta che interrogarle, a partire da un’insistenza quasi tattile sulle loro figure stratificate (fulgidi grovigli di capelli, occhi, volti e schiene), come un cieco nato che recupera la vista e ha bisogno del supporto degli altri sensi per riconoscere quello che vede, restituendoci poeticamente la verità di questa nuova percezione nel margine fotogenico compreso tra lo sguardo e la pelle. Si pensi, ad esempio, alla celebre sequenza de La notte in cui Lidia (Jeanne Moreau) rivela al marito (Marcello Mastroianni) l’identità dell’uomo che le ha scritto una lettera d’amore – lettera che ricorda le atmosfere di Ritratto: «Preferivo averti così come una cosa che nessuno poteva togliermi perché ero il solo a possederla, una tua immagine per sempre». Come evidenziato da Sandro Bernardi: «Le nove inquadrature che mostrano Lidia sono una specie di sinfonia d’amore fra lei e la cinepresa. Questa la guarda, la scruta, la studia, di profilo sul fondo alberato, poi da dietro spiando la sua scollatura e la spalla nuda, poi di fronte, mentre ancora legge, le fa il ritratto con il teleobiettivo che lascia gli alberi dietro di lei fuori fuoco, poi osserva le mani che tengono amorosamente la lettera, in primissimo piano, poi ancora di fronte e di profilo, fino alle fatidiche, tremende parole: “È tua…”» [figg. 3-4-5-6-7]. Lidia è la sconosciuta del ritratto, l’eterno simulacro di un enigma che attraverso l’immagine cinematografica ottiene la sua redenzione estetica.
Bibliografia
R. Renzi, ʻElogio della donna vestitaʼ, Cinema Nuovo, n. 78, a. V, 10 marzo 1956, p. 152.
M. Antonioni, ‘Prefazione a «sei film»’, in Id., Fare un film è per me vivere. Scritti sul cinema, a cura di C. di Carlo, G. Tinazzi, Venezia, Marsilio, 2009, pp. 56-65; 61-62.
L. Cuccu, La visione come problema. Forme e svolgimento del cinema di Antonioni, Roma, Bulzoni, 1973, p. 137.
Id., ʻLe donneʼ, in Il mio Antonioni, a cura di C. di Carlo, Bologna, Fondazione Cineteca di Bologna, 2018, pp. 100-103; 102.
Id., ʻRitrattoʼ, in G. Tinazzi, ʻAntonioni “ritrattista”ʼ, Bianco&Nero, n. 4, luglio-agosto 2001, pp. 101-121; 108-109.
Id., ʻQuesto corpo di fangoʼ, in Il mio Antonioni, a cura di C. di Carlo, Bologna, Fondazione Cineteca di Bologna, 2018, pp. 315-329; 319.
L. Cardone, ʻIl Soggetto Imprevisto e la «tetralogia dei sentimenti» di Michelangelo Antonioniʼ, in Sguardi differenti. Studi di cinema in onore di Lorenzo Cuccu, a cura di L. Cardone e S. Lischi, Pisa, ETS, 2014, pp. 139-150; 143.
S. Bernardi, ʻLo sguardo tattileʼ, in Id., Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia, Marsilio, 2002, pp. 172-177; 176.