1.1. Le perturbanti: Monica, Valeria e le altre tra la messa in scena del malessere e la ricerca della felicità

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Monica, Valeria e le loro personagge. Cinema d’autore e cinema di attrici. Attrici autrici, dalla regia alla scrittura. Figlie che hanno saputo confrontarsi con l’‘ombra’ delle madri ma che spesso non sanno essere madri. Donne alla finestra, come nei melodrammi hollywoodiani, ma qui le finestre si schiudono su paesaggi inconsueti, su scenari di alterità, spazi che appartengono al perturbante, aperti, come direbbe Lacan, all’irruzione del Reale, su una scena che, scrive Graziella Berto (2002), separa il soggetto dal proprio desiderio lasciando sorgere la beanza di uno sguardo stupito di fronte a un mondo che è il luogo dell’Altro. Claudia, di spalle, apre la finestra a Lisca Bianca sul mistero dell’amica scomparsa [fig. 1]; Vittoria, ancora di spalle, contempla il fungo dell’Eur, fuori della modernità e della minaccia atomica ma anche di una libertà tutta da esplorare, mentre la finestrella nella vecchia casa di Piero, forse abitata da fantasmi, è un’ulteriore figura di raddoppiamento – la fugace comparsa di un volto femminile nella finestra di fronte [fig. 2] – che ci fa slittare dalla presenza del mimo, tanto cara ad Antonioni, a quella unheimlich del sosia e alla dimensione fantastica di molta letteratura femminile (l’eco di un gotico che rimane in film come Il Castello in Svezia [R. Vadim, 1963] o in Il mistero di Oberwald [M. Antonioni, 1980] o, ancora, Un castello in Italia [V. Bruni Tedeschi, 2013] dove il passato è il vissuto dell’attrice-autrice); Giuliana guarda dalla camera di Corrado la notte nella quale fuggirà quando è «riuscita a essere una moglie infedele» (Il deserto rosso, M. Antonioni, 1964); Lisa decrea il suo mondo dalle sbarre della prigione perché possa esserci per lei una ‘seconda volta’ [fig. 3]; Carmen osserva con agire protettivo e amoroso gli uomini a cui è legata dalle vetrine del bar in cui lavora [fig. 4]; Angela scopre il suono di un violino che la allontanerà dalla esattezza rassicurante dei numeri ma solo dopo aver conosciuto Sara e il suo per ora non rimediabile dolore (La parola amore esiste, M. Calopresti, 1998); Carla, ma solo per caso, il ‘suo’ teatro (Il capitale umano, P. Virzì, 2013); Beatrice il ritorno sperato di Donatella quando la cura nasce dalla relazione (La pazza gioia, P. Virzì, 2016). Finestre che non sono più figure che imprigionano il desiderio ma passaggi attraverso i quali si dispiega un nuovo sentire sia pure segnato dall’incertezza e al di là dei quali si delineano, come scrivono Treder e Chiti, spazi di libertà e di divenire. Se nel volume curato da Treder, Chiti, Farnetti (2002), al quale il titolo del nostro saggio si ispira, oggetto dell’analisi è il rovesciamento simbolico del concetto freudiano operato dalle scritture femminili, dove il perturbante appare quale occasione ‘imprevista’ per tentare quelle che Farnetti definisce forme inaudite di rappresentazione di sé e del proprio desiderio, il perturbante che due attrici come Monica Vitti e Valeria Bruni Tedeschi, più volte avvicinate dalla critica, iscrivono nei film che le vedono protagoniste non si conclude appunto nel consueto paradigma dell’angoscia, generando piuttosto, come scrive ancora Farnetti, gentilezza, compassione, affetti, amore e persino il sorriso.

Gli intrecci tra femminile e sofferenza mentale, tra erotismo e follia sono parte di una lunga storia di scritture (normative e non) e di rappresentazioni. Immagini sopravviventi di un atlante warburghiano che Didi-Huberman ha risfogliato dall’immagine di Ninfa alle isteriche di Charcot alle Histoire(s) godardiane (1988-1998). Così il trauma della guerra emerge in Rossellini come in Resnais e in Godard attraverso lo sguardo non morto-non vivo dei sopravvissuti, sguardo che De Baecque ritrova nelle pazienti di Europa ’51 (R. Rossellini, 1952) che Ingrid/Irene, forse santa come Weil, in una visione insostenibile quanto quella della fabbrica («Ho creduto di vedere dei condannati») si appresta a soccorrere, come, poi, nelle degenti dell’ospedale di Hiroshima mon amour (A. Resnais, 1959). Uno stesso cammino di alterità unisce le protagoniste di Rossellini e quelle di Antonioni (il risveglio di Karin sulla cima dello Stromboli [1950] e quello di Claudia nel capanno di Lisca Bianca, il finale di Viaggio in Italia [R. Rossellini, 1951] e quello di L’avventura), ma affette queste ultime da un ulteriore trauma, quello che si innesca in un’Italia alle soglie del boom. Se le donne dei film della tetralogia antonioniana tradurrebbero il trauma dell’autore-soggetto maschile attraverso, come diceva Pasolini, la visione nevrotica delle protagoniste (che egli sostituirebbe con la sua «visione delirante di estetismo» – è la forma della soggettiva libera indiretta), questa netta demarcazione di gender che li abita, questo affermare, come scrive Vighi (2006) sulla scorta di Lacan, che il rapporto sessuale non esiste, non fa i conti con i desideri delle donne e con le potenze delle interpreti, con le loro capacità anche corporee di esplorare i possibili, comunicando alle spettatrici il bisogno di varcare i confini di un mondo (quello del ‘familiare’, appunto, e della casa) diventato troppo stretto. Qui lo scambio con l’altra è ancora accennato, cercato e spesso destinato a naufragare o a trovare in lei una perturbante sosia di se stessa [fig. 5]: dalla camicetta di Anna che Claudia indossa in L’avventura – quanto più esplicito lo scambio in Anni di piombo (M. von Trotta, 1981) – alla passante bionda del finale di L’eclisse.

Nel momento in cui l’irrompere della modernità trova nel corpo femminile il luogo di una nuova narrazione traumatica, Vitti, a Ravenna, può divenire un colore (come afferma nel suo Sette sottane) e le sue lacrime, come Gertrud (C.T. Dreyer, 1964), ma anche come Anna – soggetto imprevisto, la definisce Lucia Cardone (2014) tornando a Carla Lonzi – in L’avventura, «finire nella giunta» o, come scrive Vighi, nell’inconscio del film, e poi in un altro film (quando Grifi cerca nel cinema la presenza del reale), ma può anche allargare le braccia per volare atterrando nel reame della commedia. L’attrice «della solitudine e dell’alienazione» acquista la forza del riso di Medusa. Negli anni d’oro della commedia, promotrice, come scrive Canova, del cambiamento che investe la società italiana e luogo di formazione di una nuova identità nazionale (di cui irride le aree di arretratezza) e di inedite identità di genere, e ancora negli anni Settanta e Ottanta Vitti riprende il filo della comicità (si pensi a un film del 1958, anno d’inizio nella cronologia del miracolo italiano, come Le dritte [M. Amendola]) vestendo i panni di raffinate donne borghesi o di impulsive popolane, di sciantose e di ragazze con la pistola, di personaggi storici travolti da amorose passioni. In questo percorso le altre non sono assenti: la madre ‘chiave di tutto’ dalle braccia venate d’azzurro e il profumo di cannella, le amiche, i suoi stessi ruoli, le prese di posizione (il voto a favore del divorzio annunciato su Grand Hotel). Relazioni incompiute, specchianti, interrotte o favoleggiate (da La notte [M. Antonioni, 1961], in cui Valentina e Lidia nel loro breve incontro parlano incomprensibili a Giovanni, a, appunto, Il deserto rosso, dove il ritorno al femminile e alla natura è possibile solo in una fiaba, in una configurazione spaziale opposta a quella di una Ravenna post-industriale, colorata, come scrive Giuliana Bruno, dalle emozioni della protagonista) quando il nuovo movimento delle donne non c’è ancora e il simbolico materno è ancora da scoprire. Lisa, che come tante altre dalla nuova sinistra è passata alla lotta armata, in La seconda volta esprime forse la necessità di questo passaggio, dove la casa è la cella e le amiche compagne di prigione. Gli anni di piombo sembrano lontani, ma è stata la paura del terrorismo a spingere i genitori altolocati di Bruni Tedeschi a emigrare in Francia negli anni della sua infanzia. Lisa e Valeria: le due facce della medaglia infine riappacificate (si ricordi il caso Marina Petrella).

Nel cinema della contemporaneità la relazione tra donne è, come afferma Muraro (2011), il circolo della mediazione dove la vita può essere creata e ricreata. Se Giuliana di Il deserto rosso affidava alla favola e alla vocalità delle sirene il rapporto mancato con il suo bambino, Vittoria di La balia (M. Bellocchio, 1999) riuscirà a tenerne tra le braccia uno quando il confronto con Annetta e con la sua identità la porterà lontano da suo marito (e dai discorsi della psichiatria), da casa, da suo figlio e dalla balia [fig. 6]. Proprio Bruni Tedeschi sceglierà di coinvolgere attivamente la madre biologica in quella sorta di autobiografia che è Un castello in Italia dando inizio alla tardiva carriera di attrice di quest’ultima [fig. 7]. Ancora, come quelle di Vitti, figure del malessere, spesso donne borghesi insoddisfatte, prigioniere del matrimonio o di una casa di cura in un mondo dominato dal godimento e dal denaro, le personagge di Bruni Tedeschi guardano alla commedia e non vogliono morire di tristezza: come Angela e Sara (La parola amore esiste) o come Beatrice e Donatella, in fuga dalla comunità terapeutica, alla ricerca, semplicemente, della felicità [fig. 8].

 

 

Bibliografia

E. Chiti, M. Farnetti, U. Treder (a cura di), La perturbante. Das Unheimliche nella scrittura delle donne, Perugia, Morlacchi, 2003.

G. Berto, Freud, Heidegger: lo spaesamento, Milano, Bompiani, 2002.

L. Muraro, Tre lezioni sulla differenza sessuale e altri scritti, Napoli, Orthotes, 2011.

F. Vighi, Traumatic Encounters in Italian Cinema. Locating the Cinematic Inconscious, Bristol, Intellect, 2006.

L. Cardone, ‘Il soggetto imprevisto e la tetralogia dei sentimenti di Michelangelo Antonioni’, in L. Cardone, S. Lischi (a cura di), Sguardi differenti. Studi di cinema in onore di Lorenzo Cuccu, Pisa, ETS, 2014, pp. 139-150.

G. Bruno, Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema [2002], trad. it. di M. Nadotti, Milano, Mondadori, 2006.