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Palookaville (1995) è il lungometraggio d’esordio di Alan Taylor. Il film integra tre racconti di Italo Calvino in una trama più estesa, in cui l’asse geografico e tematico di attanti, luoghi e situazioni viene traslato dall’Italia del secondo dopoguerra alla periferia americana degli anni Novanta. Ne deriva un’operazione traduttiva non lineare, che da una parte mantiene lo spirito originale dei racconti, dall’altra lo contamina attingendo a un ampio bacino di riferimenti e citazioni tipici del cinema postmoderno, dando vita a una brillante e disillusa narrazione sulla fine del sogno americano.

Palookaville (1995) is Alan Taylor's debut feature film. It integrates three short stories by Italo Calvino into a larger plot, where the geographical and thematic axes of actors, places and situations shift from post World War II Italy to the American suburbs of the 1990s. The result is a non-linear translation operation, which on the one side keeps the original spirit of the short stories, and on the other mixes it with elements typical of post-modern cinema, resulting in a brilliant and disechanted portrayal of the end of the American Dream.

1. «With thanks, admiration and apologize to Italo Calvino»

Dall’opera di Italo Calvino emerge una non comune sensibilità per il rapporto tra parole e immagini. La sua indagine – iniziata in forma narrativa con La giornata di uno scrutatore (1953) e L’avventura di un fotografo (1955), proseguita negli scritti sul cinema[1] e culminata nella quarta delle Lezioni americane, sulla visibilità – anticipa questioni che saranno affrontate nei decenni successivi dagli studi sulla cultura visuale. La predisposizione di Calvino a interrogarsi sui problemi dello sguardo trova un sintomo precoce negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, con la scoperta del cinema hollywoodiano, unico nutrimento per il «bisogno di evasione, di proiezione, di fuga dal caos privo di senso del proprio universo quotidiano».[2] Il cinema è uno stimolo costante per un autore che vive d’immagini e d’immaginazione, tanto da diventare, come scrive Maria Rizzarelli, quel macchinario in grado di moltiplicare all’infinito i «dispositivi del racconto sui quali si arrovellerà la sua fantasia di scrittore maturo».[3]

Non è un mistero quanto Calvino abbia tratto ispirazione dal cinema; eppure, desta una certa sorpresa scoprire che solamente un esiguo numero delle sue opere abbia percorso la strada inversa, migrando sullo schermo. In sinergia con gli altri contributi raccolti in questo numero di «Arabeschi», si cercherà di delineare il panorama di tali adattamenti e di coglierne le peculiarità. In Italia, oltre a L’avventura di un soldato – capitolo diretto da Nino Manfredi all’interno del film a episodi L’amore difficile (1963) – si annoverano Il cavaliere inesistente (1970) di Pino Zac; il Marcovaldo (1970) a puntate di Giuseppe Bennati; e l’Avventura di un fotografo (1983) diretto da Citto Maselli. Se da una parte vi sono trasposizioni esplicite e dichiarate – che riprendono integralmente le opere di Calvino – dall’altra vi sono casi in cui il processo traduttivo va oltre schemi e formule consuete. Palookaville (1995) di Alan Taylor è uno di questi. Frutto della collaborazione con il produttore Uberto Pasolini, l’opera prima del regista statunitense prende le mosse da tre diversi racconti calviniani: Furto in una pasticceria, L’avventura di un bandito e Desiderio in novembre, inseriti all’interno di una trama più estesa e unitaria, che trasla l’asse geografico di attanti e situazioni dall’Italia del secondo dopoguerra alla periferia americana degli anni Novanta.

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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →

«Vendetemi uno dei tre appartamenti, io non potrei mai disturbare: non ci sono quasi mai!» (Martellini, 2022). L’interesse di Monica Vitti per la Casa Papanice di Via Marchi al Nomentano sembra essere piuttosto emblematico del ‘domesticare’ dell’attrice. Progettato da Paolo Portoghesi, il villino rappresenta una riuscita sintesi di arte e natura: un capolavoro post-moderno e libertario che si presta decisamente ad accogliere le prassi abitative dell’attrice. Il «venire a patti» (Meloni, 2014) con lo spazio domestico della commediante sembra infatti essere tutt’altro che ordinario: i passi di Vitti segnano traiettorie insolite, in grado di abbattere potenzialmente le divisioni spaziali più tradizionali o di determinare una caduta della separazione tra sfera pubblica e privata. A partire dallo studio delle commedie interpretate dall’attrice, l’intervento si propone di indagare l’abitare cinematografico vittiano: un agire ‘micro-domestico’ che sembra porsi in connessione con il livello macro-societario’ nonché con l’impatto di questo «corpo imprevisto» (Cardone, 2017) sulle strutture identitarie.  

 

1. Nel cuore della società

È il 1982 e a raccontare a una giornalista del periodico La stampa della difficile intesa con il proprio appartamento romano è Monica Vitti. L’abitazione è «la sola e unica casa da ragazza», presa in affitto dopo aver lasciato la famiglia negli anni in cui Vitti diviene la musa dell’incomunicabilità del cinema antonioniano:

Vitti, in realtà, di case (sebbene cinematografiche) ne abiterà molte negli anni a venire. La collaborazione con il regista segna infatti, con L’avventura (M. Antonioni, 1960), l’esordio di una figura «spersonalizzata» (Gundle, 2007, pp. 301-302) e dall’immagine assai diversa rispetto a quella delle colleghe affermate nel Paese: «Ero tutta sbagliata per il cinema di quegli anni. Ero bionda, lentigginosa, alta, secca, il seno non ce l’avevo e avevo la vita larga, e questa voce qui. Era sbagliato il mio naso, la mia faccia non era italiana» (Mori, 1985, p. 165). Portando avanti un percorso cominciato a teatro (Senza rete, 1954; Sei storie da ridere, 1956; I capricci di Marianna, 1958) e in film comici diretti da registi come Edoardo Anton (Ridere! Ridere! Ridere!, 1954), Glauco Pellegrini (Una pelliccia di visone, 1956), Mario Amendola (Le dritte, 1958), Alessandro Blasetti (La lepre e la tartaruga, primo episodio dell’opera collettiva Le quattro verità, 1963) o Roger Vadim (Il castello in Svezia, 1963), Vitti imboccherà successivamente la strada che la condurrà alla commedia all’italiana. Il disco volante (T. Brass, 1964) la vedrà vestire i panni di una moglie fedifraga e inaugurerà una lunga serie di film di successo (come La ragazza con la pistola di Mario Monicelli, 1968) [fig. 1] nonché di sodalizi noti – in particolare con Alberto Sordi, attore con cui esploderanno «scintille, di comicità e sintonia, tanto da bucare lo schermo» (Borsatti, 2022, p. 109) –, che le faranno conquistare la fama di mattatrice del genere.

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  • [Smarginature] Pelle e pellicola. I corpi delle donne nel cinema italiano →

Stupide bambolette imbalsamate: con queste parole Anna Magnani, nei panni della canzonettista Loletta Prima, in Teresa Venerdì (1941), definisce le donne per le quali il medico dell’orfanotrofio, interpretato da De Sica, la tradisce. È quindi un personaggio da lei interpretato ad esprimere l’enorme divario esistente tra il proprio modo di interpretare una donna in carne ed ossa e quello falso e artificioso delle tante commesse, segretarie private, telefoniste che popolano il cinema di regime. Questo breve intervento analizza come il corpo di Magnani, presente sul grande schermo dell’epoca in brevi apparizioni, abbia determinato, all’interno soprattutto del genere della commedia, la nascita di una performance erotica, destinata ad imporsi con prepotenza nel cinema del dopoguerra che archivierà le Ê»stupide bombolette imbalsamateʼ. L’utilizzo del termine Ê»corpo comicoʼ in riferimento all’attrice è da intendersi non tanto come modalità espressiva per scatenare la risata bensì come corpo che, attraverso la parodia o l’atteggiamento caricaturale, desacralizza o nega un certo tipo di fisicità erotica (la vamp su tutte) proponendone un’altra altrettanto sensuale ed eccedente, ma alternativa. Magnani, in questo cinema lontano dalla realtà, viene quasi sempre reclutata per ruoli marginali e brillanti che a teatro e soprattutto nella rivista l’hanno resa famosa. Come numerosi suoi colleghi comici (Totò, Fabrizi, Govi, Macario, Musco, Galli), adatta con naturalezza per il nuovo medium i saperi teatrali appresi, modificandoli in minima misura: i registi dell’epoca infatti spesso erano poco propensi a rischiare e preferivano riproporre sul grande schermo performances collaudate sui palcoscenici della penisola. Così tra tutti i personaggi della ribalta (fioraia del Pincio, Cappuccetto Rosso, Anna Karenina, Fata turchina, prostituta in vestaglia), ecco Magnani recitare spesso sul grande schermo la parte della sciantosa con cappelli di piume e boa di volpi [fig. 1]: una figura che incarna al meglio una tipologia femminile inedita di donna emancipata, slegata da vincoli familiari, che svolge una professione moralmente riprovevole e che si esprime in maniera del tutto anticonvenzionale, non risparmiando cadute vertiginose nella volgarità. Se la pellicola di regime espelle la rappresentazione del corpo femminile come principio di seduzione, come afferma Grignaffini, è vero tuttavia che spesso spetta a figure muliebri – talvolta marginali, come Magnani – esprimere le tensioni interne alla sessualità e alla femminilità negate.

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  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

Raccontare le donne, in letteratura, in pittura, come in qualunque altro tipo di espressione artistica, sino almeno a buona parte del Novecento, è stato troppo spesso appannaggio degli uomini e quando qualche donna ha trovato le condizioni e il coraggio per raccontarsi e raccontare (cosa che per fortuna è accaduta) lo ha fatto perlopiù con una vena tragica o malinconica, esprimendo con toni drammatici i propri sentimenti a lungo soffocati. Lo ha raccontato anche Virginia Woolf, inventandosi il personaggio di Judith, la sorella di Shakespeare. D’altro canto, a partire dall’età moderna, il mondo del teatro ha avuto la particolarità di annoverare tra le schiere delle proprie artiste anche spiriti energici e ironici, capaci di giocare con le maschere del proprio sé e di sperimentare, con l’ausilio della finzione scenica, una qualche forma di libertà sociale e sessuale, travalicando (non solo con ruoli en travesti) i confini che separano i generi. Ecco che, per restare in ambito italiano, comiche dell’arte, come la ben nota Isabella Andreini, sono alla base della costruzione dell’identità scenica contemporanea, prefigurata dalle caratteriste del teatro dei ruoli ottocentesco (soprattutto all’interno del repertorio shakespeariano e goldoniano), sino ad arrivare alle sperimentatrici di nuove forme comico-popolaresche e dialettali come Dina Galli, Titina De Filippo, Ave Ninchi. Ma raramente queste attrici sono state anche autrici, scrittrici, registe, insomma autonome sia nella creazione del proprio stile recitativo sia nella costruzione delle storie e nella definizione del quadro poetico ed estetico entro cui collocarle. Naturalmente l’ultima nata tra le arti visive ha potuto contare su un numero maggiore di artiste consapevoli del proprio ruolo, non più soltanto mere interpreti, muse ispiratrici di registi affermati o volti Ê»che bucano lo schermoʼ, ma colte esegete della realtà, Ê»poetesseʼ della visione o ancora, col passare del tempo, esperte di ripresa e montaggio, dunque artefici di un processo e di un prodotto audiovisivo che Ê»inquadraʼ il mondo femminile con un occhio diverso, da una nuova prospettiva.

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Monica, Valeria e le loro personagge. Cinema d’autore e cinema di attrici. Attrici autrici, dalla regia alla scrittura. Figlie che hanno saputo confrontarsi con l’‘ombra’ delle madri ma che spesso non sanno essere madri. Donne alla finestra, come nei melodrammi hollywoodiani, ma qui le finestre si schiudono su paesaggi inconsueti, su scenari di alterità, spazi che appartengono al perturbante, aperti, come direbbe Lacan, all’irruzione del Reale, su una scena che, scrive Graziella Berto (2002), separa il soggetto dal proprio desiderio lasciando sorgere la beanza di uno sguardo stupito di fronte a un mondo che è il luogo dell’Altro. Claudia, di spalle, apre la finestra a Lisca Bianca sul mistero dell’amica scomparsa [fig. 1]; Vittoria, ancora di spalle, contempla il fungo dell’Eur, fuori della modernità e della minaccia atomica ma anche di una libertà tutta da esplorare, mentre la finestrella nella vecchia casa di Piero, forse abitata da fantasmi, è un’ulteriore figura di raddoppiamento – la fugace comparsa di un volto femminile nella finestra di fronte [fig. 2] – che ci fa slittare dalla presenza del mimo, tanto cara ad Antonioni, a quella unheimlich del sosia e alla dimensione fantastica di molta letteratura femminile (l’eco di un gotico che rimane in film come Il Castello in Svezia [R. Vadim, 1963] o in Il mistero di Oberwald [M. Antonioni, 1980] o, ancora, Un castello in Italia [V. Bruni Tedeschi, 2013] dove il passato è il vissuto dell’attrice-autrice); Giuliana guarda dalla camera di Corrado la notte nella quale fuggirà quando è «riuscita a essere una moglie infedele» (Il deserto rosso, M. Antonioni, 1964); Lisa decrea il suo mondo dalle sbarre della prigione perché possa esserci per lei una ‘seconda volta’ [fig. 3]; Carmen osserva con agire protettivo e amoroso gli uomini a cui è legata dalle vetrine del bar in cui lavora [fig. 4]; Angela scopre il suono di un violino che la allontanerà dalla esattezza rassicurante dei numeri ma solo dopo aver conosciuto Sara e il suo per ora non rimediabile dolore (La parola amore esiste, M. Calopresti, 1998); Carla, ma solo per caso, il ‘suo’ teatro (Il capitale umano, P. Virzì, 2013); Beatrice il ritorno sperato di Donatella quando la cura nasce dalla relazione (La pazza gioia, P. Virzì, 2016). Finestre che non sono più figure che imprigionano il desiderio ma passaggi attraverso i quali si dispiega un nuovo sentire sia pure segnato dall’incertezza e al di là dei quali si delineano, come scrivono Treder e Chiti, spazi di libertà e di divenire. Se nel volume curato da Treder, Chiti, Farnetti (2002), al quale il titolo del nostro saggio si ispira, oggetto dell’analisi è il rovesciamento simbolico del concetto freudiano operato dalle scritture femminili, dove il perturbante appare quale occasione ‘imprevista’ per tentare quelle che Farnetti definisce forme inaudite di rappresentazione di sé e del proprio desiderio, il perturbante che due attrici come Monica Vitti e Valeria Bruni Tedeschi, più volte avvicinate dalla critica, iscrivono nei film che le vedono protagoniste non si conclude appunto nel consueto paradigma dell’angoscia, generando piuttosto, come scrive ancora Farnetti, gentilezza, compassione, affetti, amore e persino il sorriso.

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