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Il contributo analizza la trasposizione filmica animata di Pino Zac del 1970 dell’omonimo romanzo di Italo Calvino, Il cavaliere inesistente (Einaudi, 1959). Il lungometraggio, caratterizzato dall’uso dell’animazione in tecnica mista (usando cioè disegni, immagini derivate e attori reali), riflette contenuti e approcci alla creatività fantastica di Calvino ampliandone soprattutto il portato visuale. Attraverso il lavoro sui passaggi dalla cornice alla materia del racconto in particolare, accentuando il ruolo critico della personaggia-narratrice suor Teodora (la cavaliera Bradamante), l’uso di differenti materie espressive, delle riprese e del montaggio contribuiscono a un’espansione della lettura di genere dell’opera, adattata al mutato contesto storico-culturale.

The contribution examines Pino Zac's 1970 animated film adaptation of Italo Calvino's novel of the same title, Il cavaliere inesistente (Einaudi, 1959). The feature film, characterised by the use of animation in mixed technique (i.e. using drawings, derived images and real actors), reflects the contents and approaches to Calvino's fantastic creativity, especially by expanding its visual scope. Through the work on the transitions from the narrative frame to the subject matter of the story in particular, emphasising the critical role of the character/narrator Sister Theodora (the knightess Bradamante), the use of different expressive materials, filming and editing contribute to an expansion of the genre reading of the work, adapted to the changed historical and cultural context.

Nel 1970 il regista e sceneggiatore Pino Zac (insieme a Tommaso Chiaretti) scelse di adattare il romanzo di Italo Calvino Il cavaliere inesistente (Einaudi, 1959) nella forma di un lungometraggio caratterizzato dall’animazione in tecnica mista, ossia dall’impiego di attori reali, disegni e un insieme di immagini derivate riutilizzate creativamente. La storia narrata da una ‘finta’ suor Teodora è ambientata al tempo di Carlo Magno e dei Paladini e ruota intorno al tentativo del disciplinatissimo Agilulfo, un’entità intangibile contenuta in un’armatura, di far riconoscere il proprio ruolo di cavaliere, essendo stato accusato di essere un usurpatore a causa del dubbio status di Sofronia, la donna da lui salvata. Per dimostrare il proprio onore Agilulfo parte alla ricerca di Sofronia, accompagnato da altri personaggi: l’accusatore Torrismondo, la guerriera Bradamante (innamorata di Agilulfo), Rambaldo (innamorato di Bradamante) e Gurdulù (uno scudiero un po’ pazzoide). Nel finale, la narratrice si rivelerà nelle vesti di Bradamante e accoglierà l’amore verso Rambaldo, inizialmente rifiutato.

L’opera di Pino Zac ricalca quasi pedissequamente l’intreccio e i dialoghi del romanzo calviniano, al punto da aver ricevuto delle critiche per l’eccessiva aderenza al testo sorgente.[1] Lo stesso Calvino, che vide il film soltanto quando fu terminato, dichiarò di essersi sentito spettatore più che «autore […] per la fedeltà totale e alla lettera degli episodi e dello spirito».[2] Lo scrittore, tuttavia, riconobbe che la tecnica mista adoperata da Zac, con riprese dal vero e l’animazione di disegni, dipinti e vari materiali figurativi, aveva contribuito a definire una rilettura personale. «Nello stesso tempo [aggiunse Calvino] è una sua interpretazione visuale. Non soltanto dei personaggi, delle situazioni e degli ambienti ma anche di tutte le associazioni che il testo comporta».[3]

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Il contributo esamina l’esperienza di Calvino di spettatore e critico del cinema, centrale nella sua formazione intellettuale. Attraverso il mirato recupero di plurime testimonianze dello scrittore – lettere, articoli di giornale, inchieste, reportage, fino ai fondamentali Autobiografia di uno spettatore e Lezioni americane – si ricostruisce il quadro dinamico del suo rapporto con la settima arte. Dall’amore assoluto negli anni della giovinezza all’allontanamento nel periodo del neorealismo e della nouvelle vague, fino al recupero dei vecchi film in età matura e all’angoscioso conforto tratto dalle opere del coetaneo Fellini: il regista con cui «il cinema della distanza che aveva nutrito la nostra giovinezza è capovolto definitivamente nel cinema della vicinanza assoluta».

The contribution examines Calvino’s experience as a spectator and film critic, central to his intellectual formation. Through the targeted recovery of writer’s multiple testimonies – letters, newspaper articles, enquiries, reportages, up to the fundamental Autobiografia di uno spettatore and Lezioni americane – the dynamic cadre of his relationship with the seventh art is reconstructed. From the absolute love in his youth to the estrangement in the period of neorealism and the nouvelle vague, up to the recovery of the old films in his maturity and the anguished comfort drawn from the works of his contemporary Fellini: the director with whom «the cinema of distance that had nourished our youth is definitively overturned in the cinema of absolute closeness».  

 

D: E qualcosa sui problemi della diffusione del libro, data la tua esperienza di ufficio-stampa di una grande casa editrice?

R: Che barba. Mi chiederai anche dei rapporti tra cinema e letteratura?

Italo Calvino intervistato da Gian Antonio Cibotto, 1954[1]

 

1. Uno sguardo ‘obliquo’

La parabola di Italo Calvino è esemplare di quella che Oreste Del Buono battezzò ‘generazione di burro’, cresciuta sotto il fascismo e che era sui vent’anni all’epoca dell’entrata in guerra. Amore assoluto per il cinema (americano) negli anni della giovinezza, sostituito in breve da quello per la letteratura; distanza rispettosa e sospettosa nel periodo del neorealismo e delle nouvelle vague; disincanto e recupero dei vecchi film in età matura; conforto angoscioso nelle opere del coetaneo Fellini: un percorso che troviamo in misura variabile in Del Buono stesso, Sciascia, Baldini, Bufalino, Ginzburg, Zanzotto…

Calvino ha esemplificato questo percorso in uno dei testi più belli che uno scrittore italiano abbia mai dedicato al cinema, Autobiografia di uno spettatore, del 1974. Il cinema, dice Calvino lì e altrove, scompare dal mio orizzonte col ’45 e con la Resistenza. Da lì, riemergo scrittore. Il posto del cinema viene preso per sempre dalla letteratura.[2]

Il cinema tornerà però in realtà ad accompagnare, amplificare, acutizzare alcuni momenti di svolta nel cammino dello scrittore. In particolare, il suo riemergere periodico ci aiuta a vedere le crepe nell’immagine olimpica e malinconica del Calvino in equilibrio sulla realtà, nel «pathos della distanza», per usare la formula di Cesare Cases riguardo al Barone rampante.[3]

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Il saggio prende in esame le riflessioni di Calvino sul cinema italiano del dopoguerra, sulla  rappresentazione della Resistenza, sul rapporto tra cinema e letteratura, sulle forme del realismo e del romanzo, sulle  pratiche spettatoriali e sui  miti divistici. 

The essay examines Calvino's reflections on post-war Italian cinema, on the representation of the Resistance, on the relationship between cinema and literature, on the forms of realism and the novel, on spectatorial practices and stardom.

1. In principio era lo sguardo

La visività come motore dell’opera di Calvino è stata più volte messa in rilievo sia dall’autore sia dalla critica, insieme al quadro intermediale che orienta costantemente la sua attività narrativa e saggistica. Nella recente selezione dei suoi scritti intitolata significativamente Guardare, Marco Belpoliti enuncia già in copertina tutti i campi con cui Calvino entra in dialogo: Disegno, cinema, fotografia, arte, paesaggio, visioni e collezioni.[1] Il rapporto con il cinema, in particolare, è diventato materia di diversi libri dal 1990 a oggi.[2]

Lo scrittore per primo ha tracciato le coordinate della sua esperienza cinematografica in Autobiografia di uno spettatore che introduce nel 1974 la raccolta di quattro sceneggiature di Fellini.[3] Riattivando la memoria dell’adolescenza, ci racconta che il cinema hollywoodiano classico ha rappresentato per lui un itinerario di formazione all’insegna dell’«evasione», dello «spaesamento», dell’immersione in un mondo altro rispetto a quello di tutti i giorni, non importa se pieno di «mistificazione» e «menzogna».

Il trauma bellico costituisce uno spartiacque tra questa esperienza di spettatore perso in un mondo immaginario, avventuroso e fiabesco e quella di autore e ‘attore’ partecipe della cultura del dopoguerra. Alla «distanza» si sostituisce la ‘vicinanza’ ai fatti e ai personaggi rappresentati, l’immersione nel modo della contingenza e della memoria appena trascorsa.

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Nel 1983 Francesco (Citto) Maselli traspone per la Rai il racconto di Italo Calvino L’avventura di un fotografo. In questo saggio analizzo i modi e il linguaggio filmico con cui Maselli rielabora il tema e lo stile di Calvino; attraverso una interpretazione benjaminiana del racconto, cerco di mostrare come il film sia costruito su tre dominanti: l’aspetto metapoetico e metacinematografico, il ruolo centrale dei mezzi di riproduzione del reale, e la problematizzazione del discorso erotico.

In 1983, Francesco (Citto) Maselli adapted Italo Calvino’s short story L’avventura di un fotografo for Italian TV network RAI. This essay examines Maselli’s approach and cinematic language in reinterpreting Calvino's themes and style. Employing a Benjaminian interpretation of the story, I explore how the film is constructed around three key elements: the metapoetic and metacinematographic aspects, the central role of reality's means of reproduction, and the problematization of erotic discourse.

1. Benjamin, o dell’avventura

Gli amori difficili sembra essere il libro di Calvino più amato dai registi: nel corpus, in verità assai smilzo se rapportato alla produzione dell’autore e al suo successo internazionale, degli adattamenti cinematografici la maggior parte proviene da questa raccolta: nel 1962 Mario Monicelli trasporta L’avventura dei due sposi nel primo dei quattro episodi di Boccaccio ’70 (vale a dire Renzo e Luciana); l’anno dopo Nino Manfredi gira L’avventura di un soldato (sempre come episodio, questa volta de L’amore difficile); nel 1973 per la televisione tedesca (la ZDF) Carlo di Carlo realizza dall’Avventura di un lettore l’Abenteuer eines lesers; in Messico, dieci anni dopo, Ana Luisa Liguori gira il cortometraggio Amores dificiles.

Infine, nella tarda serata di sabato 9 aprile 1983, la Terza Rete Rai, all’interno del ciclo 10 registi italiani, 10 racconti italiani, manda in onda Avventura di un fotografo, girato, scritto e montato da Francesco (Citto) Maselli. È un lungometraggio particolare, forse fra i più singolari di Maselli (certamente il più interessante fra le trasposizioni degli Amori), e molto distante dal formato dello sceneggiato televisivo tratto da un’opera letteraria: si tratta di un film quasi muto, in cui alle parole molto più spesso si sostituiscono leitmotiv musicali e primissimi piani e l’azione si sfilaccia nella stasi dei personaggi chiusi all’interno di un ambiente domestico. Non è la prima volta che Maselli si confronta con un adattamento, già nel 1963 aveva portato sullo schermo Gli indifferenti di Moravia, nel 1980 realizza quattro puntate televisive da Tre operai di Carlo Bernari e proseguirà con Il compagno di Pavese nel 1998. Esperienze che fanno ben presto maturare nel regista la consapevolezza che «realizzare per immagini un testo letterario è evidentemente scrivere un altro testo»,[1] e in particolare quando si ha a che fare con un racconto così poco narrativo (tanto che nasce, a sua volta, come trasposizione del saggio del 1955, La follia nel mirino).[2] Non a caso le strategie messe a punto tre anni prima con Tre operai, nel caso di Calvino, vengono rovesciate: qui Maselli «tramuta i limiti del piccolo schermo in un’occasione per imbastire un racconto incentrato preminentemente sul materiale plastico e su apparecchiature meccaniche, che contendono ai personaggi in carne e ossa il primato».[3] Il racconto di Calvino, infatti, nella forma di una quête conoscitiva non fa altro che mettere alla prova (questo è il senso proprio dell’avventura del titolo) una serie di possibilità (tutte destinate al fallimento fino all’ultima paradossale soluzione) per catturare e conoscere la realtà attraverso la fotografia e, di conseguenza, per «rappresentare, razionalizzandola, la separazione dal reale che costituisce il nucleo tematico della raccolta e di ogni singola “avventura”».[4] La soluzione a questa «questione di metodo»,[5] com’è noto, è fotografare altre fotografie: ma non si tratta di una mise en abyme o di un approdo alla follia del personaggio, come pure spesso è stato detto. È la scoperta, piuttosto, di un metodo combinatorio che si basa sulla casualità (il caso, d’altronde, è uno degli elementi principali dell’avventura), e sull’accostamento di «un mucchio di frammenti d’immagini private, sullo sfondo sgualcito delle stragi e delle incoronazioni».[6] Quella che scopre Antonino Paraggi, il protagonista del racconto, dunque, è una forma di rappresentazione che si basa, se vogliamo, sull’utilizzo di materiali di secondo grado, che vengono rifunzionalizzati attraverso il montaggio dotandosi, così, anche di una funzione sociale (o etico-politica), in grado di unire i destini individuali a quelli generali. La scoperta di Antonino, insomma, è quella dell’allegoria del Dramma barocco e dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Benjamin.

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Palookaville (1995) è il lungometraggio d’esordio di Alan Taylor. Il film integra tre racconti di Italo Calvino in una trama più estesa, in cui l’asse geografico e tematico di attanti, luoghi e situazioni viene traslato dall’Italia del secondo dopoguerra alla periferia americana degli anni Novanta. Ne deriva un’operazione traduttiva non lineare, che da una parte mantiene lo spirito originale dei racconti, dall’altra lo contamina attingendo a un ampio bacino di riferimenti e citazioni tipici del cinema postmoderno, dando vita a una brillante e disillusa narrazione sulla fine del sogno americano.

Palookaville (1995) is Alan Taylor's debut feature film. It integrates three short stories by Italo Calvino into a larger plot, where the geographical and thematic axes of actors, places and situations shift from post World War II Italy to the American suburbs of the 1990s. The result is a non-linear translation operation, which on the one side keeps the original spirit of the short stories, and on the other mixes it with elements typical of post-modern cinema, resulting in a brilliant and disechanted portrayal of the end of the American Dream.

1. «With thanks, admiration and apologize to Italo Calvino»

Dall’opera di Italo Calvino emerge una non comune sensibilità per il rapporto tra parole e immagini. La sua indagine – iniziata in forma narrativa con La giornata di uno scrutatore (1953) e L’avventura di un fotografo (1955), proseguita negli scritti sul cinema[1] e culminata nella quarta delle Lezioni americane, sulla visibilità – anticipa questioni che saranno affrontate nei decenni successivi dagli studi sulla cultura visuale. La predisposizione di Calvino a interrogarsi sui problemi dello sguardo trova un sintomo precoce negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, con la scoperta del cinema hollywoodiano, unico nutrimento per il «bisogno di evasione, di proiezione, di fuga dal caos privo di senso del proprio universo quotidiano».[2] Il cinema è uno stimolo costante per un autore che vive d’immagini e d’immaginazione, tanto da diventare, come scrive Maria Rizzarelli, quel macchinario in grado di moltiplicare all’infinito i «dispositivi del racconto sui quali si arrovellerà la sua fantasia di scrittore maturo».[3]

Non è un mistero quanto Calvino abbia tratto ispirazione dal cinema; eppure, desta una certa sorpresa scoprire che solamente un esiguo numero delle sue opere abbia percorso la strada inversa, migrando sullo schermo. In sinergia con gli altri contributi raccolti in questo numero di «Arabeschi», si cercherà di delineare il panorama di tali adattamenti e di coglierne le peculiarità. In Italia, oltre a L’avventura di un soldato – capitolo diretto da Nino Manfredi all’interno del film a episodi L’amore difficile (1963) – si annoverano Il cavaliere inesistente (1970) di Pino Zac; il Marcovaldo (1970) a puntate di Giuseppe Bennati; e l’Avventura di un fotografo (1983) diretto da Citto Maselli. Se da una parte vi sono trasposizioni esplicite e dichiarate – che riprendono integralmente le opere di Calvino – dall’altra vi sono casi in cui il processo traduttivo va oltre schemi e formule consuete. Palookaville (1995) di Alan Taylor è uno di questi. Frutto della collaborazione con il produttore Uberto Pasolini, l’opera prima del regista statunitense prende le mosse da tre diversi racconti calviniani: Furto in una pasticceria, L’avventura di un bandito e Desiderio in novembre, inseriti all’interno di una trama più estesa e unitaria, che trasla l’asse geografico di attanti e situazioni dall’Italia del secondo dopoguerra alla periferia americana degli anni Novanta.

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