D: E qualcosa sui problemi della diffusione del libro, data la tua esperienza di ufficio-stampa di una grande casa editrice?
R: Che barba. Mi chiederai anche dei rapporti tra cinema e letteratura?
Italo Calvino intervistato da Gian Antonio Cibotto, 1954[1]
1. Uno sguardo ‘obliquo’
Italo Calvino ha esemplificato il proprio rapporto con il cinema in uno dei testi più belli che uno scrittore italiano abbia mai dedicato al cinema, Autobiografia di uno spettatore, del 1974. Il cinema, dice Calvino lì e altrove, scompare dal mio orizzonte col ’45 e con la Resistenza. Da lì, riemergo scrittore. Il posto del cinema viene preso per sempre dalla letteratura.[2]
Il cinema tornerà però in realtà ad accompagnare, amplificare, acutizzare alcuni momenti di svolta nel cammino dello scrittore. In particolare, il suo riemergere periodico ci aiuta a vedere le crepe nell’immagine olimpica e malinconica del Calvino in equilibrio sulla realtà, nel «pathos della distanza», per usare la formula di Cesare Cases riguardo al Barone rampante.[3]
La Resistenza lo aveva messo al mondo come uno scrittore dai tratti definiti: subito si notò però che Calvino si distingueva, nel racconto della lotta partigiana, per uno sguardo obliquo, ‘stevensoniano’ e ‘ariostesco’. In opposizione tacita, anche, con la letteratura e il cinema di quegli anni. Alcune parole su Roma città aperta, in una lettera a Marcello Venturi, sono eloquenti: