D: E qualcosa sui problemi della diffusione del libro, data la tua esperienza di ufficio-stampa di una grande casa editrice?
R: Che barba. Mi chiederai anche dei rapporti tra cinema e letteratura?
Italo Calvino intervistato da Gian Antonio Cibotto, 1954[1]
1. Uno sguardo ‘obliquo’
Italo Calvino ha esemplificato il proprio rapporto con il cinema in uno dei testi più belli che uno scrittore italiano abbia mai dedicato al cinema, Autobiografia di uno spettatore, del 1974. Il cinema, dice Calvino lì e altrove, scompare dal mio orizzonte col ’45 e con la Resistenza. Da lì, riemergo scrittore. Il posto del cinema viene preso per sempre dalla letteratura.[2]
Il cinema tornerà però in realtà ad accompagnare, amplificare, acutizzare alcuni momenti di svolta nel cammino dello scrittore. In particolare, il suo riemergere periodico ci aiuta a vedere le crepe nell’immagine olimpica e malinconica del Calvino in equilibrio sulla realtà, nel «pathos della distanza», per usare la formula di Cesare Cases riguardo al Barone rampante.[3]
La Resistenza lo aveva messo al mondo come uno scrittore dai tratti definiti: subito si notò però che Calvino si distingueva, nel racconto della lotta partigiana, per uno sguardo obliquo, ‘stevensoniano’ e ‘ariostesco’. In opposizione tacita, anche, con la letteratura e il cinema di quegli anni. Alcune parole su Roma città aperta, in una lettera a Marcello Venturi, sono eloquenti:
Ho letto i tuoi pezzi su “Rinascita”. Sono piaciuti molto alla base, ma guarda che sono troppo melodrammatici. […] Ti dico, io ho letto il racconto col cuore in gola, come ho visto col cuore in gola Roma città aperta; e non ti saprei dire se è brutto o bello, né il film né il racconto, sono cose che ti prendono per forza, ma tutti son buoni a prendere per forza, capisci? Basta far sgozzare madri e padri e far rivivere determinati stati d’animo, ma non è questo che vogliamo, capisci?[4]
La lettera è del 5 gennaio 1947, Calvino ha appena ultimato Il sentiero dei nidi di ragno e il film di Rossellini gli serve come esempio perfetto di ‘ciò che non vogliamo’: l’immediatezza di fatti e di emozioni, ‘il melodrammatico’.
Degli altri film neorealisti non farà quasi parola, se non come termine di paragone un po’ stizzito per la letteratura[5] e in un brillante reportage dal set di Riso amaro, in cui è più che altro conquistato dall’avvenenza di Silvana Mangano («parola d’onore, la più bella ragazza che io abbia mai visto»)[6] e ironizza sul gesto del regista De Santis di avviticchiarsi il ciuffo in mezzo al cranio («è lo stesso gesto che fa Cesare Pavese mentre scrive, che sia un segno distintivo della scuola realistica?»).[7] Semmai, è attratto dall’ironia brancatiana di Anni difficili di Zampa[8] e, già nel ’53 vorrebbe «una buona serie di drammi popolari e di farse popolari di produzione media», «una buona narrativa d’avventure e un buon cinema d’avventure».[9] Certo, dietro c’è anche la pubblicazione recente di Letteratura e vita nazionale di Gramsci, che aveva innescato, anche tra i critici di cinema, un notevole dibattito. Ma c’è anche dell’altro, e Calvino lo ha confessato poche righe più su:
Forse sto invecchiando (ha 29 anni, NdA): vedo i film con lo stesso atteggiamento con cui leggo i manoscritti del mio ufficio in casa editrice. A pensarci bene è terribile: come uno che se ne sta da solo e legge. Ma questa è la fine del cinema. […] Cinema vuol dire sedersi in mezzo a una platea di gente che sbuffa, ansima sghignazza, succhia caramelle, entra, esce, magari legge le didascalie forte come al tempo del muto; il cinema è questa gente, più una storia che succede sullo schermo.[10]
Questo è anche e soprattutto il ritratto di un rapporto con il popolo, con l’Italia, che sta mutando. Calvino guarda un popolo che guarda un film, e in mezzo a questo pubblico non vede più se stesso. La sottile angoscia di queste righe tornerà spesso, ogni volta che Calvino, nel volgersi al cinema, intravedrà i segnali di contraddizioni, idiosincrasie, rimozioni che gli appartengono profondamente.
A cominciare dall’addio al PCI nel 1956, che lui, a parte il documento ufficiale di addio, racconta pubblicamente per parabola e allegoria (La gran bonaccia delle Antille) ma anche traslandolo curiosamente al cinema, in un paio di significative occasioni. Nel 1957 interviene su Cinema nuovo in una discussione che segna la messa in crisi del realismo socialista in ambito cinematografico, ed è forse la prima messa in discussione esplicita del Calvino di ‘prima’ da parte del Calvino ‘di dopo’, partendo dal proprio viaggio in Unione Sovietica:
Ho visto La caduta di Berlino a Mosca nel 1951. A me è piaciuto. Tornato in Italia ne ho parlato bene, forse ne ho anche scritto (in realtà no, NdA). Tutti quelli che l’avevano visto, compagni o no, mi davano addosso, e io lo difendevo. Per me il film era – ed è, non mi pare d’aver da cambiare opinione – un’illustrazione dei fatti della guerra con lo stile d’un carretto siciliano o d’un cartellone del teatro dei pupi. […]
Sul film la penso ancora come prima […], però con la piccola differenza che lo credo un film fondamentalmente reazionario, e reazionario credo il suo linguaggio, in quanto ispirato a un modo intellettualistico, paternalistico e folkloristico di considerare il “gusto popolare”. È stato proprio questo tipo di stilizzazione, forse, il vero corrispondente stilistico dello “stalinismo”, la vera involuzione della letteratura e dell’arte progressista non solo in Urss ma in tutta Europa.[11]
Queste riflessioni appaiono ancora più interessanti se le leggiamo insieme a un articolo speculare di poco più di un anno dopo, su un film che in Italia Calvino è tra i pochissimi a difendere, L’infernale Quinlan di Orson Welles.
Lo scrittore è perentorio: nessuno si è accorto che questo «è un film su Stalin»,[12] l’allegoria di un «pessimo poliziotto ma ottimo detective».[13] Come dire, commenta Calvino, «un pessimo governante ma pur sempre un rivoluzionario che vedeva giusto»: qualcosa, comunque, che il protagonista può dire «dopo che l’ha fatto fuori, finalmente».[14] Orson Welles «è il primo che finora abbia tentato di sgarbugliare il romanzone d’appendice nel quale è racchiusa la tragedia dei nostri tempi».[15]
2. Il gioco del silenzio
All’epoca Calvino si accinge a scrivere il volume che chiude il trittico dei Nostri antenati. Ed ha appena completato La speculazione edilizia, al centro di un ideale ciclo di racconti dell’inettitudine (da La formica argentina, 1951, a La giornata di uno scrutatore, 1963) in cui un protagonista si trova sempre più disadattato davanti alle sfide che l’Italia avviata verso il boom gli propone. La casa, il lavoro culturale, la politica sono altrettanti banchi di prova che confermano l’incapacità di personaggi desiderosi di inserirsi nel flusso della storia.
Il fallimento di Quinto Anfossi a governare e cavalcare la trasformazione mettendosi in società con un terragno impresario edile (ex partigiano…) viene accompagnata, in un declinare sempre più mesto, da un parallelo fallimento come sceneggiatore, dopo aver abbandonato la rivista che due suoi amici intellettuali vogliono metter su:
Sul finire dell’inverno Quinto trovò un lavoro al cinema, a Roma. Lasciò la redazione della rivista, litigando con Bensi e con Cerveteri. Il mondo romano era prodigo e spregiudicato; il produttore era uno che trovava le centinaia di milioni da un giorno all’altro; si viveva sempre in comitiva, i fogli da diecimila andavano come se fossero lirette, le sere si passavano in trattoria, poi a bere a casa dell’uno e dell’altro. A Quinto faceva male bere, ma finalmente era vita. Quattrini non ne aveva ancora visti molti, ma ormai era nel giro.[16]
Poi il film si sposta a Cannes per gli esterni, e Quinto si muove tra lì e Roma:
A settembre il produttore italiano fallì, il film fu comprato da una nuova casa di un grande trafficante d’aree fabbricabili, che s’affrettò a finire il film in economia. Quinto non fu più chiamato; le sue mansioni di “assistente alla sceneggiatura” furono ritenute superflue. Credeva d’aver da prendere ancora dei quattrini, ma gli dimostrarono che secondo il contratto non gli spettava più niente.[17]
La speculazione edilizia e il cinema: i due simboli (uno negativo e uno positivo, nell’opinione comune) di quegli anni e ancor più di quelli a venire, stingono nel racconto di Calvino in un’aura comune di fallimento e di squallore. È quella in effetti la stagione di massimo coinvolgimento dei letterati italiani nel cinema, ed è una stagione di crisi e relativo silenzio per Calvino, che pubblica e scrive poco («Io forse non scrivo più e vivo bene lo stesso», scrive a Suso Cecchi D’Amico nel maggio del ’61, e con Goffredo Parise, tre anni dopo, si dilunga sulla giustezza del silenzio)[18]: dei due libri del ’63, Marcovaldo raccoglie in parte testi del periodo precedente, e per La giornata di uno scrutatore l’autore, tra inquieto e sornione, dichiara: «il mio silenzio continua. In questo libro, do solo delle notizie sul mio silenzio».[19]
In questo ripensamento della propria posizione, in attesa di spiccare letteralmente il volo con la svolta cosmicomica, Calvino è in realtà, come mai prima, attento osservatore del cinema, e di quello italiano in particolare. I film di Fellini, Antonioni, Visconti gli sono vicini, troppo vicini nei temi, nei tentativi di raccontare la nuova borghesia con un realismo problematico, e il suo atteggiamento sta ancora una volta tra l’irritato, l’agonistico e il perplesso. Ne danno testimonianza le risposte alle inchieste sul tema che di frequente venivano sottoposte all’epoca agli scrittori: lì misura la propria distanza dai tre film fondamentali del ’60 (L’avventura, La dolce vita, Rocco e i suoi fratelli),[20] si dichiara nettamente «contrario ai film tratti da opere letterarie»,[21] torna sulla peculiare maniera di Antonioni di dar conto dei sentimenti,[22] svicola sui migliori film dell’anno 1964,[23] apprezza I pugni in tasca.[24] Il confronto costante col cinema torna nelle prime lettere a Chichita, dove si dà conto, più ancora che di letture, dell’incontro, nel giro di un anno e mezzo, con film come L’eclisse, Jules e Jim, Mamma Roma, 8 ½, Il disprezzo, Le mani sulla città. E col film tratto da L’avventura di un soldato, davanti al quale Calvino è colto da un disagio che stiamo imparando a riconoscere:
Non so dire se è bello o brutto. Mi faceva una strana sensazione, come se sullo schermo ci fossi io che mi avevano filmato senza che me ne accorgessi. È molto fedele al racconto ma vedendolo mi dimenticavo d’aver scritto il racconto e mi pareva si trattasse direttamente di me.[25]
3. Verso il cinema della vicinanza
Tutto precipita in quel testo mirabile, spiazzante e illuminante che è l’Autobiografia di uno spettatore. Per la pubblicazione di quattro sceneggiature degli anni ’60 da parte di Einaudi, Federico Fellini chiede che a scrivere l’introduzione sia Calvino. Lo blandisce, lo corteggia, lo convince. Il cinema lo interessa solo fino agli anni ’50? Benissimo, dice Fellini: proprio quello che volevo.[26]
Nel ’74 Calvino è in un altro momento di passaggio. Ha alle spalle Il castello dei destini incrociati, un libro che «ha cominciato a odiare» e che porta a un punto di non-ritorno un filone combinatorio: se a metà degli anni ’60 Calvino era nella condizione di voler «reimparare a raccontare», adesso è in quella di «reimparare a scrivere».[27] Passati i cinquant’anni, mentre vive a Parigi dove recupera frammenti di vecchi film nei cineclub,[28] trova una residenza estiva a Roccamare, comincia la collaborazione al Corriere della sera e prova testi autobiografici esitanti e densissimi: Dall’opaco, Ricordo di una battaglia e questo.
Alle richieste di Fellini, risponderà infatti con un testo di una ventina di pagine, e di Fellini si parla solo nelle ultime tre. E non è il Fellini dei testi presentati in volume, ma quello del film più recente, uscito pochi mesi prima: Amarcord.
Nei mesi precedenti all’estate in cui lavora all’Autobiografia di uno spettatore, Calvino scrive anche un testo su una mostra di Giulio Paolini, primissimo incunabolo di quel che sarà Palomar.[29] E proprio negli stessi giorni si trova davanti l’apparizione della Storia di Elsa Morante, che cerca di leggere a modo suo, in termini di «romanzesco» e di «enciclopedia»,[30] ‘giustificando’ quel modo di narrare così scandalosamente lontano dalla propria pratica letteraria. Quel che riesce a fare con Morante (spiegare, tradurre nel proprio linguaggio, esorcizzare), però, Calvino non riesce a farlo con Fellini: che è più pienamente suo coetaneo, maschio, e che, regista anziché scrittore, lo aggredisce su un terreno in cui lui è meno corazzato: perché ci ha meno teorizzato su, e più ancora perché è il luogo rimosso del proprio amore d’infanzia, della propria negata autobiografia.
E allora lo scrittore si arrende. Si arrende all’autobiografia (per la prima e ultima volta la parola campeggia in un suo titolo), e soprattutto al fatto che questa autobiografia gli riporti, a lui che si vuole disincarnato giocatore di tarocchi, eremita a Parigi e membro dell’Oulipo, l’immagine (inquieta e sessuata) di un ‘italiano’; di più: di un ‘meridionale’, nel senso più ampio. Lo stregone Fellini gli fa apparire davanti un fascista in calzoni corti, e il Calvino nato tutto armato dalla testa della Resistenza appare a se stesso anche nato dai lombi del fascismo, come nei racconti dell’Entrata in guerra ma senza lo sfumato bassaniano e l’implicita coscienza che quello era un passaggio destinato a bruciare sull’altare della lotta partigiana.
Certo, ‘quel’ cinema di cui Calvino fa l’elegia era anzitutto senso, razionalità, forma. È il cinema hollywoodiano limpidissimo degli anni ’30, quando «solo ciò che vedevo sullo schermo possedeva le proprietà di un mondo, la pienezza, la necessità, la coerenza»,[31] però turbato da continue inquietudini (la pioggia nei film che dà l’angoscia, quando si sente che fuori piove davvero: piccola immagine potentissima)[32] e da un erotismo mai così soverchiante.
Calvino ribadisce:
Cos’era stato dunque allora il cinema, in questo contesto, per me? Direi: la distanza. Rispondeva a un bisogno di distanza, di dilatazione dei confini del reale, di veder aprirsi intorno delle dimensioni incommensurabili, astratte come entità geometriche, ma anche concrete, assolutamente piene di facce e situazioni e ambienti, che col mondo dell’esperienza diretta stabilivano una loro rete (astratta) di rapporti.[33]
Però si abbandona a ricordi minuziosissimi, mai così minimi e così intensi, e mai così precisamente ci ha raccontato un progresso dal versante della perdita. «Ciò che il cinema dà adesso non è più la distanza: è il senso irreversibile che tutto ci è vicino, ci è stretto, ci è addosso»:[34] a questo punto, data per persa la possibilità della distanza, con un ribaltamento abbastanza tipico del Calvino narratore la scelta finale è di accettare Fellini, ossia farsi ingoiare nello schermo, accettare di essere lì (di essere, forse, sempre stato lì): «Il film di Fellini è cinema rovesciato, macchina da proiezione che ingoia la platea e macchina da presa che volta le spalle al set, ma sempre i due poli sono interdipendenti».[35]
La resa di Calvino è senza condizioni, la visione si fa quasi apocalittica, e la prosa stessa si gonfia con toni di una retorica musicale, contorta e martellante, a tratti addirittura cacofonica, che ha pochi riscontri simili nell’autore, come se i fantasmi fossero sfuggiti di mano al signor Palomar:
Per questo Fellini riesce a disturbare fino in fondo: perché ci obbliga ad ammettere che ciò che più vorremmo allontanare ci è intrinsecamente vicino.
Come nell’analisi della nevrosi, passato e presente mescolano le loro prospettive; come nello scatenarsi dell’attacco isterico s’esteriorizzano in spettacolo. Fellini fa del cinema la sintomatologia dell’isterismo italiano, quel particolare isterismo familiare che prima di lui veniva rappresentato come un fenomeno soprattutto meridionale. […] Il cinema della distanza che aveva nutrito la nostra giovinezza è capovolto definitivamente nel cinema della vicinanza assoluta. Nei tempi stretti delle nostre vite tutto resta lì, angosciosamente presente; le prime immagini dell’eros e le premonizioni della morte di raggiungono in ogni sogno; la fine del mondo è cominciata con noi e non accenna a finire; il film di cui ci illudevamo d’essere solo spettatori è la storia della nostra vita.[36]
4. Una concorrenza pericolosa
Di lì a poco, Calvino si muoverà verso un libro di pseudo-libri, Se una notte d’inverno un viaggiatore, e un anno dopo lo scritto su Fellini appare per la prima volta sul Corriere della sera il personaggio del signor Palomar, alcune delle cui storie confluiranno in volume nel 1983. Il modello di visione di Calvino è sempre più influenzato dalle arti figurative[37] e la letteratura si nutre di letteratura. Eppure si tratta, anche, di un movimento compensativo. Lo scrittore confessa:
Mi domando se la ragione per cui, in Se una notte d’inverno, il lettore di romanzi è diventato un personaggio non sia da cercare nella televisione o nel cinema. Il libro visto dal di fuori è forse anch’esso un effetto dell’epoca audiovisiva. Per dirla tutta, c’è nella mia vita un concorrente terribile del libro: il cinema, che è una delle mie passioni. In linea generale, tra il film e il romanzo c’è una concorrenza pericolosa, perché la forma narrativa del film viene in gran parte dal romanzo. E il pericolo è proprio di credere all’omogeneità film-romanzo. Ecco perché tanti scrittori pubblicano romanzi che sono solo film. Io penso che smarriscono la strada. È importantissimo salvaguardare la specificità del lavoro letterario nei confronti del cinema, non confondere le parole e le immagini pur facendo vedere con le parole. La scrittura è una diversa sintassi dell’immaginario.[38]
In effetti la cosa che stupisce è che il primo romanzo nel romanzo che troviamo in Se una notte d’inverno un viaggiatore, sorprendentemente, più che il racconto di un romanzo è, con ogni evidenza, l’ekphrasis di un film, o addirittura di un romanzo che appare in un film mentale. È paradossale, ma Calvino ha ragione: la sua metanarratività nasce come in un film. Questo è l’attacco:
Il romanzo comincia in una stazione ferroviaria, sbuffa una locomotiva, uno sfiatare di stantuffo copre l’apertura del libro, una nuvola di fumo nasconde parte del primo capoverso. […] C’è qualcuno che sta guardando oltre i vetri appannati, apre la porta a vetri del bar, tutto è nebbioso, anche dentro, come visto da occhi di miope, oppure occhi irritati da granelli di carbone. Sono le pagine del libro a essere appannate come i vetri d’un vecchio treno, è sulle frasi che si posa la nuvola di fumo. È una sera piovosa; l’uomo entra nel bar; si sbottona il soprabito umido; una nuvola di vapore l’avvolge; un fischio parte lungo i binari a perdita d’occhio lucidi di pioggia.
Un fischio come di locomotiva e un getto di vapore si levano dalla macchina del caffè che il vecchio barista mette sotto pressione come lanciasse un segnale, o almeno così sembra dalla successione delle frasi del primo capoverso, in cui i giocatori ai tavoli richiudono il ventaglio delle carte contro il petto e si voltano verso il nuovo venuto con una tripla torsione del collo, delle spalle e delle sedie, mentre gli avventori al banco sollevano le tazzine e soffiano sulla superficie del caffè a labbra e occhi socchiusi, o sorbono il colmo del boccali fi birra con un’attenzione esagerata a non farli traboccare. Il gatto inarca il dorso, la cassiera chiude il registratore di cassa che fa dlin. Tutti questi segni convengono nell’informare che si tratta di una piccola stazione di provincia, dove chi arriva è subito notato.[39]
Gli stereotipi così ironicamente evidenziati nel brano sono più quelli del cinema che della letteratura: anzi, proprio del cinema anni ’30 che Calvino amava, con frammenti di montaggio tipici del muto che ancora resistono (lo stacco locomotiva/macchina del caffè). Di più: il set riporta addirittura alle origini del cinema, alla stazione de La Ciotat in cui arriva il treno ripreso dai fratelli Lumière. Allo stesso modo, Antonio Costa ha notato che il racconto con cui si apre Palomar, Lettura di un’onda, è esattamente uno di quegli esperimenti che Jules- Etienne Marey faceva col suo ‘fucile fotografico’ per catturare il movimento, un istante prima dell’arrivo del cinematografo.[40]
Nell’intervista dell’81 sopra citata, però, Calvino nomina anche la televisione: un terzo ingombrante incomodo si è insinuato, tra cinema e letteratura. La ‘vicinanza assoluta’ che Fellini gli ha fatto balenare davanti agli occhi non è una strada percorribile, anche perché nel frattempo le immagini si moltiplicano, e il rimedio omeopatico felliniano appare sempre più difficile.
Proviamo allora a prolungare questa nuova articolazione. Da un lato, se ci si pensa, le virtù propugnate nelle Lezioni americane sono esattamente le caratteristiche di ciò che Calvino ragazzo amava nel cinema hollywoodiano degli anni ’30: leggerezza, rapidità, visibilità, esattezza, consistency (compiutezza, coerenza interna). Fa eccezione la molteplicità, forse l’aspirazione che arriva cronologicamente per ultima nella produzione dell’autore.
La molteplicità, d’altronde, è infida. Non è solo la complessità ordinabile o creabile col gioco combinatorio della letteratura, ma può essere anche una zavorra infernale, un rumore di fondo indiscernibile di informazioni e immagini. Il 3 gennaio del 1984, su la Repubblica, Calvino pubblica un racconto, L’ultimo canale: una specie di anti- Palomar, la confessione in prima persona di un folle alla Poe che, «condizionato dal bisogno compulsivo di cambiare continuamente canale, […] impazzisce e pretende di cambiare il mondo a colpi di telecomando».[41] Il protagonista precisa che il suo zapping furioso, immobile davanti al teleschermo, esprime il contrario della disattenzione:
Io sono convinto che un senso negli avvenimenti del mondo ci sia, che una storia coerente e motivata in tutta la sua serie di cause e d’effetti si stia svolgendo in questo momento, non irraggiungibile dalla nostra possibilità di verifica, e che essa contenga la chiave per comprendere e giudicare tutto il resto.[42]
(A staccarlo dal contesto, potrebbe essere il passo di una ‘lezione americana’, magari proprio la molteplicità: invece è il delirio di un pazzo). Mentre il video è «ingombro di immagini superflue e intercambiabili», il narratore si convince che qualcosa di unico «dev’essere cominciato e certo ne ho perduto l’inizio e se non m’affretto rischio di perderne pure la fine».
Il vero programma sta percorrendo le bande dell’etere su una banda di frequenza che io non conosco, forse si perderà nello spazio senza che io possa intercettarlo: c’è una stazione sconosciuta che sta trasmettendo una storia che mi riguarda, la mia storia, l’unica storia che può spiegarmi chi sono, da dove vengo e dove sto andando. Il solo rapporto che posso stabilire in questo momento con la mia storia è un rapporto negativo: rifiutare le altre storie, scartare tutte le immagini menzognere che mi propongono.[43]
Di lì a pochissimo, nelle Lezioni americane, Calvino si riconoscerà figlio di una rudimentale «civiltà delle immagini», e al fondo della sua immaginazione dichiara esserci un «cinema mentale».[44] Ma le pagine più allarmate di quelle conferenze riguardano una «peste» che sembra invadere il linguaggio e le immagini:
Viviamo sotto una pioggia ininterrotta d’immagini: i più potenti media non fanno che trasformare il mondo in immagini e moltiplicarlo attraverso una fantasmagoria di giochi di specchi: immagini che in gran parte sono prive della necessità interna che dovrebbe caratterizzare ogni immagine. [...]
Ma forse l’inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio soltanto: è nel mondo. La peste colpisce anche la vita delle persone e la storia delle nazioni, rende tutte le storie informi, casuali, confuse, senza principio né fine. Il mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita, e a cui cerco d’opporre l’unica difesa che riesco a concepire: un’idea della letteratura.[45]
Il pericolo paradossale, dice Calvino, è di perdere proprio la facoltà di pensare per immagini, di attivare quel «cinema mentale» che nella mente dell’uomo c’è sempre stato e che rischia di scomparire.
Le Lezioni americane, se ci sbirciamo dentro dalla porticina di servizio del cinema e delle immagini, appaiono un libro disperato.
1 I. Calvino, Sono nato in America… Interviste 1951-1985, a cura di L. Baranelli, Milano, Mondadori, 2002, p. 13.
2 Cfr. L. Clerici, Tra carta e pellicola, in L’avventura di uno spettatore. Italo Calvino e il cinema, a cura di L. Pellizzari, Dublino, Artdigiland, 2015, pp. 132-145.
3 C. Cases, ‘Calvino e il “pathos della distanza”’, in Id., Patrie lettere, Torino, Einaudi, 1987, pp. 160-166.
4 I. Calvino, Lettere [2000], a cura di L. Baranelli, Milano, Mondadori, 2023, p. 111.
5 I. Calvino, ‘Letteratura, città aperta?’, Rinascita, aprile 1949, poi in Id., Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, pp. 1488-1491.
6 I. Calvino, ‘Tra i pioppi della risaia la «cinecittà» delle mondine’, l’Unità, 14 luglio 1947, ora in Id., Guardare. Disegno, cinema, fotografia, arte, paesaggio, visioni e collezioni, a cura di M. Belpoliti, Milano, Mondadori, 2023, p. 55.
7 Ivi, p. 56.
8 I. Calvino, ‘Intervento sul film «Anni difficili» di Luigi Zampa’, in Id., Guardare, pp. 58-60 (la recensione, databile al gennaio 1949, era stata scritta per l’Unità e non pubblicata).
9 I. Calvino, ‘Il realismo italiano nel cinema e nella narrativa’, Cinema nuovo, II, 10, 1° maggio 1953, p. 262, poi in Id., Saggi 1945-1985, p. 1890.
10 Ivi, p. 1889.
11 I. Calvino, ‘Sciolti dal giuramento’, Cinema nuovo, VI, 120-121, 15 dicembre 1957, ora in Id., Saggi 1945-1985, pp. 1912-1913.
12 I. Calvino, ‘L’infernale Quinlan di Orson Welles’, Cinema nuovo, VIII, 137, gennaio- febbraio 1959, ora in Id., Saggi 1945-1985, p. 1915.
13 Ivi, p. 1916.
14 Ivi, pp. 1916-1917.
15 Ivi, p. 1916.
16 I. Calvino, Romanzi e racconti, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori, I, 1991, p. 876.
17 Ivi, pp. 880-881.
18 I. Calvino, Lettere 1940-1985, pp. 448 e 510.
19 I. Calvino, ‘Intervista di Andrea Barbato’, L’Espresso, 10 marzo 1963, ora in Id., Sono nato in America…, p. 99.
20 Si veda ‘Quattro domande sul cinema italiano’, Cinema nuovo, X, 149, gennaio febbraio 1961, pp. 32-35, poi in Id., Saggi 1945-1985, pp. 1919-1924.
21 A. Chiesa, ‘Calvino: «Sono contrario ai film tratti dai romanzi»’, Paese sera, 17 marzo 1962, p. 3, ora in I. Calvino, Guardare, p. 134.
22 I. Calvino, ‘Le donne si salvano?’, Il Giorno, 29 aprile 1962, ora in Id, Guardare, pp. 135-138.
23 I. Calvino, ‘Risposta sui migliori film dell’anno’, Cinema nuovo, XIV, 174, marzo aprile 1965, ora in Id., Guardare, p. 141.
24 I. Calvino, ‘Italo Calvino sui «Pugni in tasca»’, Rinascita, 23, 15, 9 aprile 1966, ora in Id., Guardare, pp. 142-143.
25 I. Calvino, Lettere a Chichita 1962-1963, a cura di G. Calvino, Milano, Mondadori, 2023, p. 64.
26 Cfr. l’intervista di Goffredo Fofi a Esther Singer Calvino nel catalogo della rassegna cinematografica Le parole dello schermo (Cineteca di Bologna 2006), poi in Gli asini, 56, 2018, p. 82.
27 D. Scarpa, Calvino fa la conchiglia. La costruzione di uno scrittore, Milano, Hoepli, 2023, p. 500.
28 Nel testo Eremita a Parigi (1975) Calvino si scopre collezionista soprattutto di «cose impalpabili come le immagini dei vecchi film, collezione di ricordi, di ombre bianche e nere in modo particolare» (In Romanzi e racconti, col. III, cit., pp. 109-110). «I fotogrammi e i ricordi sono posti, dunque, sullo stesso piano come le figurine incollate insieme nell’unico album della memoria» (M. Rizzarelli, Sguardi dall’opaco. Studi su Calvino e la visibilità, Acireale, Bonanno, 2008, p. 113).
29 I. Calvino, ‘La squadratura (per Giulio Paolini)’, ora in Id., Saggi 1945-1985, pp. 1981-1990.
30 Cfr. la lettera alla scrittrice del 6 agosto 1974, in I. Calvino, Lettere, pp. 816-817, e la recensione del volume, uscita su L’Espresso in settembre e poi raccolta in Una pietra sopra, ora in I. Calvino, Saggi 1945-1985, pp. 342-345.
31 I. Calvino, Autobiografia di uno spettatore, in Id., Romanzi e racconti, III, p. 27.
32 Ivi, p. 30.
33 Ivi, p. 42.
34 Ivi, p. 43.
35 Ivi, p. 44-45.
36 Ivi, p. 49.
37 Cfr. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 2006.
38 I. Calvino, Sono nato in America… Interviste 1951-1985, pp. 440-441.
39 I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, in Id., Romanzi e racconti, II, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1994, p. 620.
40 Cfr. A. Costa, Il senso della vista, in L’avventura di uno spettatore. Italo Calvino e il cinema, pp. 48-50.
41 I. Calvino, L’ultimo canale, in Id., Romanzi e racconti, III, p. 308. Per un’attenta lettura del racconto si veda R. Donnarumma, ‘Contro la televisione. L’ultimo canale di Italo Calvino’, in S. Rimini (a cura di), Una vernice di fiction. Gli scrittori e la televisione, Lentini, Duetredue, 2017, pp. 19-40.
42 Ivi, p. 306.
43 Ivi, p. 307.
44 I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il nuovo millennio, Milano, Garzanti, 1988, ora in Id., Saggi 1945-1985, p. 699.
45 Ivi, pp. 678-679.