1. Benjamin, o dell’avventura
Gli amori difficili sembra essere il libro di Calvino più amato dai registi: nel corpus, in verità assai smilzo se rapportato alla produzione dell’autore e al suo successo internazionale, degli adattamenti cinematografici la maggior parte proviene da questa raccolta: nel 1962 Mario Monicelli trasporta L’avventura dei due sposi nel primo dei quattro episodi di Boccaccio ’70 (vale a dire Renzo e Luciana); l’anno dopo Nino Manfredi gira L’avventura di un soldato (sempre come episodio, questa volta de L’amore difficile); nel 1973 per la televisione tedesca (la ZDF) Carlo di Carlo realizza dall’Avventura di un lettore l’Abenteuer eines lesers; in Messico, dieci anni dopo, Ana Luisa Liguori gira il cortometraggio Amores dificiles.
Infine, nella tarda serata di sabato 9 aprile 1983, la Terza Rete Rai, all’interno del ciclo 10 registi italiani, 10 racconti italiani, manda in onda Avventura di un fotografo, girato, scritto e montato da Francesco (Citto) Maselli. È un lungometraggio particolare, forse fra i più singolari di Maselli (certamente il più interessante fra le trasposizioni degli Amori), e molto distante dal formato dello sceneggiato televisivo tratto da un’opera letteraria: si tratta di un film quasi muto, in cui alle parole molto più spesso si sostituiscono leitmotiv musicali e primissimi piani e l’azione si sfilaccia nella stasi dei personaggi chiusi all’interno di un ambiente domestico. Non è la prima volta che Maselli si confronta con un adattamento, già nel 1963 aveva portato sullo schermo Gli indifferenti di Moravia, nel 1980 realizza quattro puntate televisive da Tre operai di Carlo Bernari e proseguirà con Il compagno di Pavese nel 1998. Esperienze che fanno ben presto maturare nel regista la consapevolezza che «realizzare per immagini un testo letterario è evidentemente scrivere un altro testo»,[1] e in particolare quando si ha a che fare con un racconto così poco narrativo (tanto che nasce, a sua volta, come trasposizione del saggio del 1955, La follia nel mirino).[2] Non a caso le strategie messe a punto tre anni prima con Tre operai, nel caso di Calvino, vengono rovesciate: qui Maselli «tramuta i limiti del piccolo schermo in un’occasione per imbastire un racconto incentrato preminentemente sul materiale plastico e su apparecchiature meccaniche, che contendono ai personaggi in carne e ossa il primato».[3] Il racconto di Calvino, infatti, nella forma di una quête conoscitiva non fa altro che mettere alla prova (questo è il senso proprio dell’avventura del titolo) una serie di possibilità (tutte destinate al fallimento fino all’ultima paradossale soluzione) per catturare e conoscere la realtà attraverso la fotografia e, di conseguenza, per «rappresentare, razionalizzandola, la separazione dal reale che costituisce il nucleo tematico della raccolta e di ogni singola “avventura”».[4] La soluzione a questa «questione di metodo»,[5] com’è noto, è fotografare altre fotografie: ma non si tratta di una mise en abyme o di un approdo alla follia del personaggio, come pure spesso è stato detto. È la scoperta, piuttosto, di un metodo combinatorio che si basa sulla casualità (il caso, d’altronde, è uno degli elementi principali dell’avventura), e sull’accostamento di «un mucchio di frammenti d’immagini private, sullo sfondo sgualcito delle stragi e delle incoronazioni».[6] Quella che scopre Antonino Paraggi, il protagonista del racconto, dunque, è una forma di rappresentazione che si basa, se vogliamo, sull’utilizzo di materiali di secondo grado, che vengono rifunzionalizzati attraverso il montaggio dotandosi, così, anche di una funzione sociale (o etico-politica), in grado di unire i destini individuali a quelli generali. La scoperta di Antonino, insomma, è quella dell’allegoria del Dramma barocco e dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Benjamin.
Nella Piccola storia della fotografia Walter Benjamin, ragionando sulle funzioni sociali della fotografia, nota che «il dilettante che torna a casa con un gran numero di fotografie artistiche originali non è molto più rallegrante del cacciatore che torna dalla battuta con un’enorme quantità di selvaggina, che soltanto il mercante potrà utilizzare».[7] Se Calvino conoscesse questo saggio non è chiaro: le citazioni esplicite da Benjamin nei suoi scritti sembrano comparire solo dal 1971 (quindi in concomitanza con l’Avventura di un fotografo); nel 1955, da Einaudi, dove Calvino il 1° gennaio di quell’anno era diventato dirigente, arrivano sulla scrivania di Sergio Solmi i due volumi degli Schriften di Benjamin (pubblicati sempre nel ’55 da Suhrkamp), ma nell’indice di quest’opera non compare la Piccola storia della fotografia (pubblicata in Italia nel 1966 nell’antologia L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica). Calvino potrebbe essere entrato in contatto con Benjamin tramite Solmi e l’Einaudi, potrebbe aver letto la Piccola storia in francese (già dagli anni quaranta il testo circolava ampiamente in Francia, è citato per esempio da Pierre Francastel nel suo Lo spazio figurativo dal Rinascimento al Cubismo, tradotto da Einaudi nel 1957). Ci muoviamo purtroppo sul terreno della congettura. È certo, tuttavia, che l’immagine benjaminiana del fotografo-cacciatore che torna con un carico di selvaggina/fotografie apre sia La follia del mirino sia, con minime variazioni, L’avventura di un fotografo:
Con la primavera, a centinaia di migliaia, i cittadini escono la domenica con l’astuccio a tracolla. E si fotografano. Tornano contenti come cacciatori dal carniere ricolmo […].[8]
Il riferimento a Benjamin è fondamentale per spiegare il passaggio dal saggio al racconto e l’intelaiatura narrativa (ed epistemologica) di quest’ultimo. Per Benjamin, fin dal Dramma barocco il senso dell’allos agoreuein è dato dallo «scrivere con le cose morte, montare e combinare frammenti di oggetti svuotati, amorfi, distruggere ogni residua simbolicità artistica, plastica, organica delle cose con cui entrare in sintonia».[9] In questo modo, per Benjamin, gli oggetti sono distrutti, scomposti in frammenti (Antonino, nell’ultima pagina del racconto, prende «a fare a pezzi le foto […], a strappare le filze dei provini appese ai muri, a tagliuzzare la celluloide delle negative, a sfondare le diapositive, e ammucchiava i residui di questa metodica distruzione su giornali distesi per terra»)[10]; questi frammenti verrebbero poi ricomposti in un realtà di ordine diverso, più astratta, che non si esprime, ma comunica qualcosa di altro attraverso le cose, i frammenti, che utilizza. È questo che farebbe anche la fotografia tramite il montaggio (e in particolare con il montaggio che accompagna le foto alle didascalie, come si legge ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica): al venire meno dell’integrità della cosa, della sua espressione, aumentano le possibilità di comunicazione (e di choc cognitivo, e dunque di conoscenza) attraverso un procedimento, che funziona proprio come l’allegoria barocca, di manipolazione tramite ingrandimento, rimpicciolimento, ritaglio, frammentazione, scomposizione, montaggio e ricomposizione. È quanto, alla lettera, fa in conclusione Antonino Paraggi:
Piegò i lembi dei giornali in un enorme involto per buttarlo nella spazzatura, ma prima volle fotografarlo. Dispose i lembi in modo che si vedessero bene due metà di foto di giornali diversi che nell’involto si trovavano per caso a combaciare. Anzi, riaprì un po’ il pacco perché sporgesse un pezzo di cartoncino lucido d’un ingrandimento lacerato. Accese un riflettore; voleva che nella sua foto si potessero riconoscere le immagini mezzo appallottolate e stracciate e nello stesso tempo si sentisse la loro irrealtà d’ombre di inchiostro casuali, e nello stesso tempo ancora la loro concretezza d’oggetti carichi di significato, la forza con cui s’aggrappavano all’attenzione che cercava di scacciarle.[11]
La scoperta di Paraggi è anche, naturalmente, la messa in scena di una scoperta metapoetica che investe la scrittura di Calvino che sempre più sperimenta i moduli combinatori – e non a caso Belpoliti ha parlato della fotografia come «metafora della scrittura».[12] Proprio questo carattere metapoetico viene trasposto da Maselli e traslato, però, sulla riflessione cinematografica: «Avventura di un fotografo», ha scritto Stefania Parigi, «racconta una ricerca attraverso un’altra ricerca completamente affidata allo stile e alle possibilità di un linguaggio cinematografico che ama i movimenti in interni, l’indugio sugli oggetti, i piani sequenza, il gioco dello zoom».[13] Maselli, non a caso, in un dialogo con Giorgio De Vincenti, definisce il suo cinema «metaforico»,[14] e sembra trasferire l’allos agoreuein fotografico sul linguaggio visivo del cinema attraverso costanti frammentazioni di immagini statiche «impaginate in un montaggio stringatissimo».[15] Lo si vede bene in una sequenza che torna più d’una volta a scandire il racconto: dal minuto 21:56 l’occhio di Antonino, affiancato all’obiettivo fotografico, viene accostato, tramite montaggio, all’occhio che si apre di Bice, isolato sempre attraverso inquadrature per scatti sempre più ravvicinate, per tornare, infine all’obiettivo della macchina fotografica
Proprio l’occhio di Bice stabilisce un primo riferimento letterario che rimanda sia all’isotopia semantica del mistero insondabile della realtà e dell’identità, sia alle potenzialità estetiche del collage. In un piano sequenza sui clichés che ritagliano porzioni del corpo di Bice, un collage degli occhi richiama chiaramente l’immagine degli ‘occhi di felce’ della Nadja di André Breton (e proprio nel surrealismo, d’altronde, Benjamin individuava felici risultati nell’utilizzo del montaggio; e dal surrealismo parte molta della formazione di Maselli, che non a caso qui sembra anche alludere al fotomontaggio di Dalì Il fenomeno dell’estasi).
In maniera simile alla prima di queste sequenze, alla fine del film è l’occhio stesso di Antonino a essere sottoposto a un processo di ingrandimento continuo, che porta tuttavia, in questo caso, a una completa ristrutturazione della realtà: Antonino infatti inizia a farsi una serie di autoscatti con la polaroid e a fotografare, sempre più da vicino, l’immagine risultante, arrivando così, dapprima, a ingrandire esponenzialmente il suo occhio (attraverso una retorica della ripetizione che caratterizza massicciamente lo stile filmico), finché il referente scompare del tutto e rimangono solamente delle tracce di colore.
È la scena che segna il punto di svolta nel film: subito dopo, infatti, la camera si sofferma su Antonino a terra, circondato dal disordine e da una serie di polaroid ammassate a caso sul pavimento. Antonino ne prende tre in mano, non rappresentano altro che tre chiazze di colore: il giallo, il rosso e il blu; sono i tre colori primari, che stanno lì a simbolizzare la presa e la scoperta di una grammatica, appunto, nei suoi elementi di base, che si riverserà, di lì a poco, nell’atto di fotografare ritagli di foto.
La sequenza dell’occhio, dunque, è particolarmente significativa per almeno tre ordini di motivi: il focus sugli strumenti della visione (su cui tornerò nel secondo paragrafo); la frammentazione dell’immagine come cifra stilistica del discorso e messa in atto della ‘scoperta’ che si farà sul piano diegetico; infine, il riferimento intertestuale: già Giovanni Bogani ha segnalato che il rapido montaggio di primissimi piani sull’occhio, infatti, in particolare grazie all’accostamento coloristico, sembrerebbe richiamare la celebre sequenza ‘oltre l’infinito’ di 2001: Odissea nello spazio di Kubrick;[16] a questo se ne può aggiungere almeno un altro, forse più preciso, vale a dire Film di Beckett, che inizia proprio con un occhio che si apre ed è costruito tutto sull’omofonia di I/Eye; questo stesso parallelismo si ritrova alluso proprio nella nostra sequenza: prima di iniziare con gli autoscatti, Antonino, mentre si specchia sulla superficie deformante della lampada che utilizza per illuminare il set delle sue foto, si chiede: «Le cose rimaste senza Bice. Già. E io?» (min. 48:46).
L’io si tramuta così in una cosa fra le altre, e viene trattato alla stregua delle moltissime nature morte su cui si focalizza la camera da presa lungo tutto l’arco del film. La domanda di Antonino crea così un percorso associativo che sovrappone l’io alle cose e in particolare alle foto che raffigurano il proprio occhio (I/eye), facendo venire così a combaciare in un’unica figura le tre istanze che caratterizzano l’attività fotografica secondo Barthes: Antonino è allo stesso tempo Operator, Spectator e Spectrum – tant’è che di lui, alla fine, nelle immagini rimane solo un alone di luce, un fantasma. In questo modo, attraverso l’allusione intertestuale ad altre pellicole, Maselli riporta il discorso metapoetico di Calvino direttamente sulla dimensione cinematografica: c’è un dettaglio decisivo, infatti, che distingue il finale del racconto da quello del film. Antonino Serra (così si chiama il protagonista di Maselli[17]), al contrario di Paraggi, non fotografa frammenti di immagini disposte su ritagli di giornali, immagini private sullo sfondo degli eventi collettivi, ma si limita a fotografare i ritagli delle proprie polaroid contenute in un sacco della spazzatura. La dimensione verbale è così completamente alienata dal discorso (difatti, nonostante le richieste del suo editore, Serra smette di scrivere quando inizia a fare fotografie) e, allo stesso modo, la riflessione etica lascia del tutto lo spazio a quella unicamente estetica.
Questo aspetto era, in qualche modo, già preannunciato dal lungo piano sequenza di 5’20” che apre il film. Se Calvino, non senza un filo di ironia, ci presenta Paraggi come un «non-fotografo», «che esplicava mansioni esecutive nei servizi distributivi d’un’impresa produttiva», ma la cui «vera passione era quella di commentare con gli amici gli avvenimenti piccoli e grandi sdipanando il filo delle ragioni generali dai garbugli particolari», con un certo «puntiglio»;[18] Serra ci viene introdotto, invece, attraverso la mediazione degli oggetti e in particolare della sua libreria: l’incipit del film si sofferma su una parete di libri e su una serie di copie in più lingue dello stesso volume: Non ancora di A. Serra (che era, vale la pena ricordarlo, il titolo provvisorio di uno dei film più importanti di Maselli, Lettera aperta a un giornale della sera).
Per certi versi, proprio come nel racconto calviniano, anche in questo caso il protagonista ci viene presentato per litote, attraverso un ‘non’: lì un «non-fotografo», qui come l’autore di un libro di successo, tradotto in varie lingue, ma che si fa subito segnale di mancanza e di attesa. Questo incipit indica, allo stesso tempo, anche una differenza sostanziale fra le due opere: nel caso di Maselli, per il quale molti critici hanno sottolineato l’ispirazione autobiografica alla materia,[19] fin da subito viene sottolineata l’importanza del concetto di autorialità. Antonino Serra non è un impiegato, come il suo doppio Paraggi, ma è a tutti gli effetti un autore, la cui avventura, dunque, non andrà inserita solamente all’interno di un percorso di puntiglio epistemologico, ma in primo luogo di ricerca estetica.
Questa attitudine si riversa in ogni comportamento del personaggio, così, dopo il primo amplesso con Bice, Antonino inizia a parlare del suo letto, da lui ideato come «progetto totale», risposta a tutti gli interrogativi dell’umanità tra spazio o vita (min. 17:50). E d’altronde, la tematica dell’autorialità viene tematizzata in maniera esplicita nel corso del film: la ricerca estetica, infatti, sembra delinearsi sempre più come un tentativo di eliminazione dell’autore, alla ricerca di una visione disincarnata dell’opera d’arte. Così a un certo punto, sconfessando i suoi ennesimi tentativi di ricerca di una fotografia al tempo stesso ‘totale’ ed ‘essenziale’, Antonino afferma: «così faccio esattamente come prima, sono autore, intervengo» (min. 29:07).
2. Uno sguardo disincarnato
A questo punto, perseguendo questo progetto di ‘morte’ e autoannientamento dell’autore, Antonino inizia a sperimentare con l’automatizzazione: se ne va di casa, installa una serie di macchine programmate per scattare a intervalli regolari di tempo delle fotografie e catturare così le immagini di Bice senza l’imposizione e il controllo dello sguardo autoriale. Il risultato è fallimentare, perché i comportamenti di Bice sono modificati dalla consapevolezza dei molti obiettivi che la riprendono incessantemente e Antonino ne resta deluso. L’eliminazione dell’io-come-autore, in realtà, non avverrà mai, perché pure nella scoperta finale, e nella confusione delle istanze dell’operator(/auctor), dello spectator e dello spectrum, il controllo autoriale interviene: le foto che Antonino fotografa sono fatte da lui stesso, ed egli stesso interviene nel mescolare e spostare i vari frammenti mentre fotografa. La morte dell’autore è impossibile. Ma quello che mi preme segnalare è piuttosto un altro elemento di questa ricerca: gran parte delle immagini che noi spettatori riceviamo sono immagini mediate, sono già immagini nelle immagini, quasi mai la realtà ci arriva in maniera diretta: come in molto cinema di Maselli, anche in Avventura di un fotografo «i mezzi di riproduzione e di rappresentazione del reale svolgono un ruolo di primo piano».[20] Che quindi questo saggio in forma di film affidi gran parte delle sue riflessioni (anche metapoetiche) alla tecnologia non dovrebbe stupire, soprattutto se pensiamo allo stretto legame che scienza e arte intrattengono negli scritti di Calvino (e basti ricordare La sfida al labirinto, dove si legge che «già l’atteggiamento scientifico e quello poetico coincidono: entrambi sono atteggiamenti insieme di ricerca e di progettazione, di scoperta e di invenzione»)[21].
Non stupisce, allora, che nel film di Maselli il tema fotografico venga introdotto per la prima volta come oggetto tecnologico: Antonino riceve in regalo una macchinetta, la guarda, la tiene in mano con aria meditativa e dice: «è così bella, farci delle fotografie non ti sembra banale?» (min. 7:10). La macchina diventa, così, fin da subito, un oggetto con attrattiva magnetica. Spesso la cinepresa indugia con zoom in e focalizzazioni su di lei proprio in quanto oggetto e in quanto oggetto fra gli oggetti che Antonino colleziona.
La dimensione dell’oggetto fotografico invade tutto il microcosmo esistenziale di Antonino, fino al punto che la sua casa si trasforma in uno studio fotografico assediato da attrezzature e macchinari, che lo sguardo registico sottolinea con movimenti, carrellate e zoom, isolando porzioni discrete attraverso continui spostamenti che non sono in grado di restituire una visione d’insieme.
L’attenzione ai mezzi di riproduzione tecnica (e di conseguenza allo statuto dell’autore/artista al tempo dell’epoca della riproducibilità tecnica) è evidente, di nuovo, fin dall’incipit: la lunga carrellata iniziale, dopo averci presentato il protagonista attraverso la mediazione paratestuale del nome d’autore sull’oggetto libro, si sposta attraverso vari oggetti per terminare sul telefono che squilla: la prima presenza umana del film è una voce che arriva attraverso un mezzo tecnico (la segreteria) e che in quanto tale è anche riproducibile: il telefono è infatti chiaramente collegato a delle apparecchiature di registrazione e riproduzione del suono. Proprio il giradischi, a questo proposito, è uno degli oggetti più interessanti del film poiché si fa veicolo di uno sdoppiamento dei livelli di realtà: in più di una scena la camera indugia su questo oggetto in funzione, tuttavia la musica che sentiamo (e quindi presupponiamo essere diegetica) è la stessa musica extradiegetica che fa da leitmotiv a tutto il film. Se ne può dedurre, allora, che anche in questo caso un oggetto di riproduzione è come feticizzato (come lo è la macchina fotografica nelle prime scene del film) e quasi esautorato dalla sua funzione primaria – e di nuovo ristabilendo una sorta di forte funzione-autore che, in questo caso, è quella registica che elimina la musica diegetica per intromettersi, direttamente, nella vicenda problematizzando il significato della riproduzione stessa.
Un meccanismo simile avviene in una delle caratteristiche stilistiche principali di Avventura del fotografo, una specie particolare di falsa soggettiva, in cui il punto di vista ci sembra spesso essere quello dello sguardo di Antonino (o del suo sguardo mediato dall’obiettivo fotografico), ma in realtà si rivela essere quello disincarnato della macchina da presa, creando così un forte straniamento in chi guarda, che è portato spesso a credere di vedere attraverso Antonino, per scoprire, poi, che il suo punto di vista è quello artificiale di un oggetto (e il punto di vista è quindi spesso esterno). In questo senso un’inquadratura di una delle molte sedute fotografiche è particolarmente rappresentativa: Bice è nuda, e si fa fotografare in varie pose, vediamo Antonino dietro la macchina e poi vediamo direttamente Bice, l’impressione iniziale è che la scena davanti ai nostri occhi sia esattamente quella che il protagonista sta riprendendo, ma l’illusione subito si infrange attraverso l’entrata in scena della mano di Antonino che si frappone fra lo sguardo dello spettatore e Bice, quasi per errore:
In questa inquadratura notiamo due elementi particolarmente rilevanti per il film di Maselli: la prospettiva disincarnata della macchina quale veicolo principale del racconto che si presenta come se fosse un punto di vista soggettivo e umano (e si ritrova tematicamente nelle sovrapposizioni per montaggio connotativo dell’occhio con l’obiettivo fotografico); l’esposizione straniante di una pulsione scopica sessuata.[22] Proprio riflettendo sulla pulsione scopica, nel notissimo saggio Visual Pleasure and Narrative Cinema, Laura Mulvey scrive:
To begin with (as an ending), the voyeuristic-scopophilic look that is a crucial part of traditional filmic pleasure can itself be broken down. There are three different looks associated with cinema: that of the camera as it records the pro-filmic event, that of the audience as it watches the final product, and that of the characters at each other within the screen illusion. The conventions of narrative film deny the first two and subordinate them to the third, the conscious aim being always to eliminate intrusive camera presence and prevent a distancing awareness in the audience.[23]
Il film di Maselli gioca esattamente con questi tre sguardi per renderli espliciti e problematizzarli: in questo modo lo sguardo della camera è continuamente reso intrusivo e fatto percepire, anche in maniera disturbante, allo spettatore, che sempre è consapevole di essere di fronte a una riproduzione al quadrato, insistentemente mediata da forme di riproduzione (oggetti, foto, obiettivi). La camera, attraverso l’esposizione del proprio sguardo, si interpone tra i due protagonisti assumendo su di sé l’istanza ironica che era propria della voce narrante del racconto di Calvino. Se, infatti, anche nel film di Maselli l’uomo è il personaggio che fa accadere le cose, che porta avanti l’azione, mentre la donna è lo spettacolo, la cosa che si guarda;[24] lui, l’artista, è il «maker of meaning», mentre lei, lo spectrum, il «bearer»,[25] ecco che la camera ironizza felicemente questa situazione, mostrando per esempio, in più di una occasione, il volto impassibile e annoiato di lei mentre fuori campo si sente la voce di Antonino che espone i suoi monologhi sull’arte che si fanno puro flatus voci.
3. Un’avventura erotica
Proprio questo rapporto fra i sessi è uno dei nodi centrali del film di Maselli e, a ben vedere, seppur sotto traccia, anche del racconto di Calvino. Come ha scritto Maria Rizzarelli, in molte situazioni calviniane – è il caso di Qfwfq delle Cosmicomiche o di Antonino Paraggi – si scopre che «l’incontro erotico si consuma dentro l’elemento sconfinato della visibilità, senza la quale non è data alcuna esistenza».[26] Maselli, rispetto al racconto, dilata molto la parte dedicata al rapporto fra Antonino e Bice, intercettando, così, una delle tematiche latenti del testo di partenza, per metterla in risalto – seppur declinata in maniera in parte diversa.
Nel racconto di Calvino l’apparecchio fotografico sembra funzionare come una sorta di meccanismo di compensazione erotica. Com’è noto (lo si legge chiaramente nell’introduzione anonima, ma di sicura mano dell’autore e in una esplicita lettera a Pietro Citati del 2 settembre 1958), i racconti de Gli amori difficili trovano la propria spinta centripeta nel tema dell’incomunicabilità amorosa. Paraggi, oltre a essere un non-fotografo, è anche definito un non-procreatore (e c’è un legame di consequenzialità logica fra le due caratteristiche), un impiegato alienato dal consenso sociale e come tale incapace di ogni tipo di rapporto sincero con una donna: non sarà un caso che l’identità lavorativa, che in tutto caratterizza questo personaggio privato di ogni altra specificazione, sarà proprio quella impiegatizia, che identifica tanta letteratura e tanto cinema dell’alienazione fra gli anni Sessanta e Settanta: dal Giovanni Giudici di Autobiologia che parla di sé in terza persona al Ragionier Fantozzi di Villaggio che fa la stessa cosa – utilizzando, per altro, un linguaggio burocratico non così distante da quello della descrizione di Antonino Paraggi. Sono anni, questi, di lunghi dibattiti sull’erotismo,[27] in cui interviene a più riprese lo stesso Calvino, fin dalla famosa inchiesta di Nuovi Argomenti del 1961, dove nota che «le immagini e le parole dell’erotismo sono ormai logore e inservibili, resta all’espressione poetica l’infinita libertà dei traslati».[28] E, tornando sull’argomento nel 1969 (quindi un anno prima della pubblicazione dell’Avventura di un fotografo!), scrive: «viviamo in un’epoca di tendenziale desessualizzazione; la lotta per l’esistenza nelle metropoli è tale da avvantaggiare l’asessualità: la mitologia sessuale a livello di mass-media ha una funzione di compensazione, di recupero di qualcosa che si sente già perduto e fortemente in pericolo».[29] Sono frasi che sembrerebbero descrivere le situazioni di molti racconti de Gli amori difficili, compresa quella di Antonino, che non riesce a vedere Bice se non attraverso l’obiettivo fotografico, riesce a possederla solo tramite quello, a ‘prenderla’, come si ripete per due volte attraverso un francesismo che rivela tutta l’ansia di possesso sessuale riversata sulla compensazione fotografica: «Ecco, ora sì, così va bene, ecco, ancora, così ti prendo bene, ancora», e più avanti: «ormai ti ho presa».[30]
Se la dimensione sessuale nel racconto di Calvino è del tutto assente (dopo averla fotografata/presa da nuda, Antonino le dice di rivestirsi e Bice scoppia a piangere), in Maselli sembrerebbe invece di trovarsi in una situazione di accentuazione dei caratteri sessuali: i due personaggi sono, infatti, spesso nudi a letto, ma l’atto sessuale vero e proprio è sempre cancellato attraverso una elissi, seguendo uno schema che si ripete identico: sessione fotografica di Bice nuda; ellissi; entrambi i personaggi nudi al letto con Antonino che parla di sé e dei suoi progetti artistici, cui segue un primissimo piano del volto impassibile di Bice, mentre ascoltiamo la voce concitata di Antonino fuori campo. Anche in questo caso è l’atto di fotografare a costituire un sostituto visivo per l’atto sessuale, come mostra chiaramente più di una scena:
La stessa scena in cui Bice inizia a spogliarsi ne è un chiaro indice: Antonino è preso, di nuovo, dai suoi discorsi filosofici sull’arte («sintesi prima di tutto, sintesi ed essenza», dice), e si accorge del corpo ormai nudo di Bice solamente nel momento in cui posa lo sguardo dentro l’obiettivo fotografico (e con lui anche lo spettatore).
In Antonino Serra, tuttavia, la questione ha un risvolto puramente estetico (guardando Bice nuda il suo unico commento è: «sei un genio»): si tratta di esaurire il corpo nudo di Bice, rappresentarlo nei suoi elementi discreti alla ricerca di un ordine di natura formale, trasformarlo in una pura guardabilità. Con le parole, ancora, di Laura Mulvey: «Woman then stands in patriarchal culture as a signifier for the male other, bound by a symbolic order in which man can live out his fantasies and obsessions through linguistic command by imposing them on the silent image of woman still tied to her place as bearer, not maker, of meaning».[31] E soprattutto: «in their traditional exhibionist role women are simultaneously looked at and displayed, with their appearance coded for strong visual and erotic impact so that they can be said to connote to-belooked-at-ness».[32]
Bice è contemporaneamente, nel film di Maselli, la donna guardata e la donna esposta: anzi il guardare sembrerebbe presuppore l’esposizione delle fotografie che la ritraggono: i muri della casa si riempiono così di ogni porzione del corpo della donna, divenendo una sorta di mostra privata del corpo erotico e feticizzato. Bice, da parte sua, dapprima abbraccia il ruolo esibizionistico affidatole da Antonino, è entusiasta e si lascia fotografare con partecipazione, finché la casa-studio fotografico non diventa una gabbia, cui la donna cerca di sottrarsi respingendo la sua guardabilità e, cioè, resistendo al progetto estetico del suo compagno. Nel momento di sperimentazione con la fotografia automatica, Bice guarda in camera, distruggendo il senso stesso dell’operazione artistica messa in atto.
{carrara_avventura_fig9|F. Maselli, Avventura di un fotografo, 1983. Screenshot da terzi}
A questo punto il progetto di Antonino si tramuta in vero e proprio voyeurismo: inizia a inseguire Bice per la città per fotografarla di nascosto (per evitare, dunque, che la consapevolezza dell’apparecchio condizioni le azioni della donna, portandola a comportarsi e vivere in modo ‘fotografabile’). L’aspetto interessante, e che di nuovo mostra bene la centralità della preoccupazione estetica (che sfocia in una forma di solipsismo del protagonista-autore), è la totale indifferenza di Antonino nel fatto che Bice lo stia tradendo con un loro comune amico: la donna ha ormai del tutto perso le sue qualità definitorie per divenire puro oggetto dello sguardo estetico, occasione di messa in forma e realizzazione di un progetto artistico. E come sempre avviene in questo film, l’inseguimento ancor prima di farsi tema e tappa dell’avventura, era già stato anticipato dallo stile visuale, in particolare dalla prospettiva e dai movimenti di macchina. L’ingresso di Bice nello spazio della rappresentazione, avviene, infatti, attraverso una prospettiva obliqua, come se qualcuno la spiasse dalla finestra e fosse ripresa di nascosto dall’alto in soggettiva, dal punto di vista di Antonino:
Ma fin dal lungo primo piano sequenza iniziale, è la macchina da presa, il terzo grande personaggio di questo film, a comportarsi come un inseguitore: i suoi costanti movimenti, infatti, oltre ad amplificare il disordine della scena e creare l’idea di una sorta di labirinto (fisico e soprattutto mentale),[33] replicano anche lo sguardo voyeuristico e assillante di Antonino. Inoltre, come ha ben spiegato Stefania Parigi, «la convulsione interiore, che Calvino distende nella limpidezza illuministica della sua scrittura, viene invece mimata e sottolineata da Maselli con il ricorso a una macchina da presa inquieta e mobilissima, che tende a immedesimarsi ora con l’occhio contratto del fotografo ora con quello metallico dell’apparecchio, e che, sotto molto aspetti, ricorda la scrittura nervosa di Lettera aperta».[34]
Lo stile filmico, così, sembra essere il vero centro del film di Maselli, su cui si riversano (e su cui agiscono mimeticamente) i tre macrotemi che ho qui cercato di delineare: la riflessione sul montaggio, la funzione tecnica della riproduzione (e quindi della rappresentazione) con il conseguente ruolo dell’artista in quest’epoca, e la scopofilia sessualizzata. In questo senso, rispetto al racconto di Calvino, Avventura di un fotografo (in cui cade l’articolo determinativo del testo di partenza), è un’opera soprattutto meta-estetica sulla possibilità, a partire dall’immagine fotografica, che è poi anche quella cinematografica, di creare, per dirla col Roland Barthes della Camera chiara, «l’inconcepibile confusione tra realtà (“Ciò è stato”) e verità (“è esattamente questo!”)». Quel punto che «si avvicina effettivamente alla follia, raggiunge “la verità folle”».[35]
1 F. Maselli, ‘Anch’io come Antonino cerco nella fotografia’, 10 registi italiani, 10 racconti italiani, supplemento a Radio e TV, 2, 1983, p. 118. Poi in L. Pellizzari (a cura di), L’avventura di uno spettatore. Italo Calvino e il cinema, Bergamo, Lubrina, 1990, pp. 118-119.
2 Cfr. B. Falcetto, ‘Note e notizie sui testi’, in I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. 2, Milano, Mondadori (I Meridiani), 1992, pp. 1450-1451. Per una lettura globale del racconto rimando a M. Papa, ‘La realtà, la fotografia, la scrittura. Postille a margine a L’avventura di un fotografo di Italo Calvino’, La Rassegna della letteratura italiana, LXXXIV, 1980, pp. 257-268; R. Ceserani, L’occhio della Medusa. Fotografia e letteratura, Torino, Bollati Boringhieri, 2011, pp. 76-90.
3 M. Argenti, ‘Profilo critico di un cineasta inquieto’, in L. Micciché (a cura di), Gli sbandati di Francesco Maselli. Un film generazionale, Torino, Lindau, 1998, p. 70.
4 M. Papa, “La realtà, la fotografia, la scrittura’, p. 257.
5 I. Calvino, ‘L’avventura di un fotografo’, in Id., Gli amori difficili, Milano, Mondadori, 1993, p. 61.
6 Ivi, p. 63.
7 W. Benjamin, Aura e choc, a cura di A. Pinotti, A. Somaini, Torino, Einaudi, 2012, p. 241.
8 I. Calvino, ‘L’avventura di un fotografo’, p. 49.
9 G. Gurisatti, Scacco alla realtà. Dialettica ed Estetica della derealizzazione mediatica, Macerata, Quodlibet, 2012, p. 52.
10 I. Calvino, ‘L’avventura di un fotografo’, p. 63.
11 Ibidem.
12 M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 1996, pp. 124-130. Anche R. Deidier individua ne L’avventura di un fotografo una riflessione metaforica sulla relazione fra scrittura e vita, e tra vita e memoria. Cfr. R. Deidier, Le forme del tempo. Miti, fiabe, immagini di Italo Calvino, Palermo, Sellerio, 2004.
13 S. Parigi, Francesco Maselli, Firenze, La Nuova Italia, 1992, p. 81.
14 G. De Vincenti (a cura di), ‘Conversazione sul cinema con Francesco Maselli’, in L. Micciché (a cura di), Gli sbandati di Francesco Maselli, p. 27.
15 M. Argenti, ‘Profilo critico di un cineasta inquieto’, p. 69.
16 G. Bogani, ‘Obiettivi smisurati’, in L. Pellizzari (a cura di), L’avventura di uno spettatore. Italo Calvino e il cinema, p. 101.
17 Sul cambio di cognome ha riflettuto in particolare G. Bogani, ‘Obiettivi smisurati’, pp. 92-99.
18 I. Calvino, ‘L’avventura di un fotografo’, pp. 49-50.
19 Cfr. per esempio V. Santoro, Calvino e il cinema, Macerata, Quodlibet, 2011, pp. 102 e ss.
20 G. Bogani, ‘Obiettivi smisurati’, p. 100.
21 I. Calvino, ‘La sfida al labirinto’, in Id., Una pietra sopra, poi in Id., Saggi, vol. I, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori (I Meridiani), 1995, pp. 107-108.
22 E vale la pena notare, tra parentesi, che lo straniamento, almeno per com’è stato definito da Sklovskij ne L’arte come procedimento, è uno degli effetti conseguenti alla scoperta ‘allegorica’ di Antonino.
23 L. Mulvey, ‘Visual Pleasure and Narrative Cinema’, in Visual and Other Pleasure, New York, Palgrave, 1989, p. 25.
24 Cfr. ivi, p. 29.
25 Ivi, p. 20.
26 M. Rizzarelli, Sguardi dall’opaco. Saggi su Calvino e la visibilità, Roma, Bonanno Editore, 2008, p. 87.
27 Cfr. G. Carrara, S. Cucchi (a cura di), Erotismo e letteratura. Antologia di scritti militanti (1960-1976), Modena, Mucchi, 2022.
28 I. Calvino, ‘Otto domande sull’erotismo in letteratura’, Nuovi argomenti, 51-52, 1961. pp. 21-24.
29 Id., ‘Considerazioni sul sesso e il riso’, Il Caffè, 2 luglio 1970, pp. 3-5.
30 Id., ‘L’avventura di un fotografo’, p. 60.
31 L. Mulvey, ‘Visual Pleasure and Narrative Cinema’, p. 15.
32 Ivi, p. 19.
33 V. Santoro, Calvino e il cinema, p. 107.
34 S. Parigi, Francesco Maselli, p. 81.
35 R. Barthes, La camera chiara, Torino, Einaudi, pp. 113-115.