1. In principio era lo sguardo
La visività come motore dell’opera di Calvino è stata più volte messa in rilievo sia dall’autore sia dalla critica, insieme al quadro intermediale che orienta costantemente la sua attività narrativa e saggistica. Nella recente selezione dei suoi scritti intitolata significativamente Guardare, Marco Belpoliti enuncia già in copertina tutti i campi con cui Calvino entra in dialogo: Disegno, cinema, fotografia, arte, paesaggio, visioni e collezioni.[1] Il rapporto con il cinema, in particolare, è diventato materia di diversi libri dal 1990 a oggi.[2]
Lo scrittore per primo ha tracciato le coordinate della sua esperienza cinematografica in Autobiografia di uno spettatore che introduce nel 1974 la raccolta di quattro sceneggiature di Fellini.[3] Riattivando la memoria dell’adolescenza, ci racconta che il cinema hollywoodiano classico ha rappresentato per lui un itinerario di formazione all’insegna dell’«evasione», dello «spaesamento», dell’immersione in un mondo altro rispetto a quello di tutti i giorni, non importa se pieno di «mistificazione» e «menzogna».
Rispondeva a un bisogno di distanza, di dilatazione dei confini del reale, di veder aprirsi intorno delle dimensioni incommensurabili, astratte come entità geometriche, ma anche concrete, piene di facce e situazioni e ambienti, che col mondo dell’esperienza diretta stabilivano una loro rete (astratta) di rapporti.[4]
Il trauma bellico costituisce uno spartiacque tra questa esperienza di spettatore perso in un mondo immaginario, avventuroso e fiabesco e quella di autore e ‘attore’ partecipe della cultura del dopoguerra. Alla «distanza» si sostituisce la ‘vicinanza’ ai fatti e ai personaggi rappresentati, l’immersione nel modo della contingenza e della memoria appena trascorsa.
Il cinema italiano del dopoguerra non so quanto abbia cambiato il nostro modo di vedere il mondo, ma certo ha cambiato il nostro modo di vedere il cinema (qualsiasi cinema, anche quello americano). Non c’è un mondo dentro lo schermo illuminato nella sala buia, e fuori un altro mondo separato da una discontinuità netta, oceano o abisso. La sala buia scompare, lo schermo è una lente d’ingrandimento posata sul fuori quotidiano, e obbliga a fissare ciò su cui l’occhio nudo tende a scorrere senza fermarsi. Questa funzione ha – può avere – la sua utilità, piccola, o media, o in qualche caso grandissima. Ma quella necessità antropologica, sociale della distanza, non la soddisfa.[5]
2. Le immagini della Resistenza
È un altro noto saggio di Calvino – questa volta scritto nel 1964 in forma di presentazione al suo romanzo d’esordio Il sentiero dei nidi ragno (1947) – a ripercorrere le mutazioni provocate dalla guerra e dalla Resistenza, che riguardano insieme il cinema e la letteratura. Restio verso le classificazioni e le definizioni univoche, Calvino usa il vocabolo «neorealismo» sempre fra virgolette e cerca di definirne la natura: rifuggendo dalla nozione di scuola, lo vede come «clima generale di un’epoca», come «un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo», come «un insieme di voci»[6] lanciate alla scoperta del Paese finalmente uscito dal fascismo.
Il racconto della guerra e della Resistenza costituisce una sorta di cemento che fonde insieme, pur in modi diversi, cinema e letteratura, uniti da una «smania di raccontare»,[7] da un’urgenza di testimonianza, di riscrittura dell’esperienza del vissuto appena trascorso. I primissimi anni postbellici sono attraversati da una vera e propria euforia di rifondazione che permea la società e le arti, anche se per breve tempo. La «speranza quarantacinquesca»,[8] come la definisce Calvino, presto si esaurisce, lasciando sul campo un senso di inadempimento, di sconfitta, di crisi. La letteratura, ai suoi occhi, non è riuscita a dare «una rappresentazione epica e corale della Resistenza»,[9] a saldare in maniera significativa il «protagonista lirico-intellettuale» con l’ambiente popolare, con la società, con la storia.[10] Al contrario il cinema italiano gli appare legato a una più acuta coscienza del proprio ruolo innovatore rispetto al passato, anche se il tema resistenziale è presto rifuggito dagli schermi in quanto politicamente scomodo e conflittuale. Nel decennale della Liberazione la rivista Cinema Nuovo dedica un intero numero alla celebrazione-commemorazione del rapporto tra cinema e Resistenza, mentre nel Bollettino del neorealismo allegato intervengono sull’argomento intellettuali, filosofi, scrittori e artisti come Galvano della Volpe, Carlo Bernari, Renato Guttuso, Michelangelo Antonioni. Calvino pubblica in questa occasione un soggetto cinematografico intitolato Viaggio in camion, che inizia in forma saggistica, come una dichiarazione d’intenti e di prospettive.
Quando si ricominceranno a fare film sulla Resistenza – presto, io dico – il film che mi piacerebbe veder fare è un film che rappresenti le varie posizioni degli italiani di fronte alla guerra e alla lotta partigiana, e mettendo insieme – con quella formula che fu già di Maupassant in Boule de suif e di Ford in Ombre rosse [Stagecoach, 1939] – un campionario di vari tipi umani e sociali che si trovano per caso su uno stesso mezzo di locomozione. Qui al posto della diligenza di Rouen o della corriera del Far West, dovrebbe esserci uno di quei camion che giravano allora, quando le strade ferrate erano interrotte, un vecchio camion bolso, a metano, che fa un po’ di mercato nero all’ingrosso.[11]
Già la critica pre-neorealista della rivista Cinema aveva indicato – nei primi anni Quaranta – come uno dei modelli di rinnovamento quel filo rosso che unisce il naturalismo di Zola e Maupassant al cosiddetto realismo poetico del cinema francese degli anni Trenta. Calvino, al pari degli altri giovani intellettuali dell’epoca, scrittori o futuri cineasti, si muove in questa atmosfera di necessità di rimodulazione in senso realistico della cultura e delle arti italiane. Con il suo solito tono irriverente in Autobiografia di uno spettatore descrive il cinema francese come «greve di odori» rispetto a quello americano «lustro e asettico», capace di portare in scena un diverso materiale di corpi, di attori e di situazioni «dando allo spaesamento un altro spessore, un aggancio speciale tra i luoghi della mia esperienza e i luoghi dell’altrove (l’effetto chiamato “realismo” consiste in questo, avrei capito poi)».[12]
Nell’anniversario della fondazione della Repubblica, il 2 giugno 1949, scrive su l’Unità un articolo dal taglio profondamente politico dedicato a La Marseillaise (1938) di Jean Renoir in cui mette in relazione la marcia dei rivoluzionari francesi con quella dei partigiani italiani.[13] Anni dopo, nel 1958, si sofferma sulla tecnica narrativa di André Malraux in L’espoir-romanzo (1937) sottolineando gli elementi cinematografici su cui si fonda («visività, dialogo, ritmo») e ritenendola più significativa di quella di L’espoir-film (1945) per la «storia della tecnica di racconto del cinema». «Chissà – si chiede – se senza L’espoir-romanzo Rossellini avrebbe mai saputo raccontare gli episodi partigiani di Paisà e Clément La bataille du rail».[14]
Quanto all’altro mito della giovane generazione antifascista che esordisce nel dopoguerra, ovvero il cinema sovietico dei grandi autori come Ėjzenštejn o Pudovkin, Calvino non ne parla affatto nella sua Autobiografia di uno spettatore e raramente anche in altri contesti. Nella sua rapsodica attività di critico cinematografico, però, un articolo viene dedicato nel 1945 a Il compagno P. (Ona zaščiščaet rodinu, lett. Essa difende la patria, 1943) di Fridrich M. Ėrmler centrato sulla figura di una contadina partigiana in lotta contro i tedeschi. A Calvino il film appare esemplare non tanto per la sua riuscita estetica quanto per la sua capacità di incarnare la visione e la cultura del popolo, raggiungendo la «potenza delle epopee nate dalla fantasia popolare e tramandate di bocca in bocca, dei poemi corali di cui non è autore un uomo ma un popolo».[15] Molti anni dopo, quando è già uscito dal Partito Comunista a cui si è iscritto nel 1945, Calvino continua a difendere Padenie Berlina (lett. La caduta di Berlino, 1950) di Michail Čiaureli che ha visto a Mosca nel 1951 come esempio di epica popolare. Lo giudica «un’illustrazione dei fatti della guerra con lo stile d’un carretto siciliano, d’un cartellone da teatro dei pupi». Ma è anche convinto, ormai, che si tratti di un film reazionario in quanto rappresenta «un modo intellettualistico, paternalistico e folkloristico di considerare il “gusto popolare”». Il realismo socialista rappresenta ai suoi occhi «una concezione infantile e favolosa e natalizia della realtà».[16]
Tornando a Viaggio in camion, l’intento di calarsi in una compagine popolare, dentro uno dei tanti racconti orali del tempo di guerra, è uno degli obiettivi del soggetto, dove Calvino elabora un vero e proprio campionario di personaggi fortemente caratterizzati, muovendosi sulle corde del grottesco e dell’avventuroso che sfiora continuamente il tragico, senza mai farlo esplodere. Il camion diventa il contenitore di un’umanità variegata: donne che hanno il marito in guerra e si sono date alla borsa nera; una ex prostituta che si innamora di un giovanotto di bell’aspetto, ex bagnino che poi si scoprirà essere un partigiano; un milite e un renitente alla leva, visti come deboli creature vittime entrambe degli ingranaggi del potere e pronte a piangere nonché a fraternizzare; infine un grassone che fa affari con i tedeschi. Il camion passa in mezzo al paesaggio tragico dei bombardamenti, dei rastrellamenti e delle lotte partigiane. Tutti i personaggi si stringono in un’unione solidale contro i nazisti e si schierano con la Resistenza. Dopo varie vicissitudini il camion riprende il suo viaggio e per affrontare le salite si libera del carico in eccesso: al grassone ex collaboratore dei tedeschi che viene scaricato a terra è riservata l’ultima immagine del film, mentre il veicolo riparte «tra sbuffi del motore e canti».
La tensione alla caricatura è evidente nell’orchestrazione della tipologia dei personaggi e anch’essa si radica in una formazione che viene rievocata in Autobiografia di uno spettatore e che tocca fortemente, insieme a Calvino, tutta una generazione di sceneggiatori e registi. Il disegno umoristico ha un ruolo centrale nel cinema di Steno, Monicelli e Fellini (che lo scrittore segue fin dalle sue prove sul Marc’Aurelio, precedenti all’esordio registico), oltre a riguardare «un altro e più anziano dei padri fondatori del nostro cinema: Zavattini».[17] In un’intervista del 1966 Calvino inserisce tra i modelli delle sue narrazioni anche il disegno animato, che gli ha insegnato a definire «oggetti e personaggi con pochi tratti», e il fumetto, che «ha portato al nostro secolo un modo di raccontare del tutto nuovo».[18]
Tra le dichiarazioni d’intenti di Viaggio in camion, il riferimento a Ombre rosse di Ford (tratto da Boule de suif) rimanda a un altro terreno comune tra lo scrittore e i cineasti del dopoguerra. I moduli del western trasportati nel territorio italiano e nella ricerca di una nuova identità nazionale sono entrati in maniera evidente nei film di Pietro Germi, di Alberto Lattuada e di Giuseppe De Santis, insieme a quelli del gangster e del noir, o ai riferimenti all’espressionismo tedesco e al cinema sovietico. Dall’America proviene inoltre la nuova letteratura che Elio Vittorini e Cesare Pavese, i due punti di riferimento principali di Calvino, portano in Italia e che certo influenza la cultura cinematografica fin dal primo apparire nel 1943 di Ossessione di Luchino Visconti. Ricordando la visione del film, lo scrittore dichiara nel 1981: «Compresi che la sua poetica era la stessa dei romanzi americani che si leggevano allora».[19] Poco più tardi il modello della nuova letteratura americana verrà indicato dal critico francese André Bazin per esaltare le innovazioni narrative di Paisà.
Il tema della peregrinazione e del viaggio costituisce una linea portante di tutto il cinema, vecchio e nuovo, del dopoguerra, dove diventa, oltre a un meccanismo di racconto radicato nell’esperienza diretta, un’esplorazione conoscitiva del territorio e dell’antropologia sociale del presente e dell’immediato passato.
Nella prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno Calvino afferma che «la Resistenza rappresentò la fusione tra paesaggio e persone». Attraverso la memoria recente, il cinema italiano esce finalmente dalle scenografie astratte dei teatri di posa e si misura con un paesaggio antropomorfico, segnato dal dramma dell’esperienza bellica. Il viaggio diventa il motore dell’avventura conoscitiva che appartiene a tutta l’epopea resistenziale. La letteratura e il cinema rappresentano in questo periodo dinamiche di vita naturalmente legate a uno spirito di ricerca e di scoperta del mondo e di se stessi, che spazia dall’epica all’avventura, dal dramma alla mascherata comica, riuscendo ad attivare tutti i generi, tutti gli archetipi di un racconto antieroico del mondo. Il bambino protagonista di Il sentiero dei nidi di ragno porta in scena lo sguardo nuovo e già straniato dell’infanzia che è al centro del cinema dell’immediato dopoguerra a cominciare da Roma città aperta passando per Sciuscià, Ladri di biciclette, Germania anno zero, per citare soltanto i titoli maggiori.
3. Cinema e pubblico
Per Calvino il cinema del dopoguerra manifesta, rispetto alla letteratura, una maggiore capacità di incidenza nell’osservazione e nella conoscenza della realtà e della storia in quanto è un medium di massa che opera a stretto contatto con il pubblico. Uno scritto del 1949 intitolato sintomaticamente Letteratura, città aperta? si apre con una scanzonata acclamazione della produzione cinematografica postbellica: «Le liete sorprese, a vedere i nuovi film italiani, sono ormai diventate un’abitudine, e ogni volta, uscendo dal cinema, si riflette: “Perbacco, siamo ancora in gamba, in un campo almeno, dài e dài, la cultura italiana ha imbroccato un’epoca d’oro, ecco che l’Italia è riarrivata a esprimere un linguaggio mondiale e pure schiettamente suo”». Subito dopo Calvino sottolinea la principale differenza tra cinema e letteratura:
Il cinema è necessariamente legato alle masse, mentre la letteratura è sempre più incerta sul “per chi scrivere”. Il cinema forma, da De Sica a Zampa, da Rossellini a De Santis, un qualcosa di omogeneo, al di là d’ogni divergenza di contenuto ideologico e d’estetica, un qualcosa di compatto, perché ha una battaglia comune da combattere, contro un nemico definito: il cinema convenzionale e falso dell’americanismo cosmopolita. E sa che lo si combatte non inventando un’altra convenzione ma scoprendo la verità universale del proprio Paese. In poche parole: il cinema ha ben chiaro cos’è cinema e cos’è anti-cinema, cos’è Italia e cos’è anti-Italia. … Il cinema italiano è una cittadella contro la colonizzazione americana; deve la letteratura restare città aperta?[20]
Con una retorica inusuale Calvino attribuisce al cinema un maggiore valore di scoperta identitaria del Paese nominando alcuni tra gli autori più significativi del neorealismo: De Sica, Rossellini, De Santis, cui aggiunge Zampa. È uno dei rarissimi casi in cui offre dei nomi, mentre mai lo sorprendiamo nei suoi scritti a soffermarsi sui film esteticamente più sperimentali della stagione neorealista. A parte il rapido accenno a Paisà, Ladri di biciclette viene rievocato, senza neppure essere nominato, per ridimensionare l’affermazione di Pavese su De Sica come il più grande narratore del dopoguerra.
La risposta di Pavese a quell’intervista del 1950 Inchiesta sul neorealismo a cura di Carlo Bo era dichiaratamente una specie di scrollata di spalle per non far torto a nessuno dei suoi colleghi scrittori, e non pretendeva di sancire un’eccellenza del cinema italiano sulla letteratura.[21]
Nel 1952, in un’inchiesta su Rassegna del film lo scrittore afferma che «il cinema – a differenza delle altre arti – è strettamente legato al pubblico, direi condizionato da esso». Da qui deriva la sua forte incidenza nella cultura di massa su due piani diversi e opposti: come strumento conoscitivo, di riconoscimento e di educazione e come mezzo «che specula sulle vie più basse per emozionare il pubblico (erotismo, brutalità, comicità volgare, evasione, sfarzo, luccicore agli occhi) o sul conformismo mentale che porta al consenso meccanico quando si trattano certi temi (patria e guerra viste in modo retorico, affetti familiari lattemiele, religiosità oleografica».[22] Al cinema realistico italiano del dopoguerra si riconosce una funzione educativa: da una parte la rappresentazione e il rispecchiamento di vasti strati sociali, dall’altra la promozione di uno «spirito critico», di una «nuova coscienza».
Il cinema realistico italiano – scrive Calvino – riesce a “entrare” nel nostro pubblico in quanto questo acquista una nuova coscienza, un nuovo patriottismo attivo e problematico, cioè impara ad amare il proprio paese partecipando ai suoi problemi. È questa una rivoluzione morale di non piccola portata, ed essenziale alla formazione del cittadino democratico.[23]
Naturalmente un vero spirito critico non passa attraverso il cinema moralistico o a tesi, come è incline a promuovere tutta una parte della pubblicistica cinematografica marxista.
L’interesse di Calvino è rivolto principalmente a un cinema che sia contemporaneamente intrattenimento popolare e attivazione di una nuova conoscenza del mondo. Così come si può fare «letteratura di coscienza» (espressione ricorrente nei suoi scritti) senza rinunciare al divertimento, si possono realizzare film-spettacolo capaci di promuovere un dialogo e una comunicazione diretta con il pubblico. Non è un caso, dunque, che l’autore con cui si confronta maggiormente sia Luigi Zampa, anche se spesso le ragioni delle sue analisi filmiche sono ancorate al rapporto con la letteratura. Al gennaio del 1949 risale una recensione di Anni difficili (che ha alla base un soggetto di Vitaliano Brancati) destinata a l’Unità e non pubblicata in cui Calvino distingue il «cinema-arte» dal «cinema-giornalismo» collocando il film di Zampa sul secondo versante dove si privilegiano «preoccupazioni di contenuto, che son poi quelle, giuste o sbagliate, del giudizio spicciolo popolare».[24] Definendolo «film antifascista e positivo», lo scrittore cerca di togliergli di dosso anche le accuse di qualunquismo che gli sono state riversate contro dalla critica comunista, legata all’epoca a un forte dogmatismo ideologico.
Alle «modestissime pretese artistiche» di questo «saggio di costume» seguono, nel 1954, le riflessioni sull’adattamento che Zampa fa di La romana di Moravia, con la collaborazione alla sceneggiatura dello stesso autore e di Giorgio Bassani. Il film risulta a Calvino «mancato» sia in rapporto all’opera letteraria sia come rappresentazione dei costumi contemporanei. Ma proprio allontanandosi dallo spirito moraviano il regista «ci ha dato un bel drammone popolare, con dentro il sapore di quell’Italia sudata, poliziesca e corrotta».[25] «Utile» è la qualificazione attribuita spesso da Calvino al cinema di Zampa, che gli interessa in particolar modo «proprio per questa sua capacità di dare immagini tangibili agli umori, al moralismo pessimista dell’italiano medio, al suo giudizio su epoche recenti, e creare maschere contemporanee comiche o drammatiche, dall’Onorevole Angelina col marito poliziotto al funzionario ministeriale di Anni facili con la moglie ex donna fatale del regime».[26]
Nel cinema italiano che trae il maggior vigore dalla formazione letteraria e culturale dei suoi artisti migliori, Zampa ha un contatto con la realtà che non è di tipo letterario; è un regista che viene dalla parte del pubblico, non seguendolo passivamente ma interpretandolo e in qualche modo dirigendo le sue opinioni con un intento di moralità un po’ scettica, un po’ romanesca, ma che è anch’essa un fatto reale.[27]
In definitiva è proprio la distanza da posizioni intellettuali elitarie ciò che cattura l’attenzione di Calvino riportando il cinema su un orizzonte più schiettamente popolare, realizzando quell’incontro con le masse che costituisce un’aspirazione e una mancanza nella compagine comunista, protesa verso il progetto gramsciano di una dimensione nazional-popolare. Pur se pubblicati nell’inoltrato dopoguerra, tra il 1948 e il 1951, gli scritti di Gramsci per Calvino delineano perfettamente l’«uomo nuovo» uscito dal conflitto e dalla Resistenza.[28]
Si può dire che, in forme rovesciate rispetto all’anteguerra, il cinema che interessa più strettamente Calvino è ancora quello dell’alterità e, quindi, della distanza dalla sua dimensione di artista-letterato. Del resto, in Autobiografia di uno spettatore afferma chiaramente che i film dei grandi registi neorealisti hanno distrutto in buona parte il suo «piacere di andare al cinema», che non si misura sui «“film d’autore” con i quali entro in un rapporto critico di tipo “letterario”, ma su quanto può venir fuori dalla produzione media e minore, con cui cerco di ristabilire un rapporto da puro spettatore».[29] I film d’autore si distendono per Calvino sullo stesso piano delle opere letterarie del dopoguerra, rappresentano un parlarsi tra simili, tra giovani «delle stesse covate, con gusti, educazione, letture in comune».[30]
Vedere i film ha perso molto del suo carattere meraviglioso, adesso che quelli che li fanno sono dei nostri amici: il film non è più quel fiore di una pianta spuria e contaminata, con radici che vengono dal circo equestre, dal castello dei misteri, dalle cartoline al bromo, dai tabelloni dei cantastorie. Ed è un fatto che io mi diverto di meno.[31]
È come se ai suoi occhi le opere dei grandi registi neorealisti avessero annullato l’aspetto rituale e il potere incantatorio e performativo del cinema, quella caverna buia e ancestrale in cui si proiettano desideri, emozioni, sogni, credenze, aspirazioni, mitologie.
Nell’inchiesta apparsa su Cinema Nuovo nel 1953 oppone alla «lettura» critica del film promossa dal direttore Guido Aristarco la «visione» consumata in mezzo alla «platea di gente che sbuffa, ansima, sghignazza, succhia caramelle, ti disturba, entra, esce, magari legge le didascalie forte come ai tempi del muto; il cinema è questa gente, più una storia che succede sullo schermo».[32] Ed è a questa gente, a questo pubblico che i film devono rivolgersi, secondo l’esempio americano dell’anteguerra, che Calvino vede come una sorta di «cinema ideale», «con il suo catalogo di divi-personaggi, di convenzioni-situazioni, che corrispondono ad altrettante realtà o ad altrettante ipocrisie anch’esse storicamente reali e importanti».[33]
Ai suoi occhi il nuovo cinema realista del dopoguerra non è riuscito che sporadicamente a trovare una dimensione popolare.
Il problema interessante del nuovo cinema italiano [scrive] era vedere se il linguaggio di Visconti, De Sica, Rossellini, Castellani riusciva a proliferare, se da stile poetico riusciva a diventare lingua corrente e a dar vita a una buona serie di drammi popolari e di farse popolari di produzione media.[34]
Gli esempi in questa direzione sono a suo giudizio pochi: oltre a Zampa indica Steno e Monicelli insieme a Germi. I grandi film neorealisti rimangono nella maggior parte dei casi eventi elitari che non riescono a forgiare un nuovo gusto e ad avere un’efficace rappresentatività popolare. Già nella seconda metà degli anni Quaranta il pubblico continua a prediligere i prodotti americani che sono tornati a dominare il mercato e, in ambito nazionale, i film sganciati dall’attualità, i film in costume, avventurosi e operistici.
4. I corpi dei divi
Le poche recensioni e i reportage giornalistici sul cinema italiano di Calvino trovano spazio inizialmente sul quotidiano comunista l’Unità, dove tiene una rubrica intitolata ‘Gente del tempo’, per poi spostarsi su Cinema Nuovo, tra gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, attraverso la stesura di articoli e la partecipazione a svariate inchieste sul realismo e sulle forme romanzesche che coinvolgono insieme letterati, cineasti, critici e artisti.
Come inviato de l’Unità sul set di Riso amaro (1949) Calvino si confronta con l’avventura della lavorazione in mezzo agli scenari naturali, tra una moltitudine di comparse, vere mondine che provengono «in gran parte dal modenese», da cui arrivano notizie di comizi comunisti e di scontri con la polizia di Scelba. La scena che si sta girando è quella del duello per la donna tra il bandito, interpretato da Vittorio Gassman, e il militare che ha i tratti di Raf Vallone, ex collega giornalista de l’Unità.
Il cronista-scrittore ha un piglio divertito nel descrivere il cinema al lavoro, attraverso immagini che sembrano vignette e caricature: per tre volte ci presenta il regista sul carrello o «appollaiato dietro la macchina da presa» che si arrotola un «ciuffo di capelli tra le dita». La terza volta gli scappa la battuta: «De Santis spiega, corregge, interpreta la parte di tutti, attorcigliando e avviticchiando il ciuffo in mezzo al cranio (è lo stesso gesto che fa Cesare Pavese mentre scrive; che sia un segno distintivo della scuola realistica?)».[35] L’ironia si riversa dal personaggio all’etichetta realista. Calvino, come si è detto, tende a usare il meno possibile il termine neorealismo, che viene introdotto piuttosto tardi (a partire dal 1948) nel dibattito d’epoca per definire la nuova arte del dopoguerra ed è all’inizio osteggiato da tutti in ambito sia cinematografico sia letterario. Pavese e Vittorini, per esempio, tenderanno a relegarlo principalmente in campo filmico, giudicandolo inadeguato a esprimere il nuovo corso della letteratura postbellica.
Al di là di questo ambiguo e polivalente concetto di realismo ormai innalzato come una sorta di bandiera, Calvino sottolinea che De Santis manifesta un «amore della realtà» che «rasenta il fanatismo», ed è mosso dalla volontà di fare un «cinema vero» stabilendo contatti con ambienti popolari autentici come quelli delle risaie. Una volontà che passa attraverso determinati atteggiamenti, convenzioni e strumenti della macchina cinematografica: riflettori «appesi ai pioppi come tante lune impigliate tra le foglie»; Gassman e Vallone spinti uno contro l’altro per rendere più verosimile il loro duello; il regista che imbocca i suoi interpreti, sulla base di una sceneggiatura di ferro, come sappiamo, oppure che canta le canzoni delle mondine; gli stessi ciak ripetuti all’infinito tanto da far dire a Calvino: «Il cinema mi sembra l’arte della fatica sprecata». Ma ciò che lo attrae di più è il materiale umano, i corpi degli attori e soprattutto delle attrici. La sua descrizione dal vivo di Silvana Mangano, che è ancora una sconosciuta, merita di essere ricordata:
Silvana Mangano sarà una delle grandi fortune del film. È romana, ha diciott’anni, il viso e i capelli della Venere di Botticelli, ma un’espressione più fiera, dolce e fiera insieme, occhi scuri e capelli biondi, un incarnato terso e limpido, senza ombre né luci, spalle che si aprono con una dolcezza da cammeo, un busto d’una ardita armonia di linee trionfali e aeree, la vita come uno stelo snello, e un mirabile ritmo di curve piene e d’arti longilinei. Insomma a farla breve, Silvana Mangano m’ha fatto una grandissima impressione e devo dichiarare che nessuna fotografia può bastare a darne l’idea.[36]
Fin dalle sue immersioni da adolescente nel cinema americano, Calvino trattiene assai più le figure e i nomi dei personaggi-divi che quelli dei registi. Ed è fin troppo ovvio e naturale. Ma anche nel dopoguerra questa inclinazione da puro spettatore non viene mai meno, in quanto rimangono pur sempre i personaggi incarnati dai divi a offrire al pubblico modelli e stili di comportamento, a riflettere culturalmente e sociologicamente un determinato ambiente e un ideale di vita.
Nel reportage dal festival di Venezia del 1954 la sua attenzione è tutta concentrata sulla «presenza fisica in mezzo a noi di personaggi straordinari in cui ciascuno trasferisce una parte di se stesso, delle sue irrealizzate aspirazioni» e vuole «sentirsi riverberare dalla luce favolosa che il mondo del cinema irradia».[37] Finalmente «sotto i riflettori della tv apparve Gloria Swanson»:
Sfolgorò il bianco dei quadrati denti aggressivi e dei tondi bulbi degli occhi attorno alle iridi d’acciaio, piena di forza e allegria in quella bruna pesante carne di veterana. Ecco, il cinema, questa infinita potenza e vitalità che la gente confusamente cercava in quest’atrio era lei, Gloria Swanson, la progenitrice, venuta dalla favolosa età dell’oro di Hollywood.[38]
Nella seconda puntata del servizio da Venezia (La paura di sbagliare), dedicato in buona parte a La romana di Zampa, la penna di Calvino si sofferma su una diva nostrana, che per lui non ha certo la luce dell’empireo hollywoodiano: Gina Lollobrigida si sforza di costruire, con un serio impegno di recitazione e di studio, il personaggio di una popolana italiana, dopo essere stata una «pastorella d’Arcadia» in Pane amore e fantasia (1953) di Luigi Comencini, alle origini del cosiddetto neorealismo rosa, incoronato da grandi successi di pubblico.
In un articolo successivo intitolato Gina burocratica, racconta il tentativo della Lollobrigida di amministrare la propria immagine e la propria presenza, di non farsi annientare dal mito divistico, da quella bellezza carnale che la divinizzazione del pubblico rende «astratta», riduce a «oggetto, idolo» e che, alla fine, «brucia chi la detiene». Anche in questo caso le riflessioni di Calvino passano sempre attraverso il sottofondo ironico delle sue acute descrizioni della ‘maggiorata’ proveniente dai concorsi di bellezza, che negli anni Cinquanta incarna il nuovo divismo all’italiana:
La sua femminilità laziale, da secoli intrisa di cattolicesimo prelatizio, s’esprime soprattutto nel biancore appena rosato della pelle, che abbaglia chi per la prima volta la vede in carne e ossa, e che tempera in controriformistica dolcezza contemplativa l’abbrivio dei sensi – e insieme testimonia – quale prudente, avara conservatrice di se stessa essa sia, fino a sottrarsi al raggio del sole.[39]
Al Festival di Venezia la Lollobrigida seduta al tavolo dei direttori generali, tra i funzionari ministeriali, comunica a Calvino «un remoto senso di tavolo d’ufficio, come se questa Venere romana fosse nata dal mare di carte della Capitale, dai sogni pigri degli sterminati ministeri».[40]
L’anno successivo, il 1955, il reportage dal festival di Venezia viene affidato all’immaginazione e alla trasfigurazione letteraria, senza più neppure un titolo di film o un nome di richiamo. Calvino immagina il Gustav Aschenbach di La morte a Venezia di Thomas Mann che approda al Lido ed è «preso da un senso di inferiorità» per le sue pagine letterarie «così avare ed esangui» rispetto al cinema e a tutto ciò che gli gira intorno. Così al posto dell’«efebo gentile» (il meraviglioso Tadzio che molti anni dopo, nel 1971, Visconti riprenderà con vera nostalgia decadente) Calvino immagina che il desiderio di Aschenbach si proietti su «una fanciulla aspirante stella, tutta seno e coscienza che nulla al mondo conti più di quel seno, la divetta più attonita e priva di dubbi sulla potenza d’un corpo e sull’abilità d’amministrarlo, senz’altra civiltà che un’ingenua retorica del sex appeal».[41] Un divismo al ribasso, ormai diseducativo che porta la «noia» come una forma di colera nel festival veneziano. La storiella inventata è l’occasione per riflettere sulla natura e lo stato del cinema, sempre legato alla sua permeabilità e rappresentatività sociale. Per Calvino il cinema è
la realtà più immediata e l’idealizzazione più smaccata, una libertà d’espressione grande quanto il mondo visibile e una convenzione codificata all’estremo, la fama più altisonante e impudica, l’atmosfera di ricchezza onnipotente, e insieme il senso di lavorare per un mondo di povera gente, per le folle anonime che si stiperanno nelle sale buie. … Il cinema è: tecnica e baraccone, volgarità e sapienza raffinata, avventura per chi lo fa e per chi lo vede.[42]
Ma basta che il cinema «perda inventiva e coraggio, non getti più idee e realtà nella caldaia, e subito comincia a macinare noia».[43] Smette di essere un motore di critica e identità sociale, diventando il termometro e il megafono della vacuità dei tempi presenti.
5. Il mito del realismo e del romanzo, tra cinema e letteratura
Tra gli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, gli interventi di Calvino sulle questioni del realismo e del romanzo, sul rapporto tra cinema e letteratura appaiono contemporaneamente fuori e dentro le ottiche dell’engagement della critica marxista allora imperante. Come afferma chiaramente in Il midollo del leone, riferendosi alla letteratura, è convinto assertore dell’impegno morale e politico dell’intellettuale ma è contrario all’indottrinamento, al passaggio «dall’analisi critica alla denuncia, alla indicazione dei rimedi, alle impostazioni di lotta, alla critica delle deficienze, alla soluzione positiva e così via».[44] Il «realismo socialista» gli appare rinchiuso in una «poetica pastorale»[45] a cui, tuttavia, riconosce di aver avuto un’influenza sull’arte comunista dell’Occidente e sulla propria narrativa.
È anche molto scettico riguardo al rilancio, nel cinema come nella letteratura, del romanzo ottocentesco, sulla base dei modelli forniti da Lukács.
Usciti dall’Ottocento [scrive] il suo ideale estetico s’appanna d’una soffice patina di noia: non vi ritroviamo il nervosismo, la fretta del nostro vivere, cui hanno risposto non più il romanzo costruito, ma il taglio lirico del romanzo breve, o la novella giornalistica e cruda con cui Hemingway eccelse, come la perfetta misura della nuova epoca.[46]
Le tesi parallele di Carlo Salinari in ambito letterario e di Guido Aristarco in ambito cinematografico sul passaggio dal neorealismo al realismo, ovvero dalla cronaca alla storia, dalla novella al romanzo (attraverso Metello di Vasco Petrolini e Senso di Visconti) rimangono assai lontane dalle sue esperienze e dalle sue linee estetiche e teoriche. Scrivendo sugli «amori difficili dei romanzi con i film», Calvino guarda a Senso (1954), al di là del suo celebrato passaggio dal neorealismo al realismo critico, come un rapporto libero con il testo letterario di Camillo Boito, che viene indicato per la prima volta da Visconti nei titoli di testa, laddove in Ossessione non era dichiarata la derivazione da Il postino suona sempre due volte (The Postman Always Rings Twice) di James Cain e in La terra trema (1948) quella da I Malavoglia di Giovanni Verga. Boito, dichiara Calvino, è un «minore che non gli può dar ombra e che può adoperare come vuole senza che nessuno protesti», dando vita a un’operazione in cui i suggerimenti letterari si intrecciano liberamente a quelli figurativi nel costruire «il dramma della decadenza in tempo di rivoluzione», con la prospettiva di raccontare «una storia contemporanea»,[47] temi e problemi non confinati nel passato storico ma vivi nel presente. Un film, dunque, che al di là del gioco delle classificazioni realiste svolge ancora il ruolo di intervento critico sulla storia e sul presente.
Un’altra analisi legata al rapporto tra cinema e letteratura riguarda Le amiche (1955) di Michelangelo Antonioni. Anche in questo caso non è importante per Calvino la fedeltà al testo di Pavese (Tra donne sole) ma lo stile del regista, il suo modo di raccontare «che si rifà alla lezione dell’understatement di tanti scrittori moderni tra cui anche Pavese». Pur non risparmiando alcune critiche alla costruzione dei personaggi, sottolinea il venire in primo piano dell’«osservazione di costume, come è del resto compito del cinema, e conformemente alla vocazione d’amaro cronista d’una generazione borghese»[48] che riconosce ad Antonioni.
Il cinema ha una facoltà maggiore rispetto alla letteratura di incidere sul costume di una società, di porsi come strumento di diffusione e riflessione, critica o acritica, sui modelli di vita e di comportamento. Questa facoltà è strettamente legata alla natura del suo linguaggio, oltre che alla sua funzione di medium di massa. I rilievi sociologici di Calvino non sono mai disgiunti da considerazioni di ordine linguistico ed estetico. Con la sua solita stringatezza scrive che raccontare al cinema significa «evocare dei sentimenti e pensieri generali attraverso immagini necessariamente precise» mentre, viceversa raccontare nella letteratura vuol dire «evocare delle immagini precise con delle parole necessariamente generiche».[49] Attraverso la riproduzione delle immagini il cinema sembra offrire «una suggestione di verità più diretta»,[50] anche se a Calvino non può sfuggire che questa verità ha un carattere sostanzialmente illusorio. «Sotto i proiettori del cinema [scrive nel 1961] ogni verità si trasforma presto in maniera, in retorica, in menzogna».[51] Nella ‘lezione americana’ dedicata nel 1985 alla ‘Visibilità’ l’immagine cinematografica viene sganciata da ogni immediatezza e oggettività riproduttiva e vista come il risultato di un complesso processo che prevede vari strati: la fissazione della visività nella forma scritta della sceneggiatura, l’attivazione del «cinema mentale» del regista che ricostruisce materialmente l’immagine sul set e la riprende con la macchina da presa. Con l’espressione «cinema mentale» Calvino indica una facoltà interiore che riguarda tutte le arti, precedendo la nascita della settima arte e la novecentesca civiltà dell’immagine. Il «cinema mentale» si forma all’incrocio di vie diverse che intrecciano «l’osservazione diretta del mondo reale», «la trasfigurazione fantasmatica e onirica», «il mondo figurativo trasmesso dalla cultura» e «un processo d’astrazione, condensazione e interiorizzazione dell’esperienza sensibile, d’importanza decisiva tanto nella visualizzazione quanto nella verbalizzazione del pensiero».[52]
Fin dall’immediato dopoguerra la sua idea di realismo, nel cinema come nella letteratura, è sempre svincolata dalla piatta mimesi del reale e dalle strette logiche della verosimiglianza. In un’inchiesta del 1956 afferma, pensando chiaramente anche alla propria narrativa, che «realismo e gusto dell’inverosimile»[53] non si escludono a vicenda se la loro funzione è sempre quella di indagare e riflettere sul mondo che ci sta attorno, di interrogarsi su «un certo modo di stare nel mondo».[54] Così ai suoi occhi una «giusta definizione del realismo», nella furia ideologica del dibattito degli anni Cinquanta, può limitarsi al tentativo di «rappresentare la complessità del reale»,[55] dove il vero e il falso non fanno altro che scambiarsi le parti, dove l’immaginario diventa una componente del reale, una dimensione fenomenologica dell’esistenza.
A Calvino non interessa neppure la discesa dell’intellettuale nel mondo popolare attraverso il dialetto o le compiacenze regionalistiche che grande rilievo acquistano nel realismo del dopoguerra, cinematografico e letterario. Afferma di essere «contro il dialogo a urli incomprensibili di certi film anche buoni»[56] e non perde occasione per manifestare la sua contrarietà al doppiaggio che rappresenta ai suoi occhi un malcostume tipicamente italiano. Nell’inchiesta su Cinema Nuovo del 1953 auspica la creazione di un «buon cinema d’avventura» come «unico cinema popolare possibile».[57]
Nonostante le interrelazioni costanti tra cinema e letteratura e la partecipazione degli scrittori al cinema del dopoguerra, Calvino continua incessantemente a sottolineare la funzione primariamente sociale della settima arte, equiparandola in certi casi al giornalismo e alla «saggistica sociologica».[58] In forza della parvenza di verità delle immagini, a suo giudizio il cinema ha bruciato e sottratto molta materia al romanzo letterario realistico: «Ambienti, personaggi, situazioni che il cinema ha fatto propri non possono più essere accostati dalla letteratura: come se fossero stati rasi al suolo all’interno dalle termiti, appena gli s’avvicina la mano non ne resta che polvere».[59]
A Calvino interessa ben poco anche la fase letteraria del film ovvero la scrittura della sceneggiatura che spesso coinvolge amici e colleghi. Nell’intervista a Lietta Tornabuoni del 1981 dichiara di detestare «i libri con la sceneggiatura del film». Tuttavia, in quanto collaboratore della casa editrice Einaudi, alla fine del 1951 propone «un bel volume di Zavattini soggettista che salvi dall’oblio storico, nella composita e plurima arte del cinema, la parte del soggettista – dello scrittore». Nonostante il nome di Zavattini compaia raramente tra i modelli e i riferimenti espliciti di Calvino, in una lettera del 1942 diretta all’amico Eugenio Scalfari scrive: «Leggi Zavattini: se lo avessi letto prima, forse avrei scritto meglio tutto quel che ho scritto in gioventù».[60] E nel 1943, in un’altra lettera, afferma che i propri raccontini pubblicati su Roma fascista (Dieci soldi in plastilina, Invece era un’altra, Passatempi) «forse ancor più che da Vittorini traggono ispirazione da uno scrittore a mio parere assai migliore: Zavattini».[61] A metà degli anni Cinquanta Einaudi accoglie la nuova collana ‘Italia mia’ che riprende nel titolo una vecchia idea cinematografica di Zavattini poi trasformatasi in progetto di «connubio tra libro e film»,[62] tra scrittura e fotografia. Il primo volume è Un paese di Paul Strand e Zavattini. Gli altri avrebbero dovuto essere dedicati a Napoli e a Milano e affidati rispettivamente a De Sica e a Visconti, come risulta dal resoconto calviniano della presentazione romana della collana.
Nei primi anni Sessanta gli interventi sul cinema d’autore di Antonioni, Visconti e Fellini testimoniano ancora la lontananza di Calvino dalle formule del ‘realismo critico’ di impronta lukacsiana e del film-romanzo alla base della critica di Aristarco e di Cinema Nuovo. Rocco e i suoi fratelli (1960) di Visconti viene avvicinato all’epopea del film gangster e visto nella chiave «della forte accensione d’una atmosfera naturalistica», mentre La dolce vita (1960) sceglie «la via della commedia di caratteri simbolico-ideologici».[63] Rifiutandosi di considerare L’avventura (1960) un film decadente e letterario, secondo le indicazioni di Cinema Nuovo, Calvino esalta il metodo di ricerca di Antonioni, il suo lavoro sugli interrogativi e sui dubbi piuttosto che sulle dimostrazioni, la mancanza di ogni «minima sbavatura di complicità populistica», il linguaggio scarno che chiede al pubblico «di fare lo sforzo di giudizio che compie di solito (o dovrebbe compiere) di fronte alla realtà».[64] E poco tempo dopo torna a soffermarsi sulla modernità del linguaggio e dei personaggi di Antonioni che gli appare ancora poco compresa in Italia, focalizzando l’attenzione sulla funzione critica e conoscitiva attribuita alle figure femminili, rievocando il modulo della passeggiata e del «giocherellare» in La notte (1961) e in L’eclisse (1962) come forme di interrogazione sull’esistenza nelle nuove dinamiche della società contemporanea. Scrive: «Il viso di Monica è diventato ormai simbolico in una nostra mitologia interiore». Per suo tramite Antonioni vuole
girare occhi diversi sul mondo, anzi diventare occhio soltanto: difatti il finale del film L’eclisse dissolve il personaggio, rappresenta la sua assenza, il suo rifiuto, in un lirico susseguirsi di immagini. (Un cinema dell’occhio puro che è proprio il contrario del romanzo del puro regard: qui ogni cosa appare nella pienezza dei suoi significati storico-sociali.[65]
La parabola del neorealismo si è ormai chiusa da tempo e il cinema italiano degli anni Sessanta porta lo sguardo in altre direzioni, a cui, tuttavia, Calvino riserverà riflessioni sempre più occasionali, anche se estremamente significative, per la sua capacità di individuare nuove forme di narrazione e di visione, al di là degli schemi consunti di una vecchia nozione di realismo e di romanzo. In un’intervista del 1966 sui Cahiers du Cinéma torna a interrogarsi sulla diversa natura di letteratura e cinema, sui legami genetici di quest’ultimo con la narrazione orale e con forme popolari di spettacolo come il circo, il music-hall, il grandguignol. Nei confronti del cinema la letteratura è stata ai suoi occhi una «cattiva maestra», in quanto lo ha portato a seguire le forme tradizionali del romanzo.
La grande novità degli ultimi anni è la coscienza diffusa che il cinema deve cercare modelli diversi dal romanzo tradizionale. La sfida della parola scritta continua ad essere uno dei motori principali dell’invenzione cinematografica, ma, contrariamente al passato, la letteratura ha cominciato ad agire come modello di libertà. Il cinema odierno dispiega una grande ricchezza di modalità narrative: si può fare cioè il film di memoria, il film diario, il film di autoanalisi, il film nouveau roman, il film poema lirico, ecc.[66]
Contro il film-romanzo, Calvino esalta il film-inchiesta e il film-saggio captando esemplarmente gli impulsi più significativi del nuovo cinema degli anni Sessanta, a livello nazionale e internazionale. E confermando il suo modo duplice di guardare al cinema: come spettacolo popolare, investito di un valore antropologico, e come sperimentazione estetica, in continuo dialogo con le altre forme artistiche. Al primo versante rimane quasi sempre legato il piacere della sala e del rito collettivo, mentre sull’altro crinale si dispone il più sofisticato ‘piacere del testo’, come lo chiamerà negli anni Settanta Roland Barthes.
1 I. Calvino, Guardare. Disegno, cinema, fotografia, arte, paesaggio, visioni e collezioni, a cura di M. Belpoliti, Milano, Mondadori (Oscar Moderni), 2023. Si intitola L’occhio di Calvino il libro che Belpoliti pubblica nel 1996 per Einaudi. Al 2008 risale il volume di Maria Rizzarelli, Sguardi sull’opaco. Saggi su Calvino e la visibilità (Acireale-Roma, Bonanno).
2 L. Pellizzari (a cura di), L’avventura di uno spettatore. Italo Calvino e il cinema, Bergamo, Pierluigi Lubrina, 1990 (nuova edizione ampliata: Artdigiland 2015); V. Santoro, Calvino e il cinema, Macerata, Quodlibet, 2011; D. M. Zazzini, Il cinema per me era tutto il mondo: Italo Calvino spettatore, Teramo, Galaad, 2022.
3 I. Calvino, ‘Autobiografia di uno spettatore’, in F. Fellini, Quattro film, Torino, Einaudi, 1974, pp. IX-XXI; ora in I. Calvino, Guardare, pp. 151-167.
4 Ivi, p. 156.
5 Ivi, p. 162.
6 I. Calvino, ‘Prefazione’, in Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1964; ora in Id., Romanzi e racconti, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, I, Milano, Mondadori (I Meridiani), 1991 (2003), pp. 1185 e 1187.
7 Ivi, p. 1186.
8 I. Calvino, ‘Necessità d’una critica letteraria’, Cultura e realtà, 1, maggio-giugno 1950, ora in Id., Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, I, Milano, Mondadori (I Meridiani), 1995, p. 1501.
9 I. Calvino, ‘La letteratura italiana sulla Resistenza’, Il movimento di liberazione in Italia, I, 1° luglio 1949, ora in Id., Saggi 1945-1985, p. 1493.
10 I. Calvino, ‘Il midollo del leone’ (1955), in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980, ora in Id., Saggi 1945-1985, p. 12.
11 I. Calvino, ‘Viaggio in camion’, Cinema Nuovo, a. IV, n. 57, 25 aprile 1955, p. 293, ora in Id., Romanzi e racconti, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, III, Milano, Mondadori (I Meridiani), 1994, p. 499.
12 I. Calvino, Autobiografia di uno spettatore, p. 156.
13 I. Calvino, ‘Forse «La Marsigliese» è un film che possiamo capire solo noi’, l’Unità, 25, 122, 2 giugno 1948, ora in Id., Guardare, pp. 52-53. Secondo Pellizzari il pezzo, firmato con una sigla, «per ampollosità di stile e di tono non rientra sicuramente nel modus calviniano». Cfr. L. Pellizzari (a cura di), L’avventura di uno spettatore, p. 145.
14 I. Calvino, ‘Malraux da l’espoir a de Gaulle’, Cinema Nuovo, VII, 135, settembre-ottobre 1958, ora in Id., Guardare, p. 110.
15 I. Calvino, ‘Film sovietici. Compagno P.’, La Verità (Organo della Federazione comunista di Imperia), I, 14, 1° ottobre 1945; ora in Id., Guardare, p. 43.
16 I. Calvino, ‘Sciolti dal giuramento’, Cinema Nuovo, VI, 120-121, 15 dicembre 1957; ora in Id., Guardare, pp. 104-105.
17 I. Calvino, Autobiografia di uno spettatore, p. 165.
18 I. Calvino, risposta a ‘Questions aux romanciers’, in Film et roman. Problèmes du recit (sous la direction de C. Ollier et J-A. Fieschi), Cahiers du Cinéma, 185, decembre 1966; traduzione in Cinema Nuovo, XVI, 186, marzo-aprile 1967; ora con il titolo ‘Film e romanzo’, in I. Calvino, Guardare, p. 148.
19 I. Calvino, ‘Calvino: il cinema inesistente. Intervista con lo scrittore, in giuria alla prossima mostra di Venezia’, a cura di L. Tornabuoni, La Stampa, 23 agosto 1981, ora, con il titolo ‘Scrutatore di film’, in Id., Guardare, p. 187.
20 I. Calvino, ‘Letteratura, città aperta?’, Rinascita, aprile 1949; ora in Id., Saggi 1945-1985, pp. 1488 e 1489-1490.
21 I. Calvino, risposta a ‘Quattro domande sul cinema italiano’, Cinema Nuovo, X, 149, gennaio-febbraio 1961, ora in Id., Guardare, p. 124.
22 I. Calvino, risposta all’inchiesta su ‘Il cinema e la libertà della cultura’, Rassegna del Film, I, 6, agosto-settembre 1952, ora in Id., Guardare, pp. 63-64.
23 Ivi, p. 64.
24 I. Calvino, ‘Intervento sul film «Anni difficili» di Luigi Zampa’, p. 58.
25 I. Calvino, ‘La paura di sbagliare’, Cinema Nuovo, III, 43, 25 settembre 1954, ora in Id., Guardare, p. 79.
26 Ivi, p. 81.
27 Ibidem.
28 I. Calvino, ‘La letteratura italiana sulla Resistenza’, p. 1500.
29 I. Calvino, ‘Autobiografia di uno spettatore’, p. 162.
30 I. Calvino, ‘Il realismo italiano nel cinema e nella narrativa’, Cinema Nuovo, II, 10, 1° maggio 1953, ora in Id., Guardare, p. 66.
31 Ivi, pp. 66-67.
32 Ivi, p. 67.
33 Ivi, p. 66.
34 Ivi, p. 67.
35 I. Calvino, ‘Tra i pioppi della risaia la «cinecittà» delle mondine. Il regista di Caccia tragica sta girando Riso amaro’, l’Unità, 25, 157, 14 luglio 1948, ora in Id., Guardare, p. 56.
36 Ibidem.
37 I. Calvino, ‘L’inaugurazione. Venezia primo tempo’, Cinema Nuovo, III, 42, 1°settembre 1954, ora in Id., Guardare, p. 74.
38 Ivi, p. 75.
39 I. Calvino, ‘Gina burocratica’, Il Contemporaneo, I, 34, 20 novembre 1954, ora in Id., Guardare, p. 95.
40 Ibidem.
41 I. Calvino, ‘La noia a Venezia’, Cinema Nuovo, IV, 65, 25 agosto 1955, ora in Id., Guardare, p. 97.
42 Ibidem.
43 Ibidem.
44 I. Calvino, ‘Il midollo del leone’, p. 20.
45 I. Calvino, ‘Sciolti dal giuramento’, pp. 105-106.
46 I. Calvino, ‘Le sorti del romanzo’, Ulisse, X, vol. IV, 24-25, autunno-inverno 1956-1957, ora in Id., Saggi 1945-1985, pp. 1512-1513.
47 I. Calvino, ‘Gli amori difficili dei romanzi coi film’, Cinema Nuovo, III, 43, 25 settembre 1954; ora in Id., Guardare, p. 89.
48 I. Calvino, ‘«Le amiche» e Pavese’ (lettera aperta a Michelangelo Antonioni), Notiziario Einaudi, IV, 11-12, novembre-dicembre 1955, ora in Id., Guardare, pp. 99-100.
49 I. Calvino, Risposta a ‘Quattro domande sul cinema italiano’, p. 124.
50 Ibidem.
51 I. Calvino, ‘Dialogo di due scrittori in crisi’ (conferenza del marzo-aprile 1961), in Una pietra sopra, ora in Id., Saggi 1945-1985, p. 87.
52 I. Calvino, ‘Visibilità’, in Id., Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988, pp. 699 e 710.
53 I. Calvino, ‘Realismo e gusto dell’inverosimile’, in Id., Sono nato in America. Interviste 1951-1985, a cura di L. Baranelli, Milano, Mondadori (Oscar Moderni), 2022, p. 27. Si tratta di risposte a un’inchiesta di Pier Francesco Listri per Il Nuovo Corriere, 6, giugno 1956. Il testo proposto da Baranelli è conservato tra le carte di Calvino e risulta «più ampio e in qualche punto diverso da quello pubblicato».
54 I. Calvino, ‘Letteratura e società’, in Id., Sono nato in America, p.109. Il testo ripropone le risposte alla tavola rotonda ‘La letteratura si trasforma. Cosa diventerà?’, Il Giorno, 10 novembre 1965.
55 I. Calvino, ‘Realismo e gusto dell’inverosimile’, p. 26.
56 I. Calvino, ‘Il realismo italiano nel cinema e nella narrativa’, p. 68.
57 Ibidem.
58 I. Calvino, ‘Dialogo di due scrittori in crisi’, p. 87.
59 Ibidem.
60 Cfr. I. Calvino, Lettere 1940-1985, cura di L. Baranelli, Milano, Mondadori (Oscar Moderni), 2023, p. 61.
61 Ivi, p. 76.
62 I. Calvino, ‘Zavattini e Visconti presentano «Italia mia»’, Notiziario Einaudi, IV, 5, maggio 1955, ora in Id., Guardare, p. 232.
63 I. Calvino, Risposta a‘Quattro domande sul cinema italiano’, p. 127.
64 Ivi, p. 126.
65 I. Calvino, ‘Le donne si salvano?’, Il Giorno, VII, 102, 29 aprile 1962, ora in Id., Guardare, pp. 136-137.
66 I. Calvino, ‘Film e romanzo’, p. 146.