1.7. Interno/Esterno Vitti. Traiettorie insolite in case all’italiana

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«Vendetemi uno dei tre appartamenti, io non potrei mai disturbare: non ci sono quasi mai!» (Martellini, 2022). L’interesse di Monica Vitti per la Casa Papanice di Via Marchi al Nomentano sembra essere piuttosto emblematico del ‘domesticare’ dell’attrice. Progettato da Paolo Portoghesi, il villino rappresenta una riuscita sintesi di arte e natura: un capolavoro post-moderno e libertario che si presta decisamente ad accogliere le prassi abitative dell’attrice. Il «venire a patti» (Meloni, 2014) con lo spazio domestico della commediante sembra infatti essere tutt’altro che ordinario: i passi di Vitti segnano traiettorie insolite, in grado di abbattere potenzialmente le divisioni spaziali più tradizionali o di determinare una caduta della separazione tra sfera pubblica e privata. A partire dallo studio delle commedie interpretate dall’attrice, l’intervento si propone di indagare l’abitare cinematografico vittiano: un agire ‘micro-domestico’ che sembra porsi in connessione con il livello macro-societario’ nonché con l’impatto di questo «corpo imprevisto» (Cardone, 2017) sulle strutture identitarie.  

 

1. Nel cuore della società

A me piacciono le case minuscole come un rifugio. Ne ho una, di due stanzine e cucina, a Porto Rotondo, sul mare e in quella casa sto bene, anche perché appena posso mi infilo dentro al mare e finalmente mi sento in pace. Questa che abito per me è una casa troppo grande, troppo importante. Sa cosa vorrei io? Una casetta con un terrazzino sopra la scalinata di piazza di Spagna (Robiony, 1982, p. 1).

È il 1982 e a raccontare a una giornalista del periodico La stampa della difficile intesa con il proprio appartamento romano è Monica Vitti. L’abitazione è «la sola e unica casa da ragazza», presa in affitto dopo aver lasciato la famiglia negli anni in cui Vitti diviene la musa dell’incomunicabilità del cinema antonioniano:

L’ho fatto per far contento Michelangelo Antonioni, che già allora era un uomo importante e serio, un uomo che scelse, per me e per lui, due case, una sopra e una sotto, tutte e due importanti e serie. Mi sembrò così bella, così elegante questa casa, che avevo paura ad andarci ad abitare. E se poi mi abituo al lusso, pensavo, come faccio a tornare indietro? (Robiony, 1986, p. 1).

Vitti, in realtà, di case (sebbene cinematografiche) ne abiterà molte negli anni a venire. La collaborazione con il regista segna infatti, con L’avventura (M. Antonioni, 1960), l’esordio di una figura «spersonalizzata» (Gundle, 2007, pp. 301-302) e dall’immagine assai diversa rispetto a quella delle colleghe affermate nel Paese: «Ero tutta sbagliata per il cinema di quegli anni. Ero bionda, lentigginosa, alta, secca, il seno non ce l’avevo e avevo la vita larga, e questa voce qui. Era sbagliato il mio naso, la mia faccia non era italiana» (Mori, 1985, p. 165). Portando avanti un percorso cominciato a teatro (Senza rete, 1954; Sei storie da ridere, 1956; I capricci di Marianna, 1958) e in film comici diretti da registi come Edoardo Anton (Ridere! Ridere! Ridere!, 1954), Glauco Pellegrini (Una pelliccia di visone, 1956), Mario Amendola (Le dritte, 1958), Alessandro Blasetti (La lepre e la tartaruga, primo episodio dell’opera collettiva Le quattro verità, 1963) o Roger Vadim (Il castello in Svezia, 1963), Vitti imboccherà successivamente la strada che la condurrà alla commedia all’italiana. Il disco volante (T. Brass, 1964) la vedrà vestire i panni di una moglie fedifraga e inaugurerà una lunga serie di film di successo (come La ragazza con la pistola di Mario Monicelli, 1968) [fig. 1] nonché di sodalizi noti – in particolare con Alberto Sordi, attore con cui esploderanno «scintille, di comicità e sintonia, tanto da bucare lo schermo» (Borsatti, 2022, p. 109) –, che le faranno conquistare la fama di mattatrice del genere.

La ‘seconda via’ di Vitti si impernia su una varietà piuttosto ampia di storie femminili. Tra la metà degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta, in una trentina di film, l’attrice presenta innumerevoli ‘prototipi di donne’ che spaziano tra epoche, estrazioni, stati civili o professioni differenti. Giocato sull’ironia e l’autoironia, il racconto di queste realtà si propone di coniugare sfumature intimistiche a caratteristiche più prettamente sociali. Come nota Cristina Colet, Vitti ha la capacità di cogliere ed esporre le volubilità e le aspirazioni delle donne a ridosso del boom economico, la riscoperta della loro posizione pubblica e dei rapporti con il maschile (Colet, 2019, p. 687): «Provo una gioia immensa quando una donna mi ferma per la strada e mi manifesta il suo entusiasmo, non per una interpretazione, ma per aver saputo rendere, viva e vera, una madre, una figlia, una moglie, un’amante» (Mori, 1985, p. 167).

Sulla scia del lavoro compiuto da Jacqueline Reich su Marcello Mastroianni, la quale ha speso alcune riflessioni sui film in cui l’attore è protagonista per dimostrare come i ruoli da lui interpretati «riflettano una mascolinità italiana in crisi nel dopoguerra» (Reich, 2004, p. xiii), si può dunque provare ad approfondire ulteriormente le dinamiche di una tale (auto)investitura, anche perché quanto si è riportato inizialmente sulla sontuosa e intimidatoria dimora dell’attrice offre un interessante spunto per intessere un simile ragionamento.

Sin dai film antonioniani Vitti sembra infatti divenire un «elemento integrante dell’iconografia eterea, esistenzialista e modernista promossa dal regista negli anni sessanta»: emerge in queste pellicole una forte rilevanza «degli interni mid-century per raccontare l’alienazione della società del tempo» (Ottone, 2022). Nondimeno, perciò, le abitazioni che contraddistinguono le commedie interpretate dall’attrice e dirette da registi come Mario Monicelli, Ettore Scola, Dino Risi si direbbero fungere da «specchio dell’evoluzione artistica e sociale del paese» (Ottone, 2022) nonché da luogo ideale per la rappresentazione di strutture identitarie alternative e di un peculiare agire ‘micro-domestico’.

Detto altrimenti, la sfera domestica popolata dalle donne messe in scena da Vitti sembra introdurci «nel cuore stesso della società» (Paggi, 2014, p. 439), andando a contornare il modello identitario di quella che, prendendo a prestito le parole di un articolo del quotidiano Stampa Sera, si potrebbe provvisoriamente definire la figura della «antimoglie» (Vald, 1972, p. 9): un tipo di donna, per calcare nuovamente le parole di Colet, non più incarnata dal modello materno come negli anni Cinquanta e che si mostra con i suoi desideri e aspirazioni in un periodo di completo stravolgimento sociale (2019, p. 685).

Per provare a esaminare più a fondo questi aspetti ci si può quindi avvalere di alcuni concetti chiave proposti da Pietro Meloni e Silvia Paggi, nonché ripercorrere brevemente alcuni passaggi di commedie incentrati su «l’uso (o il consumo) dello spazio domestico» (Meloni, 2014, pp. 419-438), da Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca) (E. Scola, 1970) a Gli ordini sono ordini (F. Giraldi, 1972).

 

2. Interno/esterno

Una delle prime questioni che l’osservazione dello spazio domestico pone riguarda le sue delimitazioni, ricorda Paggi. La storia del ménage à trois del muratore Oreste, della fioraia Adelaide e del pizzaiolo Nello [fig. 2] si presenta conseguentemente come un campo ideale per compiere un simile tentativo di studio.

Le vicende interpretate da Vitti, in Dramma della gelosia, si svolgono prevalentemente all’esterno, spesso in veri e propri «non-place» filmici (Harbord, 2007, p. 10) come le stanze di ospedale. Seppur ridotta, l’esibizione delle case abitate da Adelaide risulta però alquanto significativa.

Del primo appartamento, data la preponderanza di primissimi piani, i numerosi tagli di montaggio nonché l’innesto di flashback (imperniati sulla storia della relazione clandestina della fioraia con il pizzaiolo), si può avere infatti una visione quasi esclusivamente ‘cristallizzata’. L’abitazione appare come una sorta di ‘camera da letto’ estesa e floreale, corredata, quasi fosse un’appendice, di cucinino con lavatrice.

Si tratta, d’altra parte, della dimora e degli oggetti che vedono la donna e Nello ‘essere felici’ all’insaputa di Oreste ed è, quindi, proprio il campo-controcampo del fidanzato e dei due amanti intenti nelle loro effusioni a porre in evidenzia un’ulteriore caratteristica dello spazio nonché l’agevole violabilità dei confini esterni, dato che l’uomo assiste al tradimento da una posizione di sorprendente prossimità.

Nel film diretto da Scola, Adelaide ‘domestica’ però anche un’ulteriore dimora, di proprietà di un ricco pretendente macellaio: Amleto Di Meo. Gli sguardi sulla donna pensosa, in vitro tra il soggiorno e la terrazza di Casa Papanice di Via Marchi al Nomentano – un edificio rinomatamente post-moderno e libertario che, progettato da Paolo Portoghesi, rappresenta una riuscita sintesi di arte e natura (Gottardo, 2008) –, sono emblematicamente disorientanti [fig. 3]. Le diapositive proiettate da Amleto a Oreste mostrano infine un primo piano di Adelaide che punta un ossobuco durante il banchetto di presentazione alla famiglia e danno a presagire, oltre a una certa propensione per le ‘soglie’ della donna, anche un suo «venire a patti con la materia» (Meloni, 2014, p. 422) poco ortodosso.

 

3. Prossimità alimentari anomale

Nello spazio domestico «comportamenti quotidiani fortemente ritualizzati» si esprimono generalmente «sotto forma di tecniche del corpo […] regolate secondo un sistema di valori proprio a ogni cultura» (Paggi, 2014, p. 439). In quanto, quindi, alla disamina in questione, è l’incipit del film Gli ordini sono ordini a offrire un esempio di quelle che, diversamente, si potrebbero definire nei termini di «abilità domestiche» delle figure vittiane: un habitus «già deciso in precedenza, che definisce di fatto le nostre possibilità di scelta» (Meloni, 2014, p. 426).

Nella pellicola di Giraldi l’attrice interpreta una casalinga sposata con un direttore di banca workaholic, la quale decide di ribellarsi alla propria condizione suggestionata da una misteriosa voce. La macchina da presa si accosta a Giorgia che lucida un vetro di una finestra ed è intenta nelle mansioni casalinghe. La sequenza è caratterizzata da un certo dinamismo e da numerose inquadrature ravvicinate dei prodotti impiegati per la cura della casa, ossia per mettere in ordine, lucidare il lavello mentre la lavatrice è in funzione, cucinare un dolce «con il lievito pimpante». Le prassi sono fortemente razionalizzate e deducibilmente orchestrate per accogliere e servire la cena al marito Andrea. La protagonista, tuttavia, espone queste consuetudini con serietà eccessiva e in modo plateale, quasi brechtiano, nonché rivolgendosi talvolta allo stesso spettatore.

Il radicale sovvertimento ‘dell’ordine costituito’ giunge tuttavia solamente la mattina successiva, quando il lavoro della donna ricomincia. Giorgia prepara un uovo all’occhio di bue ad Andrea, siede al tavolo, lo invita a consumare la propria colazione e incomincia a fumare. La camera si avvicina al volto della moglie e allo strano suono di un fischietto essa sbarra gli occhi sulla nitida immagine dell’impeccabile manicaretto impiattato. Alla domanda di una voce maschile («Cosa aspetti?») la mano di Giorgia comincia quindi a muoversi e il tuorlo dell’uovo viene lentamente violato dalla sigaretta accesa.

 

4. Case dis-abitate e antimogli

Giunti a questo punto, che cosa portano a concludere i primi indizi raccolti sulla sfera abitativa delle figure femminili incontrate? In primo luogo, va tenuto conto di come agli interni casalinghi, nelle commedie esaminate, venga tutto sommato riservato un ruolo marginale. Questo si direbbe infatti di per sé agire contro a qualsiasi pericolo di confinamento della donna nella vita domestica nonché in opposizione a una generale assenza sociale: il «baluardo dell’autorità patriarcale nelle relazioni familiari» (Rampazi, 2014, p. 11).

La predilezione per ‘camere con vista’ disorientanti, disarticolate e talora connotate artisticamente si direbbe quindi muoversi nella medesima direzione, andando verosimilmente a minare la radicata idea della casa come «nido protetto» (Rampazi, 2014, p. 11) e, soprattutto, dando alle donne una peculiare e inedita occasione di intima visibilità.

Questi spazi cinematografici sembrano quindi prestarsi a essere ‘dis-abitati’ in piena libertà dalle donne interpretate da Vitti. Al loro interno si manifestano gesti di distacco ironico e sovvertimento, in grado di stravolgere, attraverso iterate trasgressioni del ‘buon senso’ alimentare, la valenza di un ‘atto sacrificale’ perpetrato nel tempo come il gesto del cucinare (Sassatelli, Davolio 2014, p. 515).

Nelle conclusioni, sebbene si tratti di una primissima incursione in un campo non privo di asperità, la cornice domestica predisposta nei film diretti da Scola e Giraldi si direbbe complessivamente concorrere all’esposizione della parte più eversiva delle figure di antimoglie vittiane, per giunta secondo una dinamica non del tutto aliena da riverberi più personali.

Alla richiesta di spiegare «quali associazioni di idee, di ricordi, di pensieri, di immagini del passato del presente […] chiamano le lettere anonime dell’alfabeto» Monica Vitti, in un’intervista, si sofferma a parlare dello stile floreale:

C’è molto Liberty nella mia casa. […] Lo scopersi a Parigi negli anni Sessanta, e lo trovai, se non molto elegante […] estremamente divertente: mi piaceva, di questo stile, la morbidezza delle linee, l’estrema considerazione, che aveva, in sé, della donna, e insomma mi parve un fatto estetico spettacolare. E così cominciai: un candeliere a Parigi, subito dopo tre lumi a New York. E via via ho aggiunto. Ma adesso basta. Basta, un po’ perché siamo in troppi: c’è un’invasione di Liberty dappertutto. E un po’ perché avrei tanta voglia di cose un po’ più rigorose (Mori, 1985, p. 178).

Bibliografia

C. Borsatti, Monica Vitti, Giunti, Firenze-Milano 2022.

L. Cardone, ‘Monica Vitti: un corpo imprevisto’, Arabeschi, n. 10, 2017.

C. Colet, ‘Monica Vitti. Un’icona della modernità’, in S. Parigi, C. Uva, V. Zagarrio (a cura di), Cinema e identità italiana, Roma TrE-Press, 2019, pp. 681-690.

F. Gottardo, Paolo Portoghesi. Disegnare l’Ambiente, Roma, Gangemi Editore, 2008.

S. Gundle, Figure del desiderio: storia della bellezza femminile italiana dall’Ottocento a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2007.

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A.M. Mori, ‘Monica Vitti’, in G. Ascoli et al., Perché lei. Bellisario Carrà Cederna Fendi Fracci Jotti Levi-Montalcini Marzotto Mina Orfei Vitti, Roma-Bari, Laterza, 1985, pp. 162-182.

L. Ottone, ‘Monica Vitti era il design al cinema’, Domus, 3 febbraio 2022, <https://www.domusweb.it/it/architettura/2022/02/02/monica-vitti-sul-set-tra-architettura-e-design-.html> [Accessed 9 September 2022].

S. Paggi, ‘Antropologia filmica dello spazio domestico’, Lares, vol. 80, n. 3, 2014, pp. 439-452.

M. Rampazi, Un posto da abitare. Dalla casa della tradizione all’incertezza dello spazio-tempo globale, Milano, LED, 2014

J. Reich, Beyond the latin lover: Marcello Mastroianni, masculinity, and Italian cinema, Bloomington, Indiana University Press, 2004.

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R. Sassatelli, F. Davolio, ‘A cena da noi. Ospitalità e negoziazioni simboliche della domesticità’, Lares, vol. 80, n. 3, 2014, pp. 504-522.

A. Vald., ‘La Vitti antimoglie, Stampa sera, 16 aprile 1972, p. 9.