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Il film Castaway on the Moon (2009) del regista sud coreano Lee Hey-Jun si colloca nella tradizione delle Robinsonnades con una novità interessante. Lo spazio dell’isola in cui vive un naufrago ‘urbano’, dentro la città di Seul, ha un corrispettivo speculare nella stanza di una ragazza hikikomori che lo osserva dalla finestra. Due eterotopie, isola e stanza chiusa, dialogano inaspettatamente attraverso i personaggi che le abitano. La camera della ragazza hikikomori rappresenta un intero mondo, terrestre e lunare, reale e virtuale. Il disagio dell’autoreclusione è attenuato dalla ricerca di un’armonia interiore che la protagonista troverà attraverso l’osservazione del mondo esterno.

South Korean director Lee Hey-Jun’s Castaway on the Moon (2009) is part of the Robinsonnades tradition with an interesting novelty. The space of the island where an ‘urban’ castaway lives, inside the city of Seoul, has a mirror equivalent in the room of a hikikomori girl who observes him from her window. Two heterotopias, island and closed room, unexpectedly dialogue through the characters who inhabit them. The hikikomori girl’s room represents an entire world, terrestrial and lunar, real and virtual. The discomfort of self-enclosure is mitigated by the search for an inner harmony that the protagonist will find through observation of the outside world.

Tradotta dal sud coreano Kim’s Island, Castaway on the Moon è la seconda opera del regista Lee Hey-Jun, che esordiva nel 2006 con il film Like a Virgin, scritto e diretto insieme a Lee Hae-Young e insignito di numerosi premi. Lee Hey-Jun inaugurava con quel film un percorso tematico che avrebbe proseguito nelle produzioni successive: il protagonista di Like a Virgin è un sedicenne sovrappeso, fan di Madonna, che cerca di vincere i soldi necessari all’intervento chirurgico per cambiare sesso impegnandosi in competizioni liceali di wrestling. Le tematiche giovanili inerenti a ricerca dell’identità, rapporti familiari e solitudine hanno interessato numerosi film in cui Lee Hey-Jun ha lavorato sia come sceneggiatore (ad esempio Coming Out del 2000) sia come regista (ad esempio My Dictator del 2014).

In Castaway on the moon Hey-Jun affronta la tematica dell’isolamento giovanile contestualizzandola in due spazi speculari: l’isola e la camera da letto. Inserendosi nella tradizione occidentale delle Robinsonnades, il regista propone la vicenda di un giovane che fa ‘naufragio’ a poca distanza dalla capitale coreana: la sua storia viene osservata – e parzialmente narrata – da una ragazza hikikomori che guarda il mondo esterno dalla finestra della sua stanza attraverso il potente obiettivo della macchina fotografica. La presenza femminile, quasi del tutto assente in Defoe e molto rarefatta nelle riprese successive della vicenda di Robinson Crusoe, come vedremo assume qui un ruolo diegetico decisivo come nesso tra due spazi separati e distanti, rifugio delle rispettive solitudini. La stanza di Kim, la ragazza, da luogo di autoimposta intimità diventa lentamente e progressivamente proiezione sul mondo e ponte verso la conquista dell’identità.

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«Vendetemi uno dei tre appartamenti, io non potrei mai disturbare: non ci sono quasi mai!» (Martellini, 2022). L’interesse di Monica Vitti per la Casa Papanice di Via Marchi al Nomentano sembra essere piuttosto emblematico del ‘domesticare’ dell’attrice. Progettato da Paolo Portoghesi, il villino rappresenta una riuscita sintesi di arte e natura: un capolavoro post-moderno e libertario che si presta decisamente ad accogliere le prassi abitative dell’attrice. Il «venire a patti» (Meloni, 2014) con lo spazio domestico della commediante sembra infatti essere tutt’altro che ordinario: i passi di Vitti segnano traiettorie insolite, in grado di abbattere potenzialmente le divisioni spaziali più tradizionali o di determinare una caduta della separazione tra sfera pubblica e privata. A partire dallo studio delle commedie interpretate dall’attrice, l’intervento si propone di indagare l’abitare cinematografico vittiano: un agire ‘micro-domestico’ che sembra porsi in connessione con il livello macro-societario’ nonché con l’impatto di questo «corpo imprevisto» (Cardone, 2017) sulle strutture identitarie.  

 

1. Nel cuore della società

È il 1982 e a raccontare a una giornalista del periodico La stampa della difficile intesa con il proprio appartamento romano è Monica Vitti. L’abitazione è «la sola e unica casa da ragazza», presa in affitto dopo aver lasciato la famiglia negli anni in cui Vitti diviene la musa dell’incomunicabilità del cinema antonioniano:

Vitti, in realtà, di case (sebbene cinematografiche) ne abiterà molte negli anni a venire. La collaborazione con il regista segna infatti, con L’avventura (M. Antonioni, 1960), l’esordio di una figura «spersonalizzata» (Gundle, 2007, pp. 301-302) e dall’immagine assai diversa rispetto a quella delle colleghe affermate nel Paese: «Ero tutta sbagliata per il cinema di quegli anni. Ero bionda, lentigginosa, alta, secca, il seno non ce l’avevo e avevo la vita larga, e questa voce qui. Era sbagliato il mio naso, la mia faccia non era italiana» (Mori, 1985, p. 165). Portando avanti un percorso cominciato a teatro (Senza rete, 1954; Sei storie da ridere, 1956; I capricci di Marianna, 1958) e in film comici diretti da registi come Edoardo Anton (Ridere! Ridere! Ridere!, 1954), Glauco Pellegrini (Una pelliccia di visone, 1956), Mario Amendola (Le dritte, 1958), Alessandro Blasetti (La lepre e la tartaruga, primo episodio dell’opera collettiva Le quattro verità, 1963) o Roger Vadim (Il castello in Svezia, 1963), Vitti imboccherà successivamente la strada che la condurrà alla commedia all’italiana. Il disco volante (T. Brass, 1964) la vedrà vestire i panni di una moglie fedifraga e inaugurerà una lunga serie di film di successo (come La ragazza con la pistola di Mario Monicelli, 1968) [fig. 1] nonché di sodalizi noti – in particolare con Alberto Sordi, attore con cui esploderanno «scintille, di comicità e sintonia, tanto da bucare lo schermo» (Borsatti, 2022, p. 109) –, che le faranno conquistare la fama di mattatrice del genere.

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