2.8. La camera-mondo di una ragazza hikikomori. Castawayon the Moon (2009) di Lee Hey-Jun

di

     
Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
Abstract: ITA | ENG

Il film Castaway on the Moon (2009) del regista sud coreano Lee Hey-Jun si colloca nella tradizione delle Robinsonnades con una novità interessante. Lo spazio dell’isola in cui vive un naufrago ‘urbano’, dentro la città di Seul, ha un corrispettivo speculare nella stanza di una ragazza hikikomori che lo osserva dalla finestra. Due eterotopie, isola e stanza chiusa, dialogano inaspettatamente attraverso i personaggi che le abitano. La camera della ragazza hikikomori rappresenta un intero mondo, terrestre e lunare, reale e virtuale. Il disagio dell’autoreclusione è attenuato dalla ricerca di un’armonia interiore che la protagonista troverà attraverso l’osservazione del mondo esterno.

South Korean director Lee Hey-Jun’s Castaway on the Moon (2009) is part of the Robinsonnades tradition with an interesting novelty. The space of the island where an ‘urban’ castaway lives, inside the city of Seoul, has a mirror equivalent in the room of a hikikomori girl who observes him from her window. Two heterotopias, island and closed room, unexpectedly dialogue through the characters who inhabit them. The hikikomori girl’s room represents an entire world, terrestrial and lunar, real and virtual. The discomfort of self-enclosure is mitigated by the search for an inner harmony that the protagonist will find through observation of the outside world.

Tradotta dal sud coreano Kim’s Island, Castaway on the Moon è la seconda opera del regista Lee Hey-Jun, che esordiva nel 2006 con il film Like a Virgin, scritto e diretto insieme a Lee Hae-Young e insignito di numerosi premi. Lee Hey-Jun inaugurava con quel film un percorso tematico che avrebbe proseguito nelle produzioni successive: il protagonista di Like a Virgin è un sedicenne sovrappeso, fan di Madonna, che cerca di vincere i soldi necessari all’intervento chirurgico per cambiare sesso impegnandosi in competizioni liceali di wrestling. Le tematiche giovanili inerenti a ricerca dell’identità, rapporti familiari e solitudine hanno interessato numerosi film in cui Lee Hey-Jun ha lavorato sia come sceneggiatore (ad esempio Coming Out del 2000) sia come regista (ad esempio My Dictator del 2014).

In Castaway on the moon Hey-Jun affronta la tematica dell’isolamento giovanile contestualizzandola in due spazi speculari: l’isola e la camera da letto. Inserendosi nella tradizione occidentale delle Robinsonnades, il regista propone la vicenda di un giovane che fa ‘naufragio’ a poca distanza dalla capitale coreana: la sua storia viene osservata – e parzialmente narrata – da una ragazza hikikomori che guarda il mondo esterno dalla finestra della sua stanza attraverso il potente obiettivo della macchina fotografica. La presenza femminile, quasi del tutto assente in Defoe e molto rarefatta nelle riprese successive della vicenda di Robinson Crusoe, come vedremo assume qui un ruolo diegetico decisivo come nesso tra due spazi separati e distanti, rifugio delle rispettive solitudini. La stanza di Kim, la ragazza, da luogo di autoimposta intimità diventa lentamente e progressivamente proiezione sul mondo e ponte verso la conquista dell’identità.

La storia. A Seul un giovane aspirante suicida approda sulla piccola isola disabitata del fiume Han, di fronte alla città, e una ragazza autoreclusa nella sua stanza lo osserva dalla finestra. La vicenda dura alcuni mesi prima dell’esito finale in cui i protagonisti, lasciando le loro ‘nicchie’ esistenziali, si incontreranno di persona. Isola e stanza privata sono i due spazi eterotopici, chiusi ad altre persone, con funzione di dispositivi narrativi che danno vita a una narrazione speculare. La tradizione delle Robinsonnades è richiamata in modo metatestuale in primo luogo attraverso il titolo che riprende il Cast away (2000) del film di Robert Zemeckis, e in secondo luogo a livello diegetico attraverso il romanzo di Defoe e le successive riscritture, in particolare quella del naufragio ‘urbano’ del protagonista del romanzo Concrete Island (1974) di James B. Ballard. L’elemento di maggiore novità è l’inserimento del personaggio femminile e del suo spazio privato, che mettono in primo piano una serie di tematiche, fra cui le più rilevanti sono la comunicazione visiva tra la ragazza alla finestra e l’uomo sull’isola, e la condivisione fra i due protagonisti dei nessi tra interno/esterno, spazio chiuso/aperto e solitudine/collettività.

Il primo piano del protagonista del film Kim – interpretato da Jung Jae-Young – apre Castaway to the Moon presentandolo al telefono mentre, con voce pacata, parla con un funzionario di una società di prestiti. La voce dall’altra parte scandisce il debito: sono molti milioni di won. La macchina da presa si allontana e il protagonista appare pericolosamente in bilico sul bordo esterno di un ponte su una grande strada. Seguono in rapida sequenza il saluto cordiale all’interlocutore, lo sguardo in soggettiva al fiume Han che scorre sotto i suoi piedi e il passaggio di un camion. Subito dopo l’uomo sul ponte non si vede più. Un suicidio per debiti un po’ goffo, destinato a fallire: l’uomo riappare sulla riva alberata a breve distanza dal ponte e, dopo una rapida perlustrazione, si rende conto di essere su una piccola isola disabitata di fronte alla città [fig. 1]. Falliti tutti i tentativi di chiedere aiuto ai battelli che passano indifferenti lì davanti o al numero di soccorso prima che si scarichi definitivamente la batteria del telefono, accantonata anche l’idea di fuggire a nuoto per paura dell’acqua, Kim si adatta progressivamente alla vita sull’isola, scopre il piacere di un ritorno alla natura e decide di restare a vivere lì. Le attività per costruire un rifugio, procurarsi il cibo e adattare la sua essenza cittadina alla nuova vita ripercorrono ironicamente le tappe diegetiche del romanzo di Defoe così come delle sue riscritture e adattamenti. La peculiarità dell’operazione del regista sud coreano consiste nel collocarsi nella continuità della tradizione inserendo più elementi di differenza: in primo luogo l’ambientazione urbana dell’isola, in secondo luogo la presenza femminile. Su questa permanenza del romanzo di Defoe nell’immaginario e sulla sua polisemia in grado di continuare a parlare al lettore si è soffermata anche Virginia Woolf. Il 24 aprile 1919 Woolf scriveva una riflessione su Defoe in occasione del bicentenario della pubblicazione di Robinson Crusoe. Per la scrittrice era l’occasione per ragionare brevemente – ma con la consueta efficacia sintetica – sul rapporto con la tradizione e con la sua ricezione. Non si tratta infatti, scrive Woolf, di celebrare un «labile spettro» o di doverne predire «l’inevitabile dissoluzione», ma piuttosto la questione riguarda quella «persistenza» dei classici cui la critica si è dedicata diffusamente:

Robinson Crusoe assomiglia al prodotto anonimo della razza, più che allo sforzo di una mente singola; e quanto a festeggiare il centenario è come se pensassimo di festeggiare il centenario di Stonehenge. Cosa che in parte potremmo attribuire al fatto che tutti abbiamo letto Robinson Crusoe a voce alta da bambini, sì che lo stato d’animo con cui accoglievamo Defoe e il suo romanzo era più o meno simile a quello dei greci rispetto a Omero. Mai ci sarebbe venuto in mente che esisteva un signor Defoe, e se ci avessero detto che Robinson Crusoe era opera di un essere con la penna in mano, la cosa ci avrebbe piacevolmente disturbato, o non avrebbe avuto per noi il benché minimo senso (Woolf 1919 cit. in Fusini 2021, p. 132).

Robinson patrimonio dell’umanità, dissociato dal suo autore, è per Virginia Woolf un testo che parla da solo, costituisce di per sé una delle pietre di Stonehenge. Woolf si avvicina con le sue parole a un concetto chiave sia della teoria novecentesca della ricezione sia dell’idea di riscrittura (o transduzione) postmoderna cara in particolare a Lubomir Doležel (1999): un’opera continua a parlare ai suoi successori tramite una disseminazione tanto materiale quanto immateriale. Riscrivere, rileggere e adattare un testo è un’operazione che scaturisce sia da una conoscenza diretta dell’opera o del suo autore sia invece da un’aria di familiarità e di accostamento creativo.

L’incursione più rilevante realizzata da Hey-Jun nell’immaginario secolare prodotto dal romanzo di Defoe riguarda senza dubbio il personaggio della giovane hikikomori e la sua collocazione in una stanza. Il personaggio femminile non è presente nel romanzo di Defoe, è cosa nota, se non nella figura iniziale della madre e in quella conclusiva della donna con cui, una volta tornato nel Regno Unito, Robinson si sposa e mette su famiglia. A introdurre il punto di vista femminile nella tradizione letteraria delle Robinsonnades avevano pensato, ad esempio, Jean Giraudoux con la naufraga Suzanne (1921) e J.M. Coetzee con il personaggio di Susan Barton, protagonista del romanzo metatestuale Foe (1986). Susan, dopo essere naufragata sull’isola in cui vivono un Robinson anziano e un Venerdì muto, tenterà di narrare la loro storia dal proprio punto di vista confrontandosi con la figura di un autore ideale, Foe, più propenso a formulare la versione avventurosa e coloniale del romanzo che lo stesso Defoe avrebbe scritto. Coetzee si distacca dalla tradizione che ha teso in massima parte a rispettare il canone del personaggio bianco, viaggiatore e dominatore sia nelle numerosissime riscritture letterarie che nei vari adattamenti cinematografici, da Meliés e Buñuel a George T. Miller. La grande novità del romanziere sudafricano è l’inserimento di una narratrice inaspettata che tenta di sovvertire il canone del protagonista maschio, europeo, colonizzatore e poco sensibile sia al linguaggio della natura sia a quello del corpo. Parte di questo tentativo di ‘nuova narrazione’ avverrà nel chiuso della casa di Londra in cui Susan Barton, insieme al sopravvissuto Venerdì, tenterà di scrivere una nuova versione di quella storia che, scrive Virginia Woolf, il lettore del Ventesimo secolo conosce di per sé, al di là del suo autore originario.

Nell’interpretazione cinematografica di Hey-Jun la giovane Kim – interpretata da Jung Ryeo-won – non esce dalla sua stanza da tre anni. A 27 minuti dall’inizio un breve stacco nero e l’immagine di un lucchetto introducono lo spettatore nel suo mondo privato. La vediamo di fronte a uno schermo, intenta ad aggiornare la sua immagine sul sito Myword, quello in cui scegliendo età, aspetto e lavoro «puoi crearti la vita che vuoi» [fig. 2]. Il suo personaggio virtuale è Orso blu, un avatar che cammina tra la folla, si è appena comprata delle scarpe blu di Chanel, indossa abiti eleganti che sottrae virtualmente alle donne che incontra per la strada, così come si appropria del volto di una passante per apparire più bella. Si presenta in voice off: «Non ho bisogno di uscire dalla mia stanza, mi bastano un po’ di click e posso avere tutto quello che voglio. Non importa se ciò che faccio è reale o meno: sono i commenti sul mio profilo che stabiliscono qual è la realtà». Il mondo dei giovani hikikomori, percepito negli anni Ottanta nei Paesi asiatici esclusivamente come problema sociale di disagio giovanile, è stato successivamente riconosciuto come un universo creativo che da una parte è stato ampiamente tematizzato nella produzione di anime e di manga e dall’altra si è rivelato fonte di creatività da parte degli stessi protagonisti, impegnati nella scrittura e nell’arte visuale (Marchisano-Quaianni Manuzzato 2018).

Alla realtà virtuale si affianca quella materiale che consiste nella sua stanza, nella famiglia che ne rimane fuori e nel tipo di relazione che Kim istaura dall’interno verso l’esterno. Con la madre che le parla da dietro la porta e le lascia il cibo pronto prima di andare al lavoro, Kim comunica con messaggi sul telefono. L’inquadratura della stanza mostra riserve di cibo in scatola, vestiti appesi, un certo disordine e sporcizia [fig. 3]. Tuttavia la voce fuori campo di Kim ci avverte che un ordine esiste, ci sono delle ‘regole’ che si è imposta: gli orari dei pasti, un numero preciso di passi giornalieri da fare nella stanza, le pulizie, l’uso del bagno quando la casa è deserta, il sonno all’ora in cui rientra il padre. In quella che Michelle Perrot nella sua Storia delle camere (2011, p. 84) inserirebbe fra le «camere personali», Kim racchiude il suo «diritto al segreto»: diversamente dalle camere da letto coniugali, in cui l’inaccessibilità degli sguardi esterni è dovuta al sesso, qui prevalgono le esigenze del trovare rifugio, del silenzio, della distanza dalla vita pubblica. Sono esigenze enfatizzate da alcuni momenti della vita quali, ricorda Perrot, quelli vissuti da giovani lontani dalla famiglia, da donne sole, da esuli, da stranieri, da anziani o da soli al mondo. Nell’adesione agli stimoli esterni da una parte e nel contenimento delle pulsioni interne e interiori dall’altra, possiamo interpretare la stanza rappresentata nel film come una camera-mondo: non tomba alla Oblomov, non sguardo ripiegato all’interno come nel Viaggio intorno alla mia stanza di Xavier de Maistre (1794) ma piuttosto un luogo in cui pensare e ritrovarsi e dal quale proiettarsi, cercando di superare gli ostacoli, all’esterno. In Castaway on the Moon la protagonista è immersa in un’esperienza di autoisolamento che in parte è rappresentata in maniera problematica (deve ricorrere all’ipnosi per riuscire a dormire, non vuole comunicare con i genitori e con nessun altro), ma al tempo stesso visualizza una modalità alternativa di esistenza e di cura di sé. La proiezione visiva verso quell’individuo strampalato dell’isola che chiama ‘l’alieno solitario’ la separerà progressivamente dal mondo virtuale per immergerla nuovamente, a fatica ma con soddisfazione, in quello reale.

Con il mondo all’esterno della sua stanza Kim ha un rapporto da voyeuse. Lo osserva mediante il potente obiettivo della macchina fotografica collocata su cavalletto davanti alla finestra: con questa può dedicarsi al suo hobby notturno, fotografare la luna, il posto dove non c’è nessuno e dove parlare di «solitudine non ha senso». Alle immagini di una Seul deserta Kim dedica i suoi due momenti dell’anno più intensi: durante l’esercitazione di massa che costringe la città a fermarsi e le strade a svuotarsi, la ragazza indossa un casco da motociclista [fig. 4] per poter aprire la finestra in tranquillità e fotografare le strade vuote. Immagina così di essere sulla luna, là dove non c’è gravità, e di ondeggiare nell’aria [fig. 5]. In una di queste occasioni scopre con l’obiettivo la presenza di Kim sull’isola. Dopo due mesi di osservazione da lontano dell’‘l’alieno solitario’, quando il naufrago è passato dalla disperazione alla gioia di vivere sull’isola cambiando il messaggio sulla sabbia da «help» a «hello», la ragazza della luna decide di andare da lui, di «scendere sulla terra» almeno una volta per poter comunicare con lui.

La prima uscita, di notte, con il casco sulla testa, serve a lanciargli una bottiglia con un messaggio dal ponte. Il messaggio contiene solo la parola «hello», ma il contatto è stabilito. Il naufrago sa di essere osservato, le risponde scrivendo sulla sabbia «how are you», la ragazza esce nuovamente di casa per lanciargli altri messaggi nella bottiglia. Il mondo le fa meno paura, inizia a soffermarsi su quanto vede e ad apprezzarlo. Sulle pareti della sua camera le fotografie scattate al naufrago si fanno sempre più numerose, soppiantando dopo qualche tempo lo spazio che era dedicato alle foto scattate alla luna [fig. 6]. Una volta interrotto l’isolamento con la prima uscita dalla stanza e stabilita una comunicazione a distanza con il suo omonimo, Kim riprenderà a parlare con la madre aprendo uno spiraglio della porta, farà più uscite notturne con il casco da motociclista in testa, oserà aprire la porta di casa e parlare con un rider a cui ha commissionato una consegna di cibo sull’isola come omaggio all’alieno. La situazione precipita con la scoperta e l’arresto dell’uomo: la parete che separava entrambi dalla realtà cade simultaneamente quando lui viene portato via dall’isola a forza e lei, osservando la scena con il cannocchiale, esce precipitosamente dalla stanza alla sua ricerca, senza indossare questa volta nessuna protezione. L’incontro fra i due su un autobus di linea e lo sguardo incredulo che si scambiano [fig. 7] chiude il film, lasciando allo spettatore la curiosità di sapere in quale tipo di stanza si ritroveranno adesso che sono all’esterno.

 

 

Bibliografia

J.B. Ballard, Concrete Island [1974], trad. it. L’isola di cemento, Milano, Feltrinelli, 2013.

J.M. Coetzee, Foe [1986], trad. it. Foe, Torino, Einaudi, 2015.

D. Defoe, Robinson Crusoe [1719], Milano, Garzanti, 2001.

L. Doležel, Heterocosmica. Fiction e mondi possibili, Milano, Bompiani, 1999.

N. Fusini (a cura di), Un anno con Virginia Woolf, Vicenza, Neri Pozza, 2021.

J. Giraudoux, Suzanne et le Pacifique [1921], trad. it. Susanna e il Pacifico, Palermo, Sellerio, 1998.

L. Hey-Jun, My Dictator (2014), regia.

L. Hey-Jun, Coming Out (2000), sceneggiatura.

L. Hey-Jun, Castaway on the Moon (2009), regia.

L. Hey-Jun, Like a Virgin (2006), regia.

S. Marchisano, L.M. Quaianni Manuzzato, ‘Fumetti in una stanza. Hikikomori e NEET nella nona arte’, Between, VIII, 15, maggio 2018, <https://ojs.unica.it/index.php/between/article/download/3254/3635/> [accessed 30 August 2022].

R. Zemeckis, Castaway (2000), regia.