1.2. Il “corpo comico”: Anna Magnani oltre il cinema di regime

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  • [Smarginature] Pelle e pellicola. I corpi delle donne nel cinema italiano →

Stupide bambolette imbalsamate: con queste parole Anna Magnani, nei panni della canzonettista Loletta Prima, in Teresa Venerdì (1941), definisce le donne per le quali il medico dell’orfanotrofio, interpretato da De Sica, la tradisce. È quindi un personaggio da lei interpretato ad esprimere l’enorme divario esistente tra il proprio modo di interpretare una donna in carne ed ossa e quello falso e artificioso delle tante commesse, segretarie private, telefoniste che popolano il cinema di regime. Questo breve intervento analizza come il corpo di Magnani, presente sul grande schermo dell’epoca in brevi apparizioni, abbia determinato, all’interno soprattutto del genere della commedia, la nascita di una performance erotica, destinata ad imporsi con prepotenza nel cinema del dopoguerra che archivierà le ʻstupide bombolette imbalsamateʼ. L’utilizzo del termine ʻcorpo comicoʼ in riferimento all’attrice è da intendersi non tanto come modalità espressiva per scatenare la risata bensì come corpo che, attraverso la parodia o l’atteggiamento caricaturale, desacralizza o nega un certo tipo di fisicità erotica (la vamp su tutte) proponendone un’altra altrettanto sensuale ed eccedente, ma alternativa. Magnani, in questo cinema lontano dalla realtà, viene quasi sempre reclutata per ruoli marginali e brillanti che a teatro e soprattutto nella rivista l’hanno resa famosa. Come numerosi suoi colleghi comici (Totò, Fabrizi, Govi, Macario, Musco, Galli), adatta con naturalezza per il nuovo medium i saperi teatrali appresi, modificandoli in minima misura: i registi dell’epoca infatti spesso erano poco propensi a rischiare e preferivano riproporre sul grande schermo performances collaudate sui palcoscenici della penisola. Così tra tutti i personaggi della ribalta (fioraia del Pincio, Cappuccetto Rosso, Anna Karenina, Fata turchina, prostituta in vestaglia), ecco Magnani recitare spesso sul grande schermo la parte della sciantosa con cappelli di piume e boa di volpi [fig. 1]: una figura che incarna al meglio una tipologia femminile inedita di donna emancipata, slegata da vincoli familiari, che svolge una professione moralmente riprovevole e che si esprime in maniera del tutto anticonvenzionale, non risparmiando cadute vertiginose nella volgarità. Se la pellicola di regime espelle la rappresentazione del corpo femminile come principio di seduzione, come afferma Grignaffini, è vero tuttavia che spesso spetta a figure muliebri – talvolta marginali, come Magnani – esprimere le tensioni interne alla sessualità e alla femminilità negate.

 

1. La parodia della soubrette

Nelle prime apparizioni filmiche Magnani è una presenza fugace: cameriera in Tempo massimo di Mario Mattoli (1934), giovane antipatica e petulante in Trenta secondi d’amore di Mario Bonnard (1934), amante in La cieca di Sorrento di Nunzio Malasomma (1934), chansonnier in Cavalleria di Goffredo Alessandrini (1936). Già in queste brevi prove si nota l’epifania di un corpo che non viene a patti con codici e convenzioni stabilite, soprattutto quando Magnani recita la parte della soubrette del varietà, un tipo che declinerà nelle sue molteplici sfaccettature. La ʻcanzonettaraʼ, dal piglio energico, scortese e sincera, è una donna del popolo che sotto la patina artistica vorrebbe mostrarsi grande signora invece finisce immancabilmente col rivelare la sua origine plebea. In questo personaggio Magnani convoglia apprendistato e creatività, su uno sfondo di realismo linguistico e di gestualità corporea inediti, almeno al cinema. Pur ridotta spesso a una presenza macchiettistica, sa imporsi non solo grazie all’uso pirotecnico della parola, cui fa da pendant una certa volgarità linguistica, ma soprattutto grazie ad una fisicità che esprime mimeticamente stati d’animo ed emozioni, come se lo schermo fosse il palcoscenico e la macchina da presa la platea adorante. In La fuggitiva (1941) di Piero Ballerini, nonostante la fugace apparizione, Magnani nel ruolo della soubrette Vanda Reni ha modo di esibire le parti del proprio corpo lasciate nude da una scollatura generosa, che le lascia scoperta anche la schiena su cui la mdp indugia quando la donna corre al capezzale della figlia ammalata [fig. 2]. Sono invece due film, di derivazione budapestina, Teresa Venerdì (1941) diretto da De Sica, e La fortuna viene dal cielo (1942) di Akos Rathonyi, a lasciarle sufficiente spazio per realizzare una performance attoriale nuova per l’epoca: sboccate nella loro sincerità, Loletta Prima e Zizì strizzano l’occhio allo spettatore attraverso le seducenti epifanie del ʻcorpo comicoʼ. Loletta, per esempio, indossa un vestito a forma di cuore che le lascia scoperto un generosissimo e seducente decolleté e una schiena formosa su cui la mdp ritorna più volte nel corso del film. Significative in proposito due scene: la prima vede Loletta mentre sta provando la sua parte a teatro sotto le direttive di un regista. Una sorta di performance nella performance in cui la soubrette canta, mimando con le braccia le parole del ritornello («qui nel cor… qui nel sen») in maniera molto allusiva. In un primo momento la mdp inquadra, in un totale, il gruppo delle cantanti ballerine con al centro la vedette Loletta in abito scollatissimo. Quando viene ripreso il regista teatrale nel gesto di rimproverare le giovani, la soubrette rimane in quadro con parte della schiena ripresa da dietro in piano americano. La prova riparte e Loletta viene inquadrata più da vicino offrendo allo sguardo una femminilità procace. Non appena c’è una pausa, la donna si tira su i risvolti del vestito in maniera grossolana e se ne va dicendo con faccia tosta che deve andare a telefonare. Nella seconda sequenza, Loletta viene ripresa dentro la cabina telefonica: in un cinema in cui la censura è molto attenta, il regista De Sica riprende la soubrette di fronte e di schiena, in piano medio: le sue nudità ora vengono mostrate a distanza ravvicinata, rispetto alla prima scena. Nel secondo film invece Zizì, storpiatura di Zazà di cui è l’evidente maschera parodica, si presenta ancora sguaiata ed insolente ed offre allo sguardo una fisicità atipica: dalla postura sgraziata con cui si appoggia al pianoforte al modo di rapportarsi con l’universo maschile (ripete più volte «cocco bello» e dà un colpetto sullo stomaco al cameriere), alla sensualità del corpo che lascia intravvedere la parte alta del seno e le braccia nude. In una sequenza successiva viene lasciato ancora spazio all’erotismo del ʻcorpo comicoʼ: in uno studio d’avvocato Zizì si sdraia su un divano come se fosse a casa propria, mettendo in mostra le gambe avvolte nelle calze [fig. 3]. Invece in La vita è bella (1943) di Carlo Ludovico Bragaglia, Magnani è comprimaria nella parte di Virginia, una signorotta di campagna, in odore di ʻzitellaggineʼ. Qui tesse egregiamente la parodia di Cecilia di Malombra, una parte già collaudata sui palcoscenici. Aggiunge – e lo si nota – alla componente svampita e tenebrosa del personaggio maniere brusche e scortesi, che condisce con l’utilizzo di un lessico molto colorito duettando con Virgilio De Riento e Carlo Campanini che le fanno da spalla. Esageratamente eccentrica nel modo di vestire, si rivolge agli uomini su di un piano di parità e con la consueta lingua sciolta. Il cinema, tuttavia, non le sta ancora assegnando lo spazio che merita: pur divenendo le sue parti meno marginali, non è ancora l’unica protagonista femminile. In Quartetto pazzo (1944-45) di Guido Salvini, ottiene infatti un ruolo da comprimaria al fianco di Rina Morelli. Ancora nella parte di una ricca borghese, Magnani usa di proposito vestiti scollati per riconquistare il marito, ritornato dall’Africa per chiederle il divorzio. Eloquente la scena in cui l’uomo, incapace di tenere a freno la passione amorosa, non esita a baciarla con trasporto sul collo e sul seno [fig. 4]. In Il fiore sotto gli occhi (1944) di Gennaro Righelli, è l’amante-soubrette di un professore di scuola, per giunta sposato con una donna bellissima (Mariella Lotti). Ancora una volta il regista gioca sui contrasti cromatici femminili (bionda-bruna) e sulla corporeità (magrezza-procacità). Il gioco delle parti, tipico della commedia budapestina, spesso fa entrare in campo l’artista del varietà-Magnani, disinibita e indipendente sul piano affettivo. Passando in rassegna questi film si nota che l’attrice riesce a riempire lo spazio filmico con la sua performance non solo catalizzando l’attenzione dello spettatore, ma anche sgomitando con le protagoniste femminili per rivendicare qualche altra battuta. È come se la sua presenza risultasse ingombrante o comunque potesse diventare pericolosa eclissando le prime donne. Per questo è stata relegata a recitare sempre la parte di popolana dotata di una spumeggiante vis comica. Lei, che bella non è mai stata, non può aspirare a ruoli di giovane romantica assegnati di solito alle ʻbamboletteʼ fotogeniche dello star system di regime.

 

2. La ʻfruttarolaʼ Elide: la popolana entra nel cinema italiano

«Io so’ fatta così, la forma non ce l’ho. Io non sono come quelle là», esclama la ʻfruttarolaʼ Elide in Campo de’ Fiori (1943) di Mario Bonnard, all’indirizzo del pescivendolo Peppino-Fabrizi, che le preferisce le ʻbamboletteʼ delle classi sociali superiori. È ancora un’affermazione di netta frattura con il divismo di regime e con un certo modo di recitare. Le protagoniste dei film decò appaiono ingessate e gelide: da Iole Voleri in La fuggitiva, a Vera Carmi in La fortuna viene dal cielo, a Adriana Benetti in Teresa Venerdì, a Caterina Boratto in Campo de’ Fiori. Bionde e fotogeniche passano davanti alla macchina da presa come presenze incorporee, di cui più che la fisicità si valorizzano i vestiti che indossano in linea con i gusti della moda littoria. Alla compostezza recitativa e alla misura dei gesti fa da pendant il comportamento debordante di Magnani e il linguaggio erotico del suo ʻcorpo comicoʼ. La ʻfruttarolaʼ Elide occupa l’inquadratura in campo americano: i capelli neri e lunghi arruffati e scomposti, uno scialle enorme che le copre le spalle e che si chiude con un nodo in vita. Il personaggio fa la sua apparizione mentre vende mele: «che belle mele che c’ho» urla in romanesco con la sua voce nasale rivolgendosi al pubblico dei frequentatori del mercato, e il sottinteso malizioso è abbastanza evidente. Certo è molto differente dalla sciantosa dei primi film [fig. 5], tuttavia la performance è sempre quella della popolana schietta, sboccata e litigiosa, ma dal cuore d’oro. Il battibecco dai toni mordaci con il suo vicino di banco riporta ai dialoghi altrettanto scoppiettanti delle prove precedenti, che avevano trovato in teatro l’agone ideale. La postura iniziale con le braccia aperte, la mela fatta saltellare sulla mano e la voce lanciata a squarciagola rivelano la profonda cesura che sta avvenendo all’interno del cinema di regime. Le varie pose dell’attrice, che parla con lo sguardo e pure con le smorfie e le risate sarcastiche, negano la femminilità codificata del cinema del fascismo a vantaggio di un essere donna atipico. Significativa è la scena al bar in cui Pecorino-De Filippo, il barbiere innamorato di Elide, posa un braccio sulla spalla della donna e poi con la mano le tocca il seno. Eloquente pure, al termine del film, il momento in cui Elide, dopo essersi sottoposta ad un restyling per rabbia e desiderio di rivalsa, attende fuori dal cinema: la mdp la inquadra alle spalle e indugia sul suo corpo. Appena si gira lo spettatore vede che si tratta proprio della linguacciuta ʻpiazzarolaʼ. La giovane si presenta con una mano in tasca e una dentro il cappotto in un gesto per nulla elegante, tenendo la pochette all’interno del braccio [fig. 6]. Fabrizi le fa i complimenti per la permanente e per le scarpe coi tacchi: è diventata Elide come Elsa, il tipo di donna che piace agli uomini? No di certo; tuttavia in parte si è adeguata ad una femminilità più in linea con i codici imperanti. Elide al contempo mostra ancora la sua resistenza ad essere totalmente imbrigliata nei ruoli rassicuranti del femminile, nonostante il matrimonio in carrozza che la vede vestita elegante con tanto di cappellino. «E togliti i guanti!» dirà, in romanesco, al neo-marito Fabrizi, a dimostrare la sua natura eccedente che non può essere imbrigliata. Come ribadisce Stefania Parigi, Magnani, in quanto grande attrice comica, «affronta l’alterità attraverso l’unicità della propria costituzione fisica e caratteriale» (p. 54). Attraverso questo marchio di fabbrica, che spesso diventerà cliché in alcune prove del dopoguerra (su tutte La sciantosa televisiva del 1971 di Alfredo Giannetti), Magnani trova il suo habitat naturale nel cinema neorealista, che le assegna ruoli da donna del popolo nei quali esprimere al meglio la sua verve comica oltre che una femminilità diversa. L’età matura, però, non le consente di rimanere una giovane da marito, e pertanto la sua particolare fisicità la proietta nella dimensione di moglie e soprattutto di madre. Tuttavia le donnine eccessive, debordanti e resistenti del cinema di regime, con la loro vis comica radicata nella tradizione linguistica romana, rappresentano una sorta di filo rosso che percorre l’intera carriera dell’attrice. La sensualità del corpo rimane inalterata: Pina, in Roma città aperta, appare nel film mentre esce da un forno che ha saccheggiato con altre donne. Il corpo, seppur vestito in maniera più castigata rispetto alle prove precedenti, è ancora un corpo sui generis: nei modi in cui stringe le braccia intorno al grembo oppure nel carattere sboccato e litigioso con cui interagisce con altre donne e persino nella postura di morte con le cosce scoperte e le calze strappate. Così Gioconda in Abbasso la ricchezza (1946) di Gennaro Righelli espone in bella vista il suo corpo erotico davanti ad un gruppo di uomini. Vestita con un abito da gala molto scollato, con i capelli acconciati in maniera ridicola, mostra con auto-compiacenza le sue grazie accarezzandosi il decolleté, come se la ricchezza materiale ottenuta si riverberasse su quella fisica e diventasse oggetto di ammirazione da parte del pubblico maschile [fig. 7]. Non esita poi a ballare un boogie-boogie indossando un abito da sera molto succinto e lasciandosi andare a movimenti sinuosi. Così Egle in Nella città l’inferno (1959) di Renato Castellani, nella realtà claustrofobica del carcere mostra imperturbata, per tutta la durata del film, un corpo seducente [fig. 8]; così Maddalena Cecconi in Bellissima (1961) di Luchino Visconti è un’altra donna del popolo che offre allo sguardo il suo corpo senza orpelli: dalla chioma spesso disordinata alle mises casalinghe – come un semplice golfino scollato e indossato direttamente sul corpo – alla consueta sottoveste. Questi sono solo alcuni dei personaggi di Magnani del dopoguerra che, pur con diverse gradazioni, mantengono la verve e l’erotismo del ʻcorpo comicoʼ di Elide, di Virginia, di Zizì, di Loletta Prima, di Lulù (altra soubrette in Finalmente soli di Giacomo Gentilomo del 1942). Tuttavia va detto che l’eccedenza, tratto temperamentale e fisico di tali figure femminili, trova nello stereotipo della canzonettista-popolana il suo punto di irradiazione. È proprio da queste figurette comiche, forgiate negli anni del regime, che Magnani deriva quella propensione ad eccedere, a trasgredire i confini di classe e di genere. Nel ritorno all’ordine, tipico della commedia, sembra stemperarsi la carica deviante e il potenziale erotico di questo genere di femminilità; nonostante ciò, l’iconografia del ʻcorpo comicoʼ di Magnani e l’archetipo della popolana negli anni a venire troveranno forme di incarnazione in una tipologia muliebre altrettanto debordante: come non pensare ai personaggi interpretati da Giovanna Ralli, ma soprattutto da Sophia Loren?

 

Bibliografia

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