Raccontare le donne, in letteratura, in pittura, come in qualunque altro tipo di espressione artistica, sino almeno a buona parte del Novecento, è stato troppo spesso appannaggio degli uomini e quando qualche donna ha trovato le condizioni e il coraggio per raccontarsi e raccontare (cosa che per fortuna è accaduta) lo ha fatto perlopiù con una vena tragica o malinconica, esprimendo con toni drammatici i propri sentimenti a lungo soffocati. Lo ha raccontato anche Virginia Woolf, inventandosi il personaggio di Judith, la sorella di Shakespeare. D’altro canto, a partire dall’età moderna, il mondo del teatro ha avuto la particolarità di annoverare tra le schiere delle proprie artiste anche spiriti energici e ironici, capaci di giocare con le maschere del proprio sé e di sperimentare, con l’ausilio della finzione scenica, una qualche forma di libertà sociale e sessuale, travalicando (non solo con ruoli en travesti) i confini che separano i generi. Ecco che, per restare in ambito italiano, comiche dell’arte, come la ben nota Isabella Andreini, sono alla base della costruzione dell’identità scenica contemporanea, prefigurata dalle caratteriste del teatro dei ruoli ottocentesco (soprattutto all’interno del repertorio shakespeariano e goldoniano), sino ad arrivare alle sperimentatrici di nuove forme comico-popolaresche e dialettali come Dina Galli, Titina De Filippo, Ave Ninchi. Ma raramente queste attrici sono state anche autrici, scrittrici, registe, insomma autonome sia nella creazione del proprio stile recitativo sia nella costruzione delle storie e nella definizione del quadro poetico ed estetico entro cui collocarle. Naturalmente l’ultima nata tra le arti visive ha potuto contare su un numero maggiore di artiste consapevoli del proprio ruolo, non più soltanto mere interpreti, muse ispiratrici di registi affermati o volti ʻche bucano lo schermoʼ, ma colte esegete della realtà, ʻpoetesseʼ della visione o ancora, col passare del tempo, esperte di ripresa e montaggio, dunque artefici di un processo e di un prodotto audiovisivo che ʻinquadraʼ il mondo femminile con un occhio diverso, da una nuova prospettiva.
Quando nel 1962, agli albori di una nouvelle vague cinematografica italiana, una delle attrici-autrici più eccentriche della storia dello spettacolo, Franca Valeri (nom del plume di Franca Maria Norsa) incide con la casa discografica Emi l’album Le donne, Natalia Ginzburg non ha ancora pubblicato la sua prima commedia Ti ho sposato per allegria (1965), scritta per «Adriana Asti e il suo sorriso ironico» (come poi accadrà per l’ultima commedia, L’intervista, composta per un’altra grande attrice capace di toccare le corde comiche: Giulia Lazzarini), e nessun’altra artista prima di lei ha dato voce con tanto acume, capacità di penetrazione psicologica e raffinata ironia, alle italiane. In primis donne colte del Nord, borghesi di buona famiglia o appartenenti al mondo dell’arte, impegnate politicamente oppure ʻin carrieraʼ, e che rappresentano senza dubbio dei suoi alter ego. Ma c’è spazio anche per la sarta romana (antecedente della Sora Cecioni) e per la domestica di famiglia: figure che Valeri ha conosciuto di persona e che ha iniziato a imitare nei salotti milanesi nei quali la madre si intratteneva, portando con sé (come più volte è emerso dalle interviste) quella figlia dall’acuto spirito di osservazione e dal raro talento artistico. Nello specifico, si tratta di quattordici brevi quadri sonori dai titoli esplicativi: La diva intervistata, La domestica tuttofare, Una sarta romana, La famiglia, La madre egoista, La ragazza ricca che lavora, Piccola posta, De gustibus, L’attrice e la mamma, Repertorio d’una attrice di prosa, Mitzi la coreografa, Il salotto letterario, L’amica egoista, Lina e la Rivoluzione. A questi ritratti ne seguiranno altri creando nel tempo un ampio repertorio di voci femminili che attraversa i dialetti dello Stivale, finendo per rappresentare una sorta di atlante delle donne nell’Italia post-bellica ma anche sessantottina. Alcuni di questi ritratti prendono spunto da personaggi già ideati e interpretati da Franca Valeri in teatro con la compagnia dei Gobbi (Valeri, Bonucci, Caprioli), o al cinema.
L’attrice, infatti, dimostra di possedere uno straordinario talento nell’appropriarsi del vocabolario e della musicalità di dialetti molto lontani tra loro, in anni in cui (mentre la televisione sta muovendo i primi passi) il dialetto mantiene ancora intatto il suo valore di lingua ufficiale e quindi di veicolo privilegiato di comunicazione. I suoi ritratti femminili nascono pertanto da un’interpretazione mai ideologica, ma comunque profondamente attenta alle condizioni delle donne nella società, in un quadro che rispecchia, trasfigurandoli artisticamente con una impareggiabile vis comica, i mutamenti sociali, economici e politico-culturali del Paese.
L’originalità del fraseggio, l’ironia graffiante della scrittura drammaturgica (che Valeri dichiara attinta da Courteline) e le qualità attoriali (che non si limitano al ruolo di ʻcaratteristaʼ) ne fanno una straordinaria interprete della modernità, con tutte le sue insensatezze e distorsioni. Da narratrice di storie al femminile si cimenta in modo crossmediale con i più diversi strumenti artistici e comunicativi: dal teatro al cinema, dalla radio al libro, sino alla fonografia e al fumetto.
Ecco che accanto alle cosiddette ʻmaggiorateʼ (oggi diremmo sex symbol), tra cui Sophia Loren, Lucia Bosè, Gina Lollobrigida, Silvana Mangano, astri nascenti dai concorsi di Miss Italia dei primi anni Cinquanta e pupille dei registi neorealisti, la figura di Valeri spicca per audacia e anticonformismo. Divina/antidiva, piccola e svelta, intelligente e stravagante, spesso consapevole di essere superiore per cultura e ironica agli uomini che incontra (e perciò costretta a occultare una spiccata personalità dietro una maschera da ʻsvampitaʼ, come in alcuni episodi del film Piccola posta di Steno, 1955 - fig. 1), Valeri incarna sulla scena e sullo schermo il versante l’opposto delle protagoniste dei concorsi di bellezza. Quelle stesse competizioni che saranno rievocate e parodiate nel sesto episodio del film Villa borghese di De Sica e Franciolini (1953) [fig. 2], dove Valeri si cimenta nel ruolo di una donna ʻdi vitaʼ senza riscatto, anticipando il personaggio di Delia Nesti, prostituta/aspirante Cenerentola in Parigi o cara di Caprioli (1962) [fig. 3].
ʻSignorina dello 04ʼ (Franciolini, 1955) per lavoro e ʻSnobʼ per vocazione (il personaggio della Signorina Snob nasce ai microfoni della radio già a partire dal 1949 - figg. 4-5), Valeri si colloca come un’artista sui generis nello Spettacolo contemporaneo, divenendo inoltre fonte di ispirazione per intere generazioni di attrici comiche, che giungono sino ai nostri giorni. Molto apprezzata da Flaiano, Gadda, Barrault, la sua maschera tragicomica è costruita a partire da una sapiente combinazione di mimica e phonè, a cui si aggiunge l’uso dell’inseparabile telefono (oggetto reale sullo schermo, evocato dalla partitura gestuale sulla scena), che richiama eco proustiane sulla mitologia delle centraliniste. Attraverso il telefono l’attrice fa parlare un ventaglio di ʻdonne soleʼ (altro suo celebre titolo) su tematiche complesse, quali il divorzio o l’adulterio. E lo fa con grande stile e consapevolezza del potere di sublimazione dell’arte, non facendo mai trasparire posizioni politiche o opinioni personali (come, da un altro versante, farà di lì a poco Franca Rame), ma limitandosi a mostrare allo spettatore uno spaccato vivo di realtà, così come appare: contraddittorio, feroce, incoerente, rivelatore di verità spicciole e spesso atroci. Tale ʻsmascheramentoʼ avviene, come si è detto, con attraverso una sorprendente vis comica, che attinge in egual misura a generi minori come il cabaret o il varietà, e a generi maggiori come la letteratura francese otto-novecentesca o il teatro dell’assurdo. Valeri può essere considerata senz’altro una delle prime artiste italiane in grado di far parlare, attraverso la sua voce e il suo corpo d’attrice, altre donne, altre storie oltre la propria. In tal modo diviene mediatrice di un complesso portato narrativo e psicologico che altrimenti non avrebbe trovato voce, o l’avrebbe trovata soltanto nella forma ʻdocumentariaʼ di lì a poco sviluppata dalla televisione. E infatti proprio in televisione Valeri sperimenterà alcune delle sue prime e ultime creazioni (dalla Signorina Snob, poi declinata in altre forme come quella di Cesira la manicure, alla Signora Cecioni) accanto ad altre ʻcomicheʼ al telefono: una per tutte Bice Valori, che però non è autrice dei propri testi.
Valeri, che invece è sempre autrice dei propri testi, anche nel cinema – a cominciare dal rifacimento della Signorina Snob per Totò a colori (Steno, 1952), fino ad arrivare alla Cesira di Il segno di Venere (Risi, 1955 - fig. 6) o alla donna d’affari del Vedovo (Risi, 1959 - fig. 7) dove costruisce un’ideale coppia comica con Alberto Sordi – dimostra una grande capacità di anticipare i tempi, prefigurando l’emancipazione femminile con tutte le conquiste e le problematiche ad essa correlate; e inoltre preannunciando le figure borderline del cinema di Almodovar, il postmoderno e il post-femminismo, l’estetica e la cultura camp, il tutto tramite atteggiamenti e abbigliamenti che satireggiano ʻle belloneʼ, o le stelle del cinema italiano e americano, prima fra tutte Audrey Hepburn.
I suoi contributi senz’altro fanno riflettere sulla questione del mood tecnologico e ʻtecnocraticoʼ negli anni del miracolo economico (sul quale la compagnia dei Gobbi, di cui Valeri fa parte nei primi anni Cinquanta, sin da subito manista delle riserve), con l’annessa responsabilità politica dei gestori dei mezzi di comunicazione di massa: queste ʻdonne confuseʼ (altro titolo) di Valeri testimoniano l’evidente sproporzione tra il diffondersi di nuovi strumenti del comunicare e la crescente incomunicabilità tra gli esseri umani.
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