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Partendo da una affermazione di Michele Smargiassi, secondo cui i romanzieri, nutrendo la presunzione del primato della parola sull’immagine, si pongono in atteggiamento competitivo nei confronti della fotografia, e cercano di andare oltre la foto per individuarne significati reconditi che solo la parola sarebbe in grado di cogliere, il saggio si propone di analizzare alcuni romanzi e racconti in cui la narrazione stessa è sostanziata dal rapporto con la fotografia. Si tratta, da un lato, di opere, interpretabili in chiave metanarrativa, che hanno per protagonisti dei fotografi (da Hawthorne a Tournier e Don DeLillo); dall’altro, di lavori la cui stessa scrittura presenta caratteristiche ‘fotografiche’, nell’uso delle luci, nel taglio e nella cesura delle immagini, nella stessa poetica (da Henry James a Geoff Dyer).

Michele Smargiassi affirmed that the novelists, who believe in the primacy of the word over the image, always try to go beyond the photographs to find hidden meanings in it. Objecting to this affirmation, on the one hand, this essay analyzes some literary works where the use of photography can be read in a metafictional key (see the use of fictional photographers from Hawthorne to Tournier and DeLillo). On the other hand, works whose very texture can be defined as ‘photographic’ are taken into account (see the use of light, cut, framing and the very poetics of authors like, for instance, Henry James and Geoff Dyer). 

 

 

Così scriveva Michele Smargiassi alcuni anni or sono nel suo blog, sottolineando come gli autori di narrativa, nutrendo la presunzione del primato della parola sull’immagine, si pongano in atteggiamento competitivo nei confronti della fotografia. Dopo aver rilevato che la maggior parte degli autori non vede l’immagine, ma vede solo attraverso l’immagine, e cerca quindi di andare oltre la foto per individuarne significati reconditi che solo la parola sarebbe in grado di cogliere, Smargiassi concludeva: «Questi scrittori si tuffano nell’immagine fotografica dando una spallata brutale al fotografo».[2] Se questo è l’atteggiamento più comune dei romanzieri nei confronti della fotografia (e lo dimostrerebbe la famosa – per non dire famigerata – affermazione di William Saroyan secondo cui una foto vale più di mille parole solo a patto che qualcuno le pronunci) va tuttavia rilevato che nel corso del tempo molti scrittori hanno posto al centro dei loro romanzi, in funzione squisitamente metanarrativa, figure di fotografi, ovvero hanno usato la fotografia come mise en abyme non solo del testo, ma della stessa scrittura.

Già nel 1851, neppure una dozzina d’anni dopo quel 1839 che vide il riconoscimento ufficiale della dagherrotipia da parte del governo francese, negli Stati Uniti, Nathaniel Hawthorne, affidando a un dagherrotipista, Holgrave, lo scioglimento del mistero al centro del suo romanzo The House of the Seven Gables (La casa dei sette abbaini), riconosceva l’importanza della fotografia, ancora guardata con diffidenza dai suoi contemporanei, incerti se considerarla un manufatto scientifico, prodigioso, ma non equiparabile a opera d’arte, o una magia perturbante, se non, addirittura, una stregoneria. Hawthorne, invece, omologava paradossalmente alla propria arte il lavoro del dagherrotipista, per lo più praticato da individui privi di cultura e conoscenze tecniche e, secondo Nadar «alla portata dell’ultimo imbecille e dei falliti di tutte le carriere».[3] In tal modo, l’autore americano dimostrava non solo di comprendere le potenzialità del mezzo fotografico, ma anche di intuire, al pari del grande fotografo francese suo contemporaneo, la necessità di un talento innato, non dissimile da quello dello scrittore, per esercitare al meglio questa pratica così umile e bistrattata. L’attitudine di Holgrave nei confronti del proprio mestiere – «Faccio quadri con la luce del sole»,[4] spiega alla giovane Phoebe che gli chiede quale sia il suo lavoro – sembra riflettersi, infatti, in un altro pronunciamento di Nadar, di sei anni posteriore al romanzo di Hawthorne:

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Mao II can be considered the most photographic of Don DeLillo’s novels: it is the only work by DeLillo in which the narrator explicitly mentions two famous American photographers (Eve Arnold and Garry Winogrand); the main characters (Bill and Brita) are a writer and a photographer; each section is introduced by a real photograph that inspired the plot. But many of DeLillo’s reflections on photography, as I will try to demonstrate, are concealed between the lines, where the author stages a tricky play made of implicit references, quotations, and parodies. Therefore, this essay will focus on the comparison between Susan Sontag’s On Photography (relying especially on the second chapter, America, Seen through Photographs, Darkly) and Mao II. By analysing the different phases of Brita’s career as a photographer – which reflects the image of Diane Arbus sketched by Sontag in On Photography, and partially the figure of Andy Warhol – this essay will come to the conclusion that, according to DeLillo, «a novelist must also be a photographer who simultaneously documents and criticizes the culture in which he resides», as Mark Osteen noticed.

Mao II rappresenta uno dei più interessanti esempi di interazione tra letteratura e fotografia all’interno della vasta produzione di Don DeLillo. Del resto, si tratta dell’unico romanzo in cui il narratore newyorkese cita esplicitamente i nomi di un paio di celebri fotografi americani come Eve Arnold e Garry Winogrand, trasponendo nel testo per via ecfrastica due loro opere. «It all began with a photograph», ha poi confessato lo stesso DeLillo in un’intervista,[1] tanto che nell’edizione originale ogni sezione del libro viene introdotta proprio dall’immagine reale che ha ispirato la fiction. Inoltre, i due protagonisti sono uno scrittore e una fotografa.

Eppure, è altresì vero quanto sostiene Marco Belpoliti, secondo cui «le pagine di Mao II non contengono quasi immagini; e se ci sono, si tratta di fotografie mentali, scatti astratti che sembrano inclinare verso il concettuale». Sempre per lo studioso italiano, DeLillo sarebbe «uno scrittore visionario e non visivo»; un artista che, come Warhol, «ridipinge le icone della nostra epoca virandole con il bianco e il nero delle sue parole». Nei romanzi dello scrittore americano, insomma, le immagini sarebbero «presupposte e non esposte», andando così ricercate tra le righe del testo.[2]

Proprio partendo dalle considerazioni di Belpoliti, allora, questo saggio cercherà di scendere in profondità sotto la superficie di Mao II, riportando così alla luce l’intricato gioco di rimandi, citazioni e parodie inscenato dallo scrittore americano nel proprio romanzo. Il tutto attraverso il confronto con le teorie di Susan Sontag e, in particolare, con America, seen through photographs, darkly, secondo capitolo di On Photography. Mediante l’analisi delle differenti fasi fotografiche attraversate da Brita Nilsson, uno dei personaggi chiave dell’opera, si cercherà quindi di dimostrarne la stretta correlazione con la figura di Diane Arbus e le contaminazioni con quella di Andy Warhol.

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