Mao II rappresenta uno dei più interessanti esempi di interazione tra letteratura e fotografia all’interno della vasta produzione di Don DeLillo. Del resto, si tratta dell’unico romanzo in cui il narratore newyorkese cita esplicitamente i nomi di un paio di celebri fotografi americani come Eve Arnold e Garry Winogrand, trasponendo nel testo per via ecfrastica due loro opere. «It all began with a photograph», ha poi confessato lo stesso DeLillo in un’intervista,[1] tanto che nell’edizione originale ogni sezione del libro viene introdotta proprio dall’immagine reale che ha ispirato la fiction. Inoltre, i due protagonisti sono uno scrittore e una fotografa.
Eppure, è altresì vero quanto sostiene Marco Belpoliti, secondo cui «le pagine di Mao II non contengono quasi immagini; e se ci sono, si tratta di fotografie mentali, scatti astratti che sembrano inclinare verso il concettuale». Sempre per lo studioso italiano, DeLillo sarebbe «uno scrittore visionario e non visivo»; un artista che, come Warhol, «ridipinge le icone della nostra epoca virandole con il bianco e il nero delle sue parole». Nei romanzi dello scrittore americano, insomma, le immagini sarebbero «presupposte e non esposte», andando così ricercate tra le righe del testo.[2]
Proprio partendo dalle considerazioni di Belpoliti, allora, questo saggio cercherà di scendere in profondità sotto la superficie di Mao II, riportando così alla luce l’intricato gioco di rimandi, citazioni e parodie inscenato dallo scrittore americano nel proprio romanzo. Il tutto attraverso il confronto con le teorie di Susan Sontag e, in particolare, con America, seen through photographs, darkly, secondo capitolo di On Photography. Mediante l’analisi delle differenti fasi fotografiche attraversate da Brita Nilsson, uno dei personaggi chiave dell’opera, si cercherà quindi di dimostrarne la stretta correlazione con la figura di Diane Arbus e le contaminazioni con quella di Andy Warhol.
1. Prima fase fotografica: da Weegee a Walker Evans
Brita Nilsson è la protagonista femminile di un romanzo incentrato sull’enigmatico Bill Gray, uno scrittore di successo che non pubblica più libri da svariati anni. Bill si è infatti ritirato in una residenza segreta e ha fatto perdere ogni traccia di sé, vivendo insieme a Scott e Karen, due giovani che si prendono cura di lui. Ma proprio l’incontro con la fotografa, a cui lo scrittore si concede per qualche scatto, sconvolge la routine dell’uomo. Bill rompe così l’isolamento che si è imposto e va in Europa per appoggiare la causa di un funzionario svizzero rapito da un gruppo terroristico, trovando però la morte nel viaggio per Beirut. Brita, al contrario, esce indenne dalle macerie della capitale libanese, riuscendo addirittura a immortalare il feroce leader terrorista Abu Rashid.
La prima fase creativa che contraddistingue la fotografa svedese è tutt’altro che immediata e richiede una lunga fase di gestazione da parte della donna, a partire dal suo approdo a New York all’età di quindici anni. Proprio la protagonista femminile di Mao II, in un dialogo con Scott, illustra così i suoi primi passi nel mondo della fotografia:
I roamed the streets first day, taking pictures of city faces, eyes of city people, slashed men, prostitutes, emergency rooms, forget it. I did this for years. Many times I used a wide-angle lens and pressed the shutter release with the camera hanging at my chest from a neck strap so I wouldn’t attract the wrong kind of attention, thank you very much. I followed derelicts practically to their graves. And I used to go to night court just to look at faces. I mean New York, please, this is my official state religion.[3]
Si tratta di una descrizione dettagliata e che, in maniera quanto mai singolare, richiama la figura di un fotografo molto noto nella New York degli anni Trenta e Quaranta: Arthur Fellig, in arte Weegee. Emigrato negli Stati Uniti dall’Europa, proprio come Brita, Weegee era un fotoreporter di strada sempre in cerca di scoop, il cui interesse si focalizzava sulla vita metropolitana della Grande Mela, sui lavoratori e sulle persone decedute per morte violenta. Celebri sono le foto che raffigurano le vittime insanguinate di omicidi e incidenti stradali, o quelle – scattate di nascosto, grazie alla pellicola a infrarossi – di prostitute, travestiti e guardoni presenti di notte sulle spiagge di Coney Island. Proprio tale modus operandi, tipico del voyeur, potrebbe giustificare il punto in cui DeLillo ritrae Brita intenta a immortalare le persone con una macchina camuffata sotto la tracolla.
Questo particolare, in realtà, richiama molto da vicino l’ancor più celebre figura di Walker Evans, il quale, in una fase della propria carriera, scese parecchi metri al di sotto dell’asfalto calpestabile di New York con una vecchia macchina portatile nascosta nella giacca. Chi finiva nel mirino, di conseguenza, non si accorgeva di essere spiato e rimaneva del tutto naturale, mentre l’ingombro del corpo-macchina si dileguava sotto gli abiti anonimi del fotografo-flâneur, a sua volta reso invisibile dalla folla.[4] Un esperimento che Sontag riporta nel secondo capitolo di On Photography, dove si parla di «series of “secret” photographs of anonymous New York subway riders that Evans took with a concealed camera between 1939 and 1941».[5]
La prima fase fotografica di Brita Nilsson sembrerebbe dunque essere il risultato di una sapiente ibridazione delle caratteristiche salienti tanto di Evans quanto di Weegee. A ulteriore sostegno di tale ipotesi, inoltre, vi è il fatto che anche il secondo fotografo viene esplicitamente nominato da Sontag, sempre in On Photography: «Arbus said that the photographer she felt closest to was Weegee, whose brutal pictures of crime and accident victims were a staple of the tabloids in the 1940s».[6]
Le tessere del mosaico, lentamente, cominciano a ricomporsi. I due celebri personaggi rintracciabili nella prima fase artistica di Brita, infatti, possiedono una doppia caratteristica che li lega in maniera inequivocabile: comparire nella disamina storica attuata da Sontag in On Photography; essere entrambi in relazione con Diane Arbus. Se Weegee, per diversi aspetti, rappresentava una sorta di maestro per la fotografa newyorkese, lo stesso può essere postulato anche a proposito di Walker Evans, al quale non di rado la donna chiedeva consigli e pareri, recandosi nel suo studio.[7] Proprio Evans intravide in lei grandi doti, tanto da spingerla a mostrare le sue immagini a John Szarkowski, allora direttore della sezione fotografica del MoMA. Stando a quanto scritto da Patricia Bosworth, poi, Diane Arbus aveva avuto modo di scattare fotografie in giro per New York anche in compagnia dello stesso Weegee; inoltre, aveva parlato apertamente con Evans dell’istinto voyeuristico che accomunava entrambi.[8]
DeLillo, quindi, sembrerebbe intento in una duplice e articolata operazione: enunciare in forma narrativa e finzionale le principali tappe della fotografia americana del Novecento, così come le ha schematizzate Susan Sontag; delineare implicitamente, sotto la maschera di Brita, la figura di Diane Arbus, attraverso i suoi maestri. Le strette relazioni che intercorrono all’interno di tale doppio filone, d’altronde, vengono perfettamente esemplificate dalla conclusione del soliloquio sopra citato, quando la donna afferma: «No matter what I shot, how much horror, reality, misery, ruined bodies, bloody faces, it was all so fucking pretty in the end». Un argomento, questo, assai caro a Susan Sontag, la quale, nel capitolo The Heroism of Vision, arriva a sostenere:
But notwithstanding the declared aims of indiscreet, unposed, often harsh photography to reveal truth, not beauty, photography still beautifies. Indeed, the most enduring triumph of photography has been its aptitude for discovering beauty in the humble, the inane, the decrepit […]. Beauty has been revealed by photographs as existing everywhere. Along with people who pretty themselves for the camera, the unattractive and the disaffected have been assigned their beauty.[9]
Il tema della «inautenticità del bello», così come lo ha definito Marco Belpoliti,[10] rappresenta un topos importante nella riflessione di Sontag circa la fotografia e viene affrontato in maniera approfondita soprattutto in Regarding the Pain of Others, a proposito delle immagini di guerra. L’argomento, d’altro canto, era caro anche alla stessa Diane Arbus, il cui lavoro, sempre nel secondo capitolo di On Photography, viene apostrofato da Sontag come «a good instance of a leading tendency of high art in capitalist countries: to suppress, or at least reduce, moral and sensory queasiness. Much of modern art is devoted to lowering the threshold of what is terrible».[11] A dolorose realtà da incubo, Arbus applicava aggettivi come «terrific», «interesting», «incredible», «fantastic», «sensational».[12]
La fotografa newyorkese, in realtà, era dilaniata da un insanabile conflitto interno riguardante il rapporto con i propri soggetti mostruosi, dai quali fu fatalmente attratta. Da un lato, sempre secondo Sontag, c’era «the childlike wonder of the pop mentality», così come si evince dagli aggettivi citati sopra.[13] Dall’altro, invece, la consapevolezza che fotografare persone «is necessarily “cruel”, “mean”. The important thing is not to blink».[14] Una crisi per certi aspetti paragonabile a quella vissuta dalla Brita delilliana, disgustata da come la fotografia riesca ad abbellire anche le cose più orribili da cui è sempre stata attratta. «After years of this, I began to think it was somehow, strangely – not valid»,[15] afferma quindi la protagonista femminile di Mao II, spiegandoci il passaggio a una nuova fase artistica e della propria vita.
2. Seconda fase fotografica: da August Sander a Edward Steichen.
Nella seconda fase fotografica, Brita viene contraddistinta da una netta reazione che la induce a esplorare territori artistici del tutto opposti, mutando completamente il proprio modus operandi e le categorie dei soggetti ritratti. Particolarmente significative, a riguardo, sono le parole pronunciate dalla stessa donna durante un dialogo con Scott:
“Only writers. I frankly have a disease called writers” […]. “I will just keep on photographing writers, every one I can reach, novelists, poets, playwrights. I am on the prowl, so to speak. I never stop traveling and taking pictures. This is what I do now. Writers” […]. A planetary record. For me, it’s a form of knowledge and memory. I’m furnishing my own kind of witness. I try to do it systematically, country by country, but there are always problems. Finding some writers is a problem […]. They’re willing to see me because they know I’m simply doing a record. A species count, one writer said. I eliminate technique and personal style to the degree that this is possible.[16]
Questa rigorosa opera di catalogazione, attuata da Brita in maniera quasi maniacale, richiama a stretto giro di vite la figura di un famoso fotografo europeo della prima metà del Novecento: August Sander. Ritrattista di professione, Sander nel 1910 diede vita a un ambizioso programma: creare un ampio atlante di tipi tedeschi di ogni classe ed estrazione sociale. Egli non cercò la personalità individuale, ma le figure rappresentative di diverse professioni, mestieri e attività, nonché i membri di gruppi sociali e politici. Denominò il suo programma Menschen des 20. Jahrhunderts e, nel 1929, fu pubblicato Antlitz der Zeit, il primo volume della serie.
DeLillo, dal canto suo, sembrerebbe quindi riprendere e al tempo stesso ribaltare la monumentale opera enciclopedica realizzata dal fotografo tedesco. Se infatti Sander, contemporaneamente, allargava il campo d’azione della ricerca a ogni essere umano e lo limitava alla propria nazione, Brita compie l’esatto opposto, ampliandolo a tutto il mondo ma restringendolo ai soli scrittori, seppur suddivisi per categorie. La figura di August Sander, del resto, rappresenta un caso paradigmatico nel corso della storia della fotografia, e viene analizzata attentamente anche da Sontag, che la pone a confronto con quella di Diane Arbus:
Sander’s “archetype pictures” (as he called them) imply a pseudo-scientific neutrality similar to that claimed by the covertly partisan typological sciences that sprang up in the nineteenth century like phrenology, criminology, psychiatry, and eugenics. It was not so much that Sander chose individuals for their representative character as that he assumed, correctly, that the camera cannot help but reveal faces as social masks […]. People face Sander’s camera, as they do in Model’s and Arbus’s photographs, but their gaze is not intimate, revealing.[17]
I punti di tangenza fra i passi di On Photography e Mao II presi in considerazione sono chiari e significativi. In Sontag compaiono infatti diverse espressioni – «inventory of the world», «unusually broad», «photography-as-science» e «a pseudo-scientific neutrality»[18] – che trovano piena corrispondenza nel testo di DeLillo: «planetary record», «there’s no end», «a species count» e «secretly I know I’m doing certain things to get certain effects».[19] Per non parlare, poi, dell’atteggiamento non-aggressivo e non-intrusivo che entrambi i fotografi, nelle stesse pagine, ostentano esplicitamente: «“It is not my intention either to criticize or describe these people”, Sander said»; «I want to do pictures that are unobtrusive, shy actually», gli fa eco Brita. Poco più avanti però, nel corso del dialogo con Sott circa la propria passione maniacale per gli scrittori, la fotografa svedese introduce en passant un altro spunto rilevante:
“And what happens ultimately to your pictures of writers as a collection?” “Ultimately I don’t know. People say some kind of gallery installation. Conceptual art. Thousands of passport-size photos. But I don’t see the point myself. I think this is a basic reference work. It’s just for storing. Put the pictures in the basement of some library .[20]
Il gioco di rimandi inscenato da DeLillo, in questo caso, sembrerebbe aver generato un ibrido, a metà strada fra la storica esposizione che il celebre fotografo Edward Steichen organizzò nel 1955 al MoMA (The Family of Man) e una nota opera di Walker Evans, Penny Picture Display. La prima consisteva in un’installazione enciclopedica, in cui l’artista lussemburghese raccolse e abbinò centinaia di foto (scelte fra quasi due milioni di immagini, pervenute da ogni angolo del pianeta) raffiguranti la vita di famiglia in tutto il mondo, col preciso intento di raffigurare ogni aspetto del genere umano, estrinsecando la fratellanza che accomuna tutti gli individui. La seconda è invece una fotografia che, mediante l’assemblaggio di svariate foto-tessere da documento d’identità, risponde al desiderio di ottenere «una sola, immensa, collettiva, immagine frontale dell’umanità».[21] In questa opera Evans realizza una mappatura di ritratti qualunque, scelti per rappresentare proprio il volto infinito del genere umano.
La celebre esposizione organizzata da Steichen viene analizzata anche nel secondo capitolo di On Photography, dove Sontag contrappone la filosofia del co-fondatore di Photo-Secession – «“The Family of Man” denies the determining weight of history, of genuine and historically embedded differences, injustices, and conflicts» – a quella della fotografa newyorkese («Arbus’s photographs undercut politics just as decisively, by suggesting a world in which everybody is an alien, hopelessly isolated»).[22]
Come la coppia costituita da Weegee ed Evans, che caratterizzava la prima fase fotografica di Brita, anche quella formata da Sander e Steichen è dunque accomunata dal medesimo doppio punto di tangenza: rientrare nella disamina di Sontag; avere un legame con Diane Arbus, attraverso il confronto instaurato dalla critica americana. Se però nel caso del primo binomio il collegamento fra i due fotografi consiste nell’aver rappresentato un punto di riferimento per Arbus, in quello della seconda coppia la situazione si ribalta. Sander e Steichen vengono descritti da Sontag come il naturale contraddittorio della concezione fotografica di Arbus.[23] A ben vedere, del resto, Brita si rifiuta di organizzare un’esposizione sulla scorta di The Family of Man, e parimenti prende le distanze anche dall’assoluta scientificità ricercata da Sander, affermando: «Secretly I know I’m doing certain things to get certain effects. But we ignore this, you and I».[24]
3. Intermezzo: epifania sotto il segno di Andy Warhol
Alla luce di quanto è emerso dalle prime due fasi creative di Brita Nilsson, prende sempre più corpo la tesi secondo cui DeLillo starebbe sapientemente nascondendo la figura di Diane Arbus sotto una maschera costituita prima dai suoi maestri e poi dai suoi opposti, mediante un persistente gioco delle coppie. La messinscena strutturata dallo scrittore italo-americano è assai stratificata e cosparge di indizi il tessuto testuale: le tracce sono molteplici, ma vanno rintracciate.
Il culmine, il momento epifanico in cui metaforicamente Brita getta la maschera e il suo volto arriva a combaciare perfettamente col viso di Arbus, si verifica in quello che parrebbe essere un vero e proprio snodo del romanzo. La fotografa si trova a New York, all’inaugurazione di una mostra d’arte, e il narratore descrive fin nei minimi particolari la scena, comprese le impressioni della donna, intenta a osservare Gorby I, ovvero Michail Gorbaciov ritratto e manipolato da Andy Warhol:
Brita wondered if this piece might be even more Warholish than it was supposed to be, beyond parody, homage, comment and appropriation […]. She thought that possibly in this one picture she could detect a maximum statement about the dissolvability of the artist and the exaltation of the public figure, about how it is possible to fuse images, Mikhail Gorbachev’s and Marilyn Monroe’s, and to steal auras […]. She’s taken the trouble to cross the room and look closely at this funny painted layered photo-icon and it wasn’t funny at all. Maybe because of the undertaker’s suit that Gorby wore. And the sense that these were play-death cosmetics, the caked face-powder and lemon-yellow hair color. And the very echo of Marilyn and all the death glamour that ran through Andy’s work. Brita had photographed him years ago and now one of her pictures hung in a show a few blocks down Madison Avenue.[25]
Due sono i particolari degni di nota: l’iterato interesse di Brita per la maniera in cui Warhol rappresenta la morte nei propri ritratti; i suoi contatti col celebre artista, immortalato dalla donna in una serie di immagini. Stando a quanto si può leggere nella dettagliata biografia di Patricia Bosworth su Diane Arbus, infatti, la fotografa newyorkese era particolarmente attratta dai quadri in cui Warhol ritraeva l’immagine della morte, su tutti quelli di Marilyn Monroe che ancora sorride. E sempre secondo Bosworth, inoltre, Arbus si era recata più di una volta nella Factory, per realizzare alcuni servizi fotografici su Warhol, le sue opere e i bizzarri personaggi che frequentavano quel luogo.
Al di là di questi indizi già di per sé consistenti, ad ogni modo, la tesi del binomio Brita-Arbus viene confermata anche da un passo di Sontag che, al tempo stesso, corrobora l’ipotesi di una fitta trama di rimandi istituiti da DeLillo con America, seen through photographs, darkly:
But unlike Warhol, who spent many years as a commercial artist, Arbus did not make her serious work out of promoting and kidding the aesthetic of glamour to which she had been apprenticed, but turned her back on it entirely. Arbus’s work is reactive […]. Most of Arbus’s work lies within the Warhol aesthetic, that is, defines itself in relation to the twin poles of boringness and freakishness; but it doesn’t have the Warhol style. Arbus had neither Warhol’s narcissism and genius for publicity nor the self-protective blandness with which he insulates himself from the freaky nor his sentimentality […]. Although much of Arbus’s material is the same as that depicted in, say, Warhol’s Chelsea Girls (1966), her photographs never play with horror, milking it for laughs; they offer no opening to mockery, and no possibility of finding freaks endearing.[26]
Brita, la protagonista femminile di Mao II, sembrerebbe possedere in maniera a dir poco singolare tutti i connotati propri della Diane Arbus descritta da Sontag attraverso il contrasto con Andy Warhol. Tratti peculiari portati alla luce da DeLillo proprio mediante il confronto diretto fra Brita e un quadro dell’artista pop, esattamente come avviene in On Photography. Innanzitutto, si può notare il concetto di “glamour”, comune a entrambi i testi, così come quello di “parodia” (si mettano in parallelo «parody» e «mockery»). Ma il luogo testuale più rilevante è quello in cui si sviluppa il campo semantico del riso. A una Arbus le cui fotografie, secondo Sontag, «never play with horror, milking it for laughs» corrisponde infatti una Brita che, di fronte all’opera di Warhol, continua a ripetersi che non c’è nulla da ridere, non riuscendo a trovarvi alcunché di divertente, a differenza di tutte le altre persone.
Lo smascheramento di Brita, però, dura davvero poco, lo spazio di un paio di pagine. Come in una celebre scena tratta da Persona, di Ingmar Bergman, la coincidenza fra i volti delle due donne si protrae solamente per qualche istante, dissolvendosi una volta raggiunta l’epifania.
Se nel film del regista svedese le vite di Elisabet e Alma si dividono in seguito alla rivelazione, la medesima cosa avviene anche in Mao II. Al termine dell’episodio al museo, così, accade una sorta di sdoppiamento ontologico, nel corso del quale lo “spettro” di Diane Arbus abbandona Brita – che può quindi passare alla terza e definitiva fase fotografica, di cui si parlerà in seguito – e si incarna nella misteriosa Karen Janney, la compagna di Scott che vive nella casa di Bill Gray.
La scena non lascia adito a dubbi: la ragazza si materializza improvvisamente alla mostra, affiancando Brita mentre questa sta contemplando il quadro di Warhol. Si tratta di una vera e propria apparizione, tanto che la stessa fotografa non si capacita della comparsa di Karen a New York e proprio in quel posto. Da questo momento, inoltre, le due donne – che in precedenza si erano appena intraviste a centinaia di chilometri di distanza, a casa di Bill, senza conoscersi affatto – arrivano addirittura a vivere sotto lo stesso tetto per qualche giorno.
La breve convivenza di Brita e Karen, per certi aspetti, richiama molto da vicino quella di Elisabet e Alma sempre in Persona. Il personaggio fantasmatico di Karen – definita «a ghost girl» in Mao II[27] – è inoltre protagonista di alcuni monologhi e stati allucinatori che parrebbero riprendere in chiave parodica un’altra pellicola del regista svedese: Through a glass, darkly, ovvero il titolo – a sua volta tratto da una citazione di San Paolo – da cui Sontag ha mutuato l’intestazione del secondo capitolo di On Photography.[28] Una semplice coincidenza? Sembrerebbe proprio di no, anche perché gli intrecci fra DeLillo, Sontag e Bergman[29] in questo punto del romanzo sono molteplici e hanno come filo conduttore il tema della coppia e dello sdoppiamento, con cui proprio Mao II si apre.[30]
Per quanto riguarda la nostra ricerca, invece, bisogna sottolineare soprattutto un aspetto di questo gioco geminativo. Karen, dopo l’incontro con Brita all’esposizione di Warhol, per qualche giorno rimane da sola a casa della fotografa e comincia a ripercorrere i passi di Diane Arbus, girovagando per le strade e i parchi di New York in cerca di freak, poveracci e malati mentali. La ragazza, in particolare, continua a recarsi ossessivamente a Tompkins Square Park, nel Lower East Side della città, proprio dove, secondo Patricia Bosworth, per un certo lasso di tempo Arbus andò con frequenza.[31] E Brita, invece? La fotografa, dopo l’epifania avvenuta alla mostra e il passaggio di testimone con Karen, è finalmente libera e pronta per una terza fase fotografica, a prima vista del tutto differente dalle due precedenti.
4. Terza fase fotografica: macchine fotografiche o pistole? Seconda fase fotografica
Nell’ultima sezione di Mao II, intitolata In Beirut, ritroviamo una Brita completamente diversa, sotto l’aspetto artistico e professionale. La fotografa svedese, infatti, ora lavora per una rivista tedesca e si trova nella capitale libanese per immortalare il terrorista Abu Rashid. La donna si muove attraverso una città traboccante di immagini, addirittura «a millennial image mill», in uno scenario palesemente warholiano.[32] In questo ambiente surreale, quindi, il narratore spiega che Brita ha accantonato la monumentale opera di ricerca degli scrittori, passando a una nuova fase fotografica:
She does not photograph writers anymore. It stopped making sense. She takes assignments now, does the interesting things, barely watched wars, children running in the dust. Writers stopped one day. She doesn’t know how it happened but they came to a quiet end. They stopped being the project she would follow forever. Now there are signs for a new soft drink, Coke II, signs slapped on cement-block walls, and she has the crazy idea that these advertising placards herald the presence of the Maoist group.[33]
Con la stessa disinvoltura con cui era passata dalle crude scene metropolitane di New York alla scientifica classificazione degli scrittori, Brita ha voltato pagina per la seconda volta e si è reinventata fotografa di guerra, mostrando alcune tracce warholiane (come i manifesti pubblicitari della Coke II e la loro allusione al gruppo maoista, in piena assonanza con il titolo del romanzo). Cosa caratterizza, dunque, questa fase creativa? DeLillo, a riguardo, non è esplicito come in precedenza, ma ci fornisce comunque la risposta già nel capitolo tredici, dove si può leggere che «there were the camera-toters and the gun-wavers and Bill saw barely a glimmer of difference».[34]Un’affermazione nodale e ripresa da Mark Osteen, seconco «as in the photo that frames the section – three boys in a bunker, one pointing either a gunsight or a camera viewfinder toward the viewer – image-makers and warriors seem indistinguishable».[35]
Il tema della natura predace della macchina fotografica e della sua sublimazione in pistola – con una più che probabile allusione alle teorie freudiane[36] – è un autentico topos per Susan Sontag, che sostiene: «There is something predatory in the act of taking pictures. To photograph people is to violate them […]. Just as the camera is a sublimation of the gun, to photograph someone is a sublimated murder».[37] Per rafforzare questa teoria, inoltre, Sontag ricorre a un’argomentazione che corrobora appieno l’ipotesi di una ripresa in DeLillo della figura di Diane Arbus, filtrata dalla disamina critica di On Photography. Sempre nel secondo capitolo del proprio libro, infatti, la critica americana cita una celebre frase di Arbus: «Everything is so superb and breathtaking. I am creeping forward on my belly like they do in war movies».[38] Riprendendo la metafora della «camera as a weapon of aggression», insomma, Sontag estende la sensazione di pericolo percepita dal fotografo di guerra anche alle immagini non scattate in rischiosi contesti bellici, riportando ancora una volta le parole di Arbus: «When the troops start advancing on you, you do approach that stricken feeling where you perfectly well can get killed».[39]
Questo tema, del resto, era già affiorato nella prima parte del romanzo, seppur in maniera più velata, anche a causa del contesto. Mentre Brita sta fotografando Bill Gray, lo scrittore a un certo punto domanda alla donna: «What are you investing me with, or stealing from me?».[40] Il verbo “steal” ha una connotazione forte e denota chiaramente la componente predatoria della macchina fotografica, anticipandone il parossismo raggiunto nel capitolo finale. Due, a tale proposito, sono le scene rivelatrici. La prima si svolge nel nascondiglio di Abu Rashid, dove Brita fotografa il feroce terrorista senza alcuna esitazione, brandendo e puntando la “camera” come se fosse una pistola.[41] Al punto che, quando la donna scopre il volto di un giovane adepto del gruppo per fotografarlo, questo reagisce con una rabbia spropositata, mettendole addirittura le mani addosso.
Ma l’immagine più esplicita e significativa è quella conclusiva. Brita è sola in un appartamento di Beirut, e dal balcone osserva la città sul finire della notte. La donna nota alcuni scoppi di luce nell’oscurità: sono bombe, secondo logica, o qualcos’altro? La risposta, con cui si chiude Mao II, è emblematica:
There is a flash out there in the dark near a major checkpoint. Then another in the same spot, several more, intense and white. She waits for the reciprocating flash, the return fire, but all the bursts are in one spot and there is no sound. What could it be then if it's not the start of the day's first exchange of automatic-weapons fire? Only one thing of course. Someone is out there with a camera and a flash unit. Brita stays on the balcony for another minute, watching the magnesium pulse that brings an image to a strip of film. She crosses her arms over her body against the chill and counts off the bursts of relentless light. The dead city photographed one more time.[42]
5. Conclusioni: «A novelist, it seems, must also be a photographer» Seconda fase fotografica
Mao II, il romanzo delle coppie e dello sdoppiamento, si conclude con la simbolica vittoria di una sola persona: Brita. Mentre Bill, lo scrittore, cerca di raggiungere invano Beirut, morendo in totale solitudine su una nave, la fotografa svedese non solo arriva nella capitale libanese, ma addirittura esce incolume dal covo dei terroristi, dopo aver portato a termine la propria missione. Per qualche minuto, una donna munita di sola macchina fotografica tiene in scacco una banda di criminali armati fino ai denti, ottenendo quello che voleva. La domanda, a questo punto, sorge spontanea: qual è il messaggio che DeLillo intende trasmettere?
Una prima e significativa risposta ce la offre Mark Osteen, secondo cui Brita «embodies the potential for an art that appropriates the tools of spectacular authors to contest their attempts to control history and subjectivity».[43] La sconfitta di Bill, dunque, non rappresenterebbe il mero trionfo delle immagini sulla scrittura, testimoniando semmai la necessità di un ammodernamento della figura dello scrittore, alle prese con una società definita da Remo Ceserani «un grande serbatoio culturale di immagini, un “immenso simulacro fotografico”».[44] Significativa, a sostegno di tale ipotesi, è l’argomentazione dello stesso Osteen:
A novelist, it seems, must also be a photographer who simultaneously documents and criticizes the culture in which he resides. Mao II thus shows DeLillo remodelling his vision of authorship […] toward a negotiated compromise with the society of spectacle, in which the artist refashions the society’s own tools to attain a position “within or behind or beyond or above” it. Politically and aesthetically potent works thus issue not from a solitary island but cunningly from within the culture itself.[45]
Bill e Brita incarnano perfettamente i due poli della dicotomia interna a un DeLillo che, nel corso di alcune interviste, ha fornito risposte del tutto antitetiche riguardo al ruolo dello scrittore nella società. Da un lato, la necessità di rimanere ai margini, non essere incorporati «into the ambient noise»[46] (figura di Bill); dall’altro, l’esigenza di essere «fully involved in contemporary life, to be part of the crowd, of the clash of voices»[47] (figura di Brita). Un concetto, il secondo, più volte ribadito dallo stesso DeLillo, che ha anche dichiarato: «I try to record what I see and hear and sense around me – what I feel in the currents, the electric stuff of the culture».[48]
La soluzione a questo dilemma esistenziale sembrerebbe quindi essere fornita da un semplice strumento, la macchina fotografica, in grado di conciliare due poli parimenti inaccettabili: l’estraniamento dalla società e il coinvolgimento indiscriminato in essa. Se si legge bene Mao II, d’altro canto, la validità di questa tesi è lampante. Bill, il perfetto esempio dell’isolamento, prova a ritornare in mezzo alla civiltà partendo per Beirut, ma è sprovvisto dei necessari filtri protettivi e va incontro alla morte. Brita, al contrario, è da sempre coinvolta nella vita contemporanea ed esce illesa da uno dei luoghi più pericolosi al mondo, il covo di Abu Rashid. La macchina fotografica le permette infatti di guardare la realtà col dovuto distacco, di incutere una certa reverenza in chi le sta attorno, di muoversi per il mondo senza esserne troppo coinvolta.
Per sua stessa ammissione, inoltre, DeLillo si identifica ben poco con la figura del solitario Bill Gray, trovandosi invece a proprio agio con l’enigmatica Karen Janney,[49] che dopo il passaggio di testimone con Brita comincia a ripercorrere i passi di Diane Arbus per le strade e i parchi di New York. Una semplice coincidenza? Improbabile. Se si legge con attenzione il secondo capitolo di On Photography, infatti, si vedrà che Sontag ravvisa nella figura della fotografa newyorkese la medesima dicotomia interna a DeLillo: da un lato, «her view is always from the outside»; dall’altro, «Arbus’s way of procuring experience, and thereby acquiring a sense of reality, was the camera».[50] Un’affermazione, questa, davvero illuminante, dato che si addice perfettamente anche al profilo di Brita.
La protagonista femminile di Mao II parrebbe quindi essere stata generata da una calibrata ibridazione delle figure di Diane Arbus e Andy Warhol, ovvero due personaggi accomunati da evidenti punti di contatto e dicotomie profonde. Come si è già visto in precedenza, secondo Sontag «Arbus’s work lies within the Warhol aesthetic, […] but doesn’t have the Warhol style». Alla fotografa newyorkese, soprattutto, sarebbe mancata «the self-protective blandness with which he insulates himself from the freaky», al punto che «compared with Warhol, Arbus seems strikingly vulnerable, innocent – and certainly more pessimistic».[51] Brita Nilsson, invece, è fornita del necessario distacco warholiano, fondamentale per evitare quella «psychic ambush»[52] che, sempre a detta di Sontag, avrebbe favorito il suicidio della fotografa americana.
È proprio alla luce di queste considerazioni, allora, che si spiegano la ripresa della figura di Arbus e il sottile gioco inscenato da DeLillo in Mao II, attraverso l’introiezione della disamina critica attuata da Sontag in America, seen through photographs, darkly. La Diane Arbus che emerge dalle pagine di On Photography ha tutte le caratteristiche proprie della nuova visione autoriale di DeLillo, a parte una: l’eccessivo coinvolgimento psicologico e passionale con i soggetti della propria arte. Di qui la presa di distanza che lo scrittore inscena a un certo punto del romanzo, durante l’incontro fra Brita e Karen, ambientato simbolicamente alla mostra di Andy Warhol.
Un Warhol che, al contrario, costituisce il perfetto paradigma del distacco dell’artista dai soggetti della proprio arte: non parte «dalle cose, ma dalla loro immagine fotografica, dalla spoglia nudità del quadro».[53] Tutto il romanzo, del resto, è permeato dalle esplicite tracce della sua poetica, a partire dal titolo. Ma se si scava sotto il colore più superficiale – proprio dove Warhol sosteneva che non ci fosse nulla di se stesso[54] – di Mao II, allora emergono chiari e incontrovertibili i richiami alla figura di Diane Arbus e alle riflessioni critiche di Susan Sontag, nascoste fra le righe di un romanzo straordinariamente ricco di epifanie e citazioni.
1 M. Nadotti, An interview with Don DeLillo, in T. DePietro (edited by), Conversations with Don DeLillo, Jackson, University Press of Mississippi, 2005, p. 111.
2 M. Belpoliti, Crolli, Torino, Einaudi, 2005, p. 68.
3 D. DeLillo, Mao II [1991], New York, Penguin Books, 2010, p. 24.
4 Cfr. P.F. Frillici, Sulle strade del reportage. L’odissea fotografica di Walker Evans, Robert Frank e Lee Friedlander, Bologna, Editrice Quinlan, 2007, pp. 54-60.
5 S. Sontag, On Photography [1977], New York, Picador, 2009, p. 30.
6 Ivi, p. 46.
7 Cfr. P. Bosworth, Diane Arbus. Vita e morte di un genio della fotografia [1984, 2005], trad. it. di M. P. Ottieri, Milano, Rizzoli, 2006, pp. 238-239 e 250.
8 Ivi, p. 222.
9 S. Sontag, On Photography, cit., pp. 102-103.
10 M. Belpoliti, Crolli, cit., pp. 69-75.
11 S. Sontag, On Photography, cit., p. 40.
12 Ivi, p. 41.
13 Ibidem.
14 Ibidem.
15 D. DeLillo, Mao II, cit., p. 24.
16 Ivi, pp. 24-6.
17 S. Sontag, On Photography, cit., p. 59.
18 Ibidem.
19 D. DeLillo, Mao II, cit., pp. 24-26.
20 Ivi, p. 26.
21 P.F. Frillici, Sulle strade del reportage, cit., p. 59.
22 S. Sontag, On Photography, cit., p. 33.
23 Arbus, inoltre, studiò l’opera di August Sander, su esortazione di Walker Evans. Cfr. P. Bosworth, Diane Arbus, cit., p. 240.
24 D. DeLillo, Mao II, cit., p. 26.
25 Ivi, pp. 134-135.
26 S. Sontag, On Photography, cit., pp. 44-45.
27 D. DeLillo, Mao II, cit., p. 166. A tale proposito, si mettano a confronto la fantasmatica Karen di DeLillo e la vitale Alma di Bergman, anche per quanto riguarda lo «scambio vampiristico» (cfr. S. Sontag, Persona di Ingmar Bergman, in Stili di volontà radicale, Milano, Mondadori, 1999, pp. 163-91) con l’altro elemento femminile della coppia: Brita in Mao II ed Elisabet in Persona.
28 Si è deciso di citare il titolo del film di Bergman nella sua versione inglese – e non in quella originale (Säsom i en spegel) – per mostrare il sottile gioco di ripresa e mise en abyme attuato prima da Susan Sontag e poi da Don DeLillo.
29 Cfr. G. Iacoli, Lo spazio del silenzio. Bergman, Susan Sontag, DeLillo, in La percezione narrativa dello spazio, Roma, Carocci, 2008, pp. 107-62.
30 Sontag, sempre in America, seen through photographs, darkly, sottolinea la centralità del tema della coppia nelle opere di Diane Arbus. Cfr. S. Sontag, On Photography, cit., pp. 34-5.
31 Cfr. P. Bosworth, Diane Arbus, cit., pp. 247-9.
32 Cfr. DeLillo, Mao II, cit., p. 229: «There is a human skull nailed to a stucco wall and then there are pictures of skulls, there is skull writing, there are boys wearing T-shirts with illustrated skulls, serial grids of blue skulls».
33 Ivi, pp. 229-230.
34 Ivi, p. 197.
35 M. Osteen, DeLillo’s Dedalian artists, in J. N. Duvall (edited by), The Cambridge Companion to Don DeLillo, New York, Cambridge University Press, 2008, p. 145.
36 Per esempio, il concetto di Sublimierung. Cfr. S. Freud, Pulsioni e loro destini, in Opere, a cura di C. L. Musatti, VIII, Torino, Bollati Boringhieri, 2003.
37 S. Sontag, On Photography, cit., pp. 14-15.
38 Ivi, p. 39.
39 Ibidem.
40 D. DeLillo, Mao II, cit., p. 43.
41 Cfr. M. Osteen, DeLillo’s Dedalian artists, cit., p. 145: «She shoots Rashid to disarm him, to steal his force».
42 D. DeLillo, Mao II, cit., pp. 240-241.
43 M. Osteen, DeLillo’s Dedalian artists, cit., p. 144.
44 R. Ceserani, Raccontare il postmoderno, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, p. 87.
45 M. Osteen, DeLillo’s Dedalian artists, cit., p. 145.
46 A. Begley, The Art of Fiction CXXXV: Don DeLillo, in Conversations with Don DeLillo, cit., pp. 96-97.
47 M. Nadotti, An interview with Don DeLillo, cit., p. 110.
48 A. Begley, The Art of Fiction, cit., p. 107.
49 Cfr. M. Nadotti, An interview with Don DeLillo, cit., pp. 111-112.
50 S. Sontag, On Photography, cit., pp. 42-3.
51 Ivi, p. 44-45.
52 Ivi, p. 39.
53 M. Fagiolo dell’Arco, Warhol: The American Way of Dying, in E. Grazioli (a cura di), Riga 33. Andy Warhol, Milano, Marcos y Marcos, 2012, p. 78.
54 «Se volete sapere tutto di Andy Warhol, basta che guardate la superficie: quella delle mie pitture, dei miei film e la mia, lì sono io. Non c’è niente dietro»; E. Grazioli (a cura di), Riga 33, cit., p. 88.