Un passato impenetrabile, un’indole eccentrica, l’inclusione postuma tra i grandi della street photography americana: tra testimonianze indirette e migliaia di scatti superstiti, quella di Vivian Maier sembra una storia forgiata alla stregua di un’affascinante finzione letteraria. La vicenda del ritrovamento casuale dei negativi e dei rullini è ormai diffusa. John Maloof, occupato nella ricerca di fotografie di Chicago, nel 2009 scopre di aver conservato, negli scatoloni acquistati due anni prima presso una casa d’aste, un patrimonio di impressionante qualità artistica. Vivian Maier è appena scomparsa, ma di lì a poco l’impegno di Maloof alla divulgazione di fotografie che mai l’autrice vide stampate, se non in minima parte, e il conseguente riconoscimento da parte del pubblico e delle istituzioni fanno da cassa di risonanza a una passione che Maier ha coltivato e praticato con metodica dedizione, seppur con estrema riservatezza, a partire dall’inizio degli anni Cinquanta.

In meno di un decennio la pervasività della fotografia di Vivian Maier ne ha consacrato il valore. Musei americani ed europei hanno ospitato selezioni di stampe dei suoi scatti, lo stesso Maloof ha ripercorso i momenti salienti della sua scoperta e la ricostruzione della biografia della ‘bambinaia fotografa’ nel docufilm Finding Vivian Maier (2013).[1] Anche l’Italia non è rimasta insensibile di fronte a questo talento e alla fine del 2012, con Vivian Maier. Lo sguardo nascosto, ha inaugurato alla Galleria dell’Incisione di Brescia un ciclo di mostre destinato a subire una rapida espansione. La più recente di queste, Vivian Maier. Una fotografa ritrovata, dopo aver attraversato Roma e Genova, ha appena concluso una delle sue tappe a Catania e proseguirà l’itinerario a Bologna.[2] L’esposizione presenta una serie di fotografie in bianco e nero realizzate tra gli anni Cinquanta e Sessanta, e una selezione – meno corposa ma indicativa di una poetica dello sguardo coerente e protesa alla documentazione diretta di istanti madidi di contemporaneità – di foto a colori e di filmati risalenti agli anni Settanta.

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Mao II can be considered the most photographic of Don DeLillo’s novels: it is the only work by DeLillo in which the narrator explicitly mentions two famous American photographers (Eve Arnold and Garry Winogrand); the main characters (Bill and Brita) are a writer and a photographer; each section is introduced by a real photograph that inspired the plot. But many of DeLillo’s reflections on photography, as I will try to demonstrate, are concealed between the lines, where the author stages a tricky play made of implicit references, quotations, and parodies. Therefore, this essay will focus on the comparison between Susan Sontag’s On Photography (relying especially on the second chapter, America, Seen through Photographs, Darkly) and Mao II. By analysing the different phases of Brita’s career as a photographer – which reflects the image of Diane Arbus sketched by Sontag in On Photography, and partially the figure of Andy Warhol – this essay will come to the conclusion that, according to DeLillo, «a novelist must also be a photographer who simultaneously documents and criticizes the culture in which he resides», as Mark Osteen noticed.

Mao II rappresenta uno dei più interessanti esempi di interazione tra letteratura e fotografia all’interno della vasta produzione di Don DeLillo. Del resto, si tratta dell’unico romanzo in cui il narratore newyorkese cita esplicitamente i nomi di un paio di celebri fotografi americani come Eve Arnold e Garry Winogrand, trasponendo nel testo per via ecfrastica due loro opere. «It all began with a photograph», ha poi confessato lo stesso DeLillo in un’intervista,[1] tanto che nell’edizione originale ogni sezione del libro viene introdotta proprio dall’immagine reale che ha ispirato la fiction. Inoltre, i due protagonisti sono uno scrittore e una fotografa.

Eppure, è altresì vero quanto sostiene Marco Belpoliti, secondo cui «le pagine di Mao II non contengono quasi immagini; e se ci sono, si tratta di fotografie mentali, scatti astratti che sembrano inclinare verso il concettuale». Sempre per lo studioso italiano, DeLillo sarebbe «uno scrittore visionario e non visivo»; un artista che, come Warhol, «ridipinge le icone della nostra epoca virandole con il bianco e il nero delle sue parole». Nei romanzi dello scrittore americano, insomma, le immagini sarebbero «presupposte e non esposte», andando così ricercate tra le righe del testo.[2]

Proprio partendo dalle considerazioni di Belpoliti, allora, questo saggio cercherà di scendere in profondità sotto la superficie di Mao II, riportando così alla luce l’intricato gioco di rimandi, citazioni e parodie inscenato dallo scrittore americano nel proprio romanzo. Il tutto attraverso il confronto con le teorie di Susan Sontag e, in particolare, con America, seen through photographs, darkly, secondo capitolo di On Photography. Mediante l’analisi delle differenti fasi fotografiche attraversate da Brita Nilsson, uno dei personaggi chiave dell’opera, si cercherà quindi di dimostrarne la stretta correlazione con la figura di Diane Arbus e le contaminazioni con quella di Andy Warhol.

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