Mao II rappresenta uno dei più interessanti esempi di interazione tra letteratura e fotografia all’interno della vasta produzione di Don DeLillo. Del resto, si tratta dell’unico romanzo in cui il narratore newyorkese cita esplicitamente i nomi di un paio di celebri fotografi americani come Eve Arnold e Garry Winogrand, trasponendo nel testo per via ecfrastica due loro opere. «It all began with a photograph», ha poi confessato lo stesso DeLillo in un’intervista,[1] tanto che nell’edizione originale ogni sezione del libro viene introdotta proprio dall’immagine reale che ha ispirato la fiction. Inoltre, i due protagonisti sono uno scrittore e una fotografa.
Eppure, è altresì vero quanto sostiene Marco Belpoliti, secondo cui «le pagine di Mao II non contengono quasi immagini; e se ci sono, si tratta di fotografie mentali, scatti astratti che sembrano inclinare verso il concettuale». Sempre per lo studioso italiano, DeLillo sarebbe «uno scrittore visionario e non visivo»; un artista che, come Warhol, «ridipinge le icone della nostra epoca virandole con il bianco e il nero delle sue parole». Nei romanzi dello scrittore americano, insomma, le immagini sarebbero «presupposte e non esposte», andando così ricercate tra le righe del testo.[2]
Proprio partendo dalle considerazioni di Belpoliti, allora, questo saggio cercherà di scendere in profondità sotto la superficie di Mao II, riportando così alla luce l’intricato gioco di rimandi, citazioni e parodie inscenato dallo scrittore americano nel proprio romanzo. Il tutto attraverso il confronto con le teorie di Susan Sontag e, in particolare, con America, seen through photographs, darkly, secondo capitolo di On Photography. Mediante l’analisi delle differenti fasi fotografiche attraversate da Brita Nilsson, uno dei personaggi chiave dell’opera, si cercherà quindi di dimostrarne la stretta correlazione con la figura di Diane Arbus e le contaminazioni con quella di Andy Warhol.