8.1. La musa inquietante. Monica Vitti nell’immaginario fra cinema, fotografia, letteratura e fumetto

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Tra tutte le dive del cinema italiano, Monica Vitti è stata quella che più ha reso la rappresentazione della ‘scopia’ femminile una vera e propria iconografia cinematografica. Consacrata dalla collaborazione con Michelangelo Antonioni nella cosiddetta trilogia dell’incomunicabilità (L’avventura - 1960, La notte - 1961, L’eclisse - 1962) in bianco e nero, il cui atto finale può essere considerato l’uso poetico del colore in Il deserto rosso, l’attrice ha poi inanellato collaborazioni con numerosi registi italiani e internazionali, sviluppando inoltre una spiccata caratterizzazione comica, soprattutto a partire dai film di Monicelli. Eppure, è proprio l’inespressività del volto dei suoi personaggi nei film del regista ferrarese ad averla trasformata da attrice a icona e poi a diva, bacino di caratteri individuali e collettivi che si fondono all’interno di un’immagine insieme astratta e concreta.

Il processo di trasfigurazione del corpo e dell’individualità dell’attrice verso la sfera simbolica dell’icona è già di per sé parte integrante della parola ʻdivaʼ, cui siamo soliti attribuire la capacità di riflettere una serie di desideri (per lo spettatore) e di processi di identificazione (per la spettatrice). Tuttavia, nell’approfondire il rapporto con l’etimo latino divinum (Bronfen, Straumann 2002), emerge anche un’ontologia singolarizzante, in cui è possibile leggere in modo innovativo il rapporto fra attrice e sguardo. Il significato etimologico di ʻdivinoʼ sembra sopravvivere infatti nella somiglianza che la diva intrattiene con la figura della santa martire, attraverso due opposizioni semantiche: pubblico vs. privato (perché è il pubblico a possedere il loro corpo), esibizione vs. perdita di sé (come effetto mediatico, ma anche fisico nel caso del martirio).

Ne deriva un perenne stato di contraddizione, di tensione fra due poli opposti che si deposita non sugli occhi di chi guarda la diva ma su quelli della diva stessa: un senso di spaesamento (Giuliana Bruno, 2006) in virtù dell’oscillazione fra il dentro di sé e il fuori di sé, fra il possesso e la perdita del controllo del corpo. L’essenza della diva si colloca dunque all’interno di una dimensione liminale, sul confine sottile che separa materiale e virtuale.

Ma c’è un’altra associazione che si può instaurare fra la diva e il divino, che abbandona la dimensione collettiva evocata dalla sacralità dell’icona e si sposta ancora più indietro, nella raffigurazione delle divinità femminili per eccellenza: le Muse. Partendo dal Bilderaltlas warburghiano, Centanni e Mazzucco (2002, 2016) hanno evidenziato due sistemi di raffigurazione principali: da un lato la musa festosa, prossima alle pathosformeln della ninfa e della menade, che si caratterizza per un movimento danzante, che esprime il carattere dionisiaco dell’ispirazione poetica; dall’altro la musa pensosa, apollinea, figura malinconica vicina alla mitologica Arianna e alla raffigurazione del dio fluviale, dal corpo e la testa grevi di pensieri, tali da richiedere spesso un appoggio (di una colonna per il corpo, di una mano per il volto) [fig.1].

Questi due sistemi di raffigurazione opposti non solo connotano l’essenza stessa della diva, così divisa fra l’eccitazione della performance e la solitudine intimistica, ma costituiscono anche l’asse portante dei ruoli interpretati da Monica Vitti nella trilogia dell’incomunicabilità di Antonioni (soprattutto ne L’avventura e L’eclisse): il corpo fisico dell’attrice si sovrappone progressivamente a quelli dei personaggi Claudia e Vittoria, che a loro volta esprimono una femminilità complessa, in bilico fra estasi e contemplazione. Entrambe interagiscono con lo spazio e la realtà esterna attraverso una gestualità ripetitiva, e tramite due forme dello sguardo: quello meditabondo e analitico della solitudine, spesso rivolto allo spazio urbano fuori dalla finestra; e quello euforico ed esuberante che caratterizza alcuni momenti trascorsi con le amiche (la scena del ballo africano e della corsa al cane in L’eclisse) o con l’amato (la performance canora sulle note di Mina in L’avventura).

In particolare, la progressiva trasfigurazione astratta e sovrapposizione simbolica fra il corpo di Vitti e quello delle ‘personaggeʼ da lei interpretate trova un veicolo figurativo, che ha determinato la disseminazione della sua immagine come diva-icona: l’uso del bianco e nero. A proposito dell’uso del colore nel cinema di Antonioni con Monica Vitti è stato dato maggiore spazio alla sperimentazione coloristica di Il deserto rosso, tuttavia hanno pari importanza anche le scale dei bianchi, dei neri e dei grigi che investono il volto dell’attrice nella trilogia. Ad esempio la sua chioma biondissima in L’avventura e L’eclisse non a caso corrisponde al colore delle architetture metafisiche e rarefatte dell’EUR romano, così come alla pietra abbacinata dal sole di Lisca Bianca e della piazza di Noto. L’immagine di Monica/Claudia/Vittoria è quella di una moderna Arianna ʻdechirichianaʼ che esplora, con lo sguardo nomade della voyageuse ben delineato da Giuliana Bruno (2006), la realtà esteriore attraverso il filtro soggettivo, tutto interiore, dello sguardo inespressivo, sospeso tra pensosità e godimento vitale, sintesi visiva dell’inquietudine femminile. La soggettività e individualità di quest’esperienza femminile viene esaltata, e non depauperata, dalla trasfigurazione dell’attrice in icona, epitome nell’immaginario di un essere della donna nella modernità che si muove, per dirla con Lucia Cardone (2014), come un «soggetto imprevisto».

Il volto e la gestualità della Vitti antononiana creano una musa inquietante che, come se incarnasse una vera e propria formula di pathos, inizia a diffondersi nell’immaginario artistico oltre i confini del cinema, mantenendo come cifra di riconoscibilità l’associazione cromatica al bianco e nero.

Un primo esempio è costituito dalle Untitled Film Stills di Cindy Sherman, corpus di settanta scatti fotografici in bianco e nero realizzati fra il 1977 e il 1980. È la stessa artista a dichiarare la propria ispirazione allo stile, alle atmosfere e ai personaggi dei film europei e di Antonioni:

 

I was mostly going for the look of European as opposed to Hollywood types. […] books about the movies – whole books on Garbo, Eastern European films, silent films, horror films, film fads. These books were my textbooks, my research. […] I liked the Hitchcock look, Antonioni, Neorealist stuff (Sherman 2003, p. 8).

 

Gli scatti ritraggono Sherman mentre incarna una serie di soggetti femminili in ambientazioni in esterno, per strada di notte, o in interno, con una predilezione per le camere da letto e le toilette. Nell’introduzione all’edizione completa delle Film Stills, Sherman ha sottolineato il suo desiderio di mettere in scena soggetti il più possibile inespressivi:

 

I was interested in was when they were almost expressionless. […] It was in European film stills that I’d find women who were more neutral, and maybe the original film were harder to figure out as well. I found that more mysterious. I looked for it consciously. […] They were women struggling with something but I didn’t know what. The clothes make them seem a certain way but then you look at their expression, however slight it may be, and wonder if maybe ʻtheyʼ are not what the clothes are communicating (Sherman 2003, pp. 8-9).
 

Non sono quindi le immagini stereotipate del cinema hollywoodiano o delle locandine pubblicitarie a fornire un punto di riferimento a Sherman, bensì quelle di donne ʻsospeseʼ all’interno di una quotidianità perturbante. Il modello di Monica Vitti è chiaramente ravvisabile in alcune Film Still: ad esempio in quelle in cui lo sguardo appare dinamico, rivolgendosi ad un punto fuori campo o alla superficie riflettente dello specchio (meccanismo ottico particolarmente caro alla poetica di Antonioni), come Untitled Film Still #14, #53 e #56, che richiamano da vicino La notte nel primo caso, la scena iniziale de L’eclisse per le altre due, ma anche L’avventura per l’ultima [figg. 2-3]. Il gioco fra la corporeità della figura femminile ed architetture metafisiche e inquietanti, si nota in Untitled Film Still #58, #64, #65 ma soprattutto in #63, in cui tanto la pettinatura quanto l’abbigliamento, e il gioco con l’astrazione verticale e il biancore della struttura architettonica circostante, marcano ancora di più la prossimità all’attrice italiana, ormai icona dell’inquietudine esistenziale [fig. 4].

Il ricorso al bianco e nero per tutte le fotografie rende ancora più impalpabili queste donne che «aren’t being lifelike, they are acting» (Sherman 2003, p. 9); il corpo rappresentato nella Still #63 è quello di un’attrice, di una Vitti reinventata, manipolata, e proprio per questo resa già icona.

L’uso del bianco e nero caratterizza la poetica di una delle più sperimentali graphic novel di Manuele Fior, L’intervista (2013). Ambientata nella Udine di un’Italia futuristica (siamo nel 2048), in cui i giovani stanno dando vita ad un nuovo modello di relazioni umane dettato dalla Nuova Convenzione, ci troviamo di fronte al rapporto fra Dora e Raniero: la prima una ragazza che ha aderito al movimento, che sostiene di saper leggere i segnali comunicati da un’intelligenza aliena e che per questo viene rinchiusa in un ospedale; il secondo, uno psicologo dalla vita apparentemente monotona, dal matrimonio ormai esausto e reduce da un incidente d’auto causato da una strana visione notturna. Quello che si instaura tra paziente e dottore (e qui il nome di Dora non può non richiamare la celebre isterica freudiana) è un rapporto che ricorda nei gesti e nei silenzi le coppie dei film di Antonioni, cui Fior ha affermato più volte di essersi ispirato. Se il ruolo di Dora può ricordare quello di Monica Vitti ne La notte, dal momento che si inserisce come una terza figura all’interno di una coppia borghese in piena crisi, la sua figurazione e il modo in cui interagisce con lo spazio ricordano più le atmosfere de L’eclisse: Vittoria e Dora scappano, ognuna a suo modo, dall’inevitabilità del matrimonio borghese, entrambe alternano una gestualità sbarazzina e giocosa (pensiamo a Vittoria che gioca a nascondino e che balla, e a Dora che fa saltare i sassi sul fiume) ad un atteggiamento molto più pensoso e imponderabile, che si manifesta figurativamente nel volgere lo sguardo verso l’alto. Così come Vittoria osserva le aste di ferro scosse dal vento di notte, allo stesso modo Dora guarda le immagini triangolari che appaiono nel cielo notturno [figg. 5-6].

Chiude il cerchio, sugellando il processo di ʻcanonizzazioneʼ dell’attrice in icona e diva-divina, il modo in cui l’immagine di Monica Vitti entra in How To Be Both di Ali Smith (2014), romanzo sperimentale diviso in due parti con protagoniste George, una giovane adolescente, e il fantasma del pittore rinascimentale Francesco del Cossa, che immagina di essere stato in realtà una donna. Francesco si ritrova catapultato nella contemporaneità e osserva in modo straniato oggetti e fenomeni assolutamente ordinari per il lettore. Ecco come il poster di un’attrice può quindi trasformarsi in un’immagine sacra:

 

The west wall has a large picture of a singularly beautiful woman: her eyes look straight out: there is something just beyond you, it says, I can see it and it’s sad, puzzling, a mystery: this is a very clever thing to do with eyes and demeanour: one of her arms is tight around her neck holding herself, at least I think it is her own arm, and this means the curve of her hair (which is coloured between dark and light) round her face makes her face look like the mask that means sadness in Greek ancients: she is sorry I think: I think on behalf of the victims: cause she is a figuring of St Monica I guess from it saying underneath in words that chance to be in my own language MONICA VICTIMS (Smith 2014, p. 288).

Nella prima parte del romanzo il lettore ha già familiarizzato con quest’immagine (benché non venga mai nominato il nome dell’attrice), che sappiamo essere un regalo della defunta madre di George in seguito ad una vacanza a Ferrara, durante la quale hanno visitato una mostra dedicata ad Antonioni (che si è effettivamente svolta nel 2013). L’immagine, che per George ha un carattere emotivo e memoriale, rafforzato dalla visione del film di Antonioni L’avventura, viene qui risemantizzata dello sguardo ‘estraneo’ dell’artista rinascimentale, che coglie l’immagine della diva interpretandone il carattere ‘divinum’, prima in senso mitologico (il rimando alla maschera greca), poi in quello di icona sacra (St. Monica Victims). L’ékphrasis sottolinea proprio i due caratteri che costituiscono il perno della costruzione iconografica di Vitti: lo sguardo che suggerisce un altrove indefinito, misterioso e allusivo, e il ricorrente bianco e nero attraverso il quale il volto assume i tratti di una musa triste e pensosa. L’apparente piattezza dell’immagine massificata di un poster commerciale (nella cui descrizione, in particolare dal riferimento al braccio, possiamo quasi intravedere un fermo-immagine da L’eclisse, ripreso anche in una vignetta pubblicitaria da Manuele Fior [figg. 7-8] acquista una nuova profondità, che lascia emergere tutte le contraddizioni che si stratificano sull’immagine pubblica e privata. La sovrapposizione tra la corporeità dell’attrice e la sua raffigurazione grafica è totale: Monica Vitti è definitivamente resa una diva.

 

 

Bibliografia

G. Bruno, Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema (2002), Monza, Johan & Levi, 2015.

E. Bronfen, B. Strauman, Die Diva: Eine Geschichte der Bewunderung, München, Schirmer/Mosel, 2002.

M. Centanni, K. Mazzucco, ʻPathosformeln delle Muse: la musa composta, la musa festosa, la musa pensosaʼ, La Rivista di Engramma, 14, febbraio 2002.

L. Cardone, S. Lischi (a cura di), Sguardi differenti. Studi di cinema in onore di Lorenzo Cuccu, Pisa, ETS, 2014.

M. Fior, L’intervista (2013), Roma, Coconino Press, 2015.

M. Germanà, E. Horton (eds.), Ali Smith. Contemporary Critical Perspectives, London, Bloomsbury, 2013. 

R. Krauss, Celibi (1999), Torino, Codice, 2004.

L. Le Saux, ‘Amour, Science-fiction et Italie, par Manuele Fiorʼ, BoDoï, 22 aprile 2013.

S. Marzullo, ʻUn pianeta attorno cui ruotare. Intervista a Manuele Fiorʼ, 404/file not found, 15 maggio 2015, <https://quattrocentoquattro.com/2015/07/15/un-pianeta-attorno-a-cui-ruotare-intervista-a-manuele-fior/ >

Seminario Mnemosyne (a cura di), ʻFigure della malinconia attraverso l’Atlante della memoria. Galleria ragionata delle immagini dal Bilderatlasʼ, La Rivista di Engramma, 140, dicembre 2016.

V. Pravadelli, Le donne del cinema. Dive, registe, spettatrici, Roma-Bari, Laterza, 2014.

ʻManuele Fior: un’intervista su… L’Intervistaʼ, Smokyland, 20 giugno 2013, <www.smokyland.blogspot.it>

C. Sherman, The Complete Untitled Film Stills, New York, The Museum of Modern Art, 2003.

A. Smith, How To Be Both, London, Penguin, 2015.