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In una sequenza famosa di Il sorpasso di Dino Risi (1962), i protagonisti Bruno (Vittorio Gassman) e Roberto (Jean-Louis Trintignant) corrono in auto lungo la via Aurelia e ascoltano Vecchio frac di Domenico Modugno. Bruno commenta: «A me ‘sto Vecchio frac me fa impazzi’. Perché pare una cosa da gnente e invece aho’, c’è tutto. La solitudine, l’incomunicabilità, e poi quell’altra cosa, che va de moda oggi… la… l’alienazione, come nei film de Antonioni. L’hai visto L’eclisse?». Roberto inizia ad abbozzare una risposta, ma Bruno riprende deciso: «Io c’ho dormito, ‘na bella pennichella. Bel regista, Antonioni. C’ha una Flaminia Zagato. Una volta sulla fettuccia di Terracina m’ha fatto allunga’ il collo». La tentazione di leggere in questo dialogo una sorta di gioco post-moderno ante litteram tra cultura alta e cultura bassa è forte, ma muoverebbe in una direzione diversa da quella suggerita dal saggio di Simona Busni (Roma, Edizioni Ente dello Spettacolo, 2019) del quale vorrei scrivere. E dunque, mi limito a notare come nello spazio breve di poche battute Risi e gli sceneggiatori Ettore Scola e Ruggero Maccari abbiano saputo condensare i luoghi comuni che più spesso circolavano – e ancora si ascoltano – sul cinema del regista ferrarese: la crisi dei sentimenti come atmosfera narrativa pervasiva e asfissiante, la cupa pesantezza dei dialoghi, e più di tutti l’alienazione.

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La giornata di studi padovana (19 ottobre 2014) ha offerto un interessante confronto interdisciplinare tra studiosi, studenti e pubblico sulla poliedrica produzione del coreografo giapponese Saburo Teshigawara per il quale la danza è una forma artistica in grado di travalicare i propri confini linguistici e misurarsi con altri codici espressivi. Ad accendere e a stimolare il dibattito ha contribuito senza dubbio la presenza dell'artista che, dopo aver presentato la sera precedente al Teatro Comunale di Ferrara la sua ultima creazione Landscape, ha esposto, insieme alla sua danzatrice Rihoko Sato, le idee alla base della sua poetica.

Nella prima parte della giornata sono stati proiettati alcuni materiali audiovisivi, quali A boy inside the boy, Danser l'invisible e Broken Lights, che documentano l’attività professionale dell'artista, capace di spaziare tra pittura, movimento, video e installazione. Ogni video è stato presentato dai dottorandi della Scuola di dottorato in Storia, critica e conservazione dei beni culturali di Padova (Laura Pellicelli, Margherita Pirotto e Francesco Verona), che da prospettive disciplinari differenti – arte, danza e cinema – hanno offerto alcune chiavi di lettura al pubblico presente in sala. Il mediometraggio A boy inside the boy prende le mosse da uno spunto autobiografico, un ‘rito’ che Saburo Teshigawara compiva da bambino la sera mentre aspettava che la madre preparasse la cena: con una rotella segnava la terra attraverso un gesto minimale e ripetitivo, fintanto che la terra stessa, secondo i suoi occhi, diventava ‘luminescente’. Il video si basa su memorie d'infanzia e trasfigura fatti reali in elementi onirici. Tale processo diventa la cifra espressiva dell'intero film: dalla scelta delle immagini alla loro concatenazione nel montaggio. Il documentario Danser l'invisible di Elisabeth Coronel registra le fasi di creazione di Kazahana e di Prelude for down, e propone alcuni estratti d'intervista a Teshigawara. Il lungometraggio, girato tra Francia e Giappone, offre frammenti della vita professionale dell'artista, quali il lavoro coreografico in sala prove con danzatori, professionisti e non, momenti dell'evento spettacolare sul palcoscenico, riflessioni del coreografo sulla genesi e sull'evoluzione del suo modo d'intendere la danza e ricordi di momenti cruciali della sua vita che lo hanno influenzato nella ricerca artistica. Infine, sono stati mostrati alcuni frammenti di Broken Lights, una performance-installazione presentata alla Ruhrtriennale del 2014, nella quale Saburo Teshigawara e Rihoko Sato danzano su una superficie frastagliata di vetri che ricopre quasi interamente il pavimento e le pareti dello spazio performativo e in cui le luci sono posizionate lungo tutto il perimetro della lastra. L’effetto visivo predominante è quello di una frantumazione della luce stessa, poiché riverberando sul vetro e sui corpi degli stessi danzatori essa produce una visione segmentata del setting e delle figure che vi si muovono. Ciò che vediamo è un’interazione tra il materiale, i corpi, lo spazio e la luce.

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«Quale rapporto intercorra tra la parola tipografica – quella poetica in particolare – e il gesto grafico del disegnatore, il colpo di pennello del pittore, il tratto di china del fumettista, il frame congelato del videoartista; in che modo questo rapporto si sia evoluto, modificato, arricchito nel tempo, […] sono questi, ci pare, i problemi fondamentali da cui partire per avviare una riflessione sul nesso arte-poesia […]». Così Riccardo Donati apre la Prefazione al volume Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione (Le Lettere, Firenze 2014), introducendoci nella trattazione, di ampio respiro, del rapporto tra poesia e arti della visione che è, nelle sue più differenti declinazioni, pur sempre una questione di designazione e assimilazione di codici differenti.

All’incrocio di arte della visione e arte dell’enunciazione si situa lo ‘sguardo’ del poeta che diviene parola-guida dei capitoli nei quali si analizzano le quattro differenti «forme del vedere arte in poesia» (p. 13) e i loro rappresentanti più significativi del Novecento italiano. Il lavoro di Donati instaura dialoghi, spesso inaspettati, tra poeti e autori non di rado distanti fra loro. È cioè sottesa a questa mappatura di sguardi novecenteschi la visione critica dello studioso che non teme di farsi ardita e fornire una chiave di lettura, tra le tante possibili, di una materia così eterogenea: ogni capitolo ha, dunque, la dichiarata natura di percorso, avventuroso ma costantemente guidato. Il pericolo del disorientamento è scongiurato dalle coordinate metodologiche e interpretative che Donati fornisce prima, per traghettarci, poi, lungo un viaggio che procede attraverso una scansione erudita e argomentativa in cui si chiamano in causa direttamente i testi offrendo, così, una ricognizione attenta e originale del panorama culturale considerato.

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To approach Motus’ theatre research means to escape from the idea of theatre as it is traditionally conceived. It is certainly more appropriate to speak of a production which is close to performance, sensitive to the world of internet and the culture of the youth, capable of moving across the languages of literature, television and cinema. In this work we try to analyze the project named Quando l’amore è più freddo della morte, dedicated to Fassbinder’s films and composed of two pieces, Rumore rosa and Piccoli episodi di fascismo quotidiano. The first project is a closed one, linked to the renowned film The Bitter Tears of Petra von Kant and to Fassbinder’s female characters. The second one instead, based on the stage play and screenplay Pre-paradise sorry now, is open, wandering and nomadic, prone to changes influenced by the different places and people it comes across. Shifting from one means of expression to the other, Motus chose, in their tribute to Fassbinder, to stage two specular pieces, between social politics and melodrama, speculating on the dynamics of abuse and violence generated by human interactions. In this work we chose to analyze Motus’ dramatic rules, the predominance of visual appearance over the script, the formal content and stylistic choices, analyzing in depth the literary and film references to – and the interplay with – Fassbinder’s production.

1. L’estetica visuale di Motus

Muoversi al confine tra teatro, performance, cinema e installazioni artistiche, attraversando le frontiere digitali: è questa l’essenza alla base del processo creativo di Motus.

Quella di Motus, in effetti, è una ricerca teatrale in continua trasformazione, in costante movimento, tanto per l’approccio nomade dei progetti (che prevede una serie di spostamenti e residenze creative in spazi e luoghi differenti), quanto per l’incessante viaggio teatrale all’interno dei diversi percorsi artistici del contemporaneo.[2]

L’interazione creativa tra i diversi linguaggi e il rapporto tra teatro, cinema, arti visive e nuove tecnologie è ciò che rende le drammaturgie e le messe in scena della coppia riminese radicali all’interno della ricerca di nuove modalità espressive. Seguendo questa cifra stilistica Motus rompe con la tradizione testuale del teatro, considerando la parola soltanto uno dei mezzi attraverso cui veicolare un messaggio forte e complesso, in una fitta rete di scambi e riflessioni sul reale. Commistione, contaminazione e ricerca si fondono all’interno del linguaggio teatrale di Motus, che fa convergere in sé molte altre forme d’arte, con la volontà di rendere promiscui i diversi codici comunicati, sgretolando l’assetto tradizionale e promuovendo il mutevole.

Motus attraversa i più svariati territori della visione, avvicinandosi a nuove pratiche sceniche attigue all’universo performativo e ricercando costantemente una dialettica tra mondo reale e teatro.

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