Riccardo Donati, Nella palpebra interna

di

     
Categorie



Questa pagina fa parte di:

«Quale rapporto intercorra tra la parola tipografica – quella poetica in particolare – e il gesto grafico del disegnatore, il colpo di pennello del pittore, il tratto di china del fumettista, il frame congelato del videoartista; in che modo questo rapporto si sia evoluto, modificato, arricchito nel tempo, […] sono questi, ci pare, i problemi fondamentali da cui partire per avviare una riflessione sul nesso arte-poesia […]». Così Riccardo Donati apre la Prefazione al volume Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione (Le Lettere, Firenze 2014), introducendoci nella trattazione, di ampio respiro, del rapporto tra poesia e arti della visione che è, nelle sue più differenti declinazioni, pur sempre una questione di designazione e assimilazione di codici differenti.

All’incrocio di arte della visione e arte dell’enunciazione si situa lo ‘sguardo’ del poeta che diviene parola-guida dei capitoli nei quali si analizzano le quattro differenti «forme del vedere arte in poesia» (p. 13) e i loro rappresentanti più significativi del Novecento italiano. Il lavoro di Donati instaura dialoghi, spesso inaspettati, tra poeti e autori non di rado distanti fra loro. È cioè sottesa a questa mappatura di sguardi novecenteschi la visione critica dello studioso che non teme di farsi ardita e fornire una chiave di lettura, tra le tante possibili, di una materia così eterogenea: ogni capitolo ha, dunque, la dichiarata natura di percorso, avventuroso ma costantemente guidato. Il pericolo del disorientamento è scongiurato dalle coordinate metodologiche e interpretative che Donati fornisce prima, per traghettarci, poi, lungo un viaggio che procede attraverso una scansione erudita e argomentativa in cui si chiamano in causa direttamente i testi offrendo, così, una ricognizione attenta e originale del panorama culturale considerato.

Lo sguardo-evento è il primo percorso tracciato: il fare creativo è chiamato «a fungere non più da specchio del reale, bensì da matrice del reale stesso» (p. 18) e, dunque, più che raffigurare l’esistente, lo sguardo-evento si offre «come intervento nel mondo e fondazione di un mondo, contributo all’espansione della complessità del reale» (p. 19). Nel solco di questo indirizzo sono ricondotte tre caratteristiche portanti: l’attenzione allo spazio inteso come luogo psichico, coscienziale; la consegna del testimone, nell’ambito dell’organo privilegiato della percezione, dall’occhio alla mano, che deriva dall’idea di arte intesa come gesto, ritmo – si noterà, allora, come non casualmente Donati parli, per gli esponenti dello sguardo-evento, di una «funzione Pollock» (p. 42); il coinvolgimento totalizzante dell’osservatore il quale ha, dunque, una «fruizione estatica» (p. 23), cioè di etimologica ek-stasis, uscita da sé. A questo punto l’analisi procede lungo i quattro paragrafi dedicati rispettivamente a Emilio Villa, Toti Scialoja, Piero Bigongiari e Bartolo Cattafi. Emerge, inoltre, come, per tutti questi interpreti, primaria sia stata la riflessione del ruolo di caos e caso, giacché nel fare creativo l’artista deve «governare il caos attraverso la manipolazione del caso» (p. 31).

Nello Sguardo-avvento il lettore è chiamato a vedere al di là del contingente, così come il gesto artistico si impone per la sua capacità di mostrare allo spettatore ciò che è nascosto; un gesto artistico che ha, dunque, i tratti della rivelazione, e si pone non nei termini dell’astrazione quanto piuttosto «dell’estrazione […] di coordinate assolute capaci di istituire un rapporto più o meno diretto con l’invisibile e il soprasensibile» (p. 94). E si dovrà, allora, fare un passo indietro e riconsegnare il primato di organo della percezione all’occhio, rinunciando, altresì, anche a una visione estatica dell’opera d’arte a vantaggio di una modalità di fruizione frontale che conduca, attraverso gli occhi, oltre il dato esperibile. Donati definisce le due diverse tipologie di avvento: l’icona e l’idolo. Nel primo caso si tratta di un veicolo di alterità, di un’opera che funziona, attraverso gli occhi del poeta, da varco, «accesso privilegiato all’essere, rientrando perciò in un regime propriamente contemplativo» (p. 96): è iconico tanto lo sguardo di Mario Luzi verso le architetture della Firenze rinascimentale e la pittura di Simone Martini, quanto quello di Gatto verso l’arte di Cézanne. Quando l’opera d’arte, invece, più che essere viatico, finisce con l’assumere direttamente su di sé la sacralità, «affermando la potenza di una presenza immediata» (p. 97), ci troviamo di fronte a un idolo: ha i tratti dell’avvento lo sguardo di Giovanni Testori rivolto alle bottiglie di Giorgio Morandi e, soprattutto, ai corpi nudi caravaggeschi; ed è, precisamente, l’avvento di idoli impuri d’opere d’arte, ripugnanti ed esaltanti al tempo stesso, idoli «bifronte» che hanno in sé «l’infimo e il sublime, la materia più vile e quella più preziosa» (p. 125). Mentre oscillante tra i due poli risulta la complessa esperienza pasoliniana che negli anni Sessanta vede lo scivolamento dello sguardo-avvento dalla forma iconica a quella idolatrica.

Nel terzo percorso Donati presenta Lo sguardo-esperimento che «coglie […] nel fatto artistico in primo luogo un fenomeno, un dato che la poesia è chiamata a registrare, rielaborare, eventualmente ri-significare» (p. 146). Sul piano teorico l’attività degli esponenti di tale indirizzo viene ricondotta dall’autore a due modelli principali: l’esperimento col sé e l’esperimento sul noi. Nel primo caso il nesso tra opera e sguardo si stabilisce a partire dalla dimensione privata, personale. È ciò che avviene con lo sguardo di Zavattini rivolto all’opera di Ligabue e che, lungi dall’avere tratti narcissici, si configura come riflessione sull’Io e sull’Altro, «su come accidenti sia possibile che quell’Altro che non è Io lo riguardi così da vicino e lo interessi così intimamente» (p. 160), secondo un duplice movimento di vicinanza e lontananza recuperato dal modello ritrattistico che è capace, insieme, di ritrarsi – da ritratto – ma anche di portarsi avanti – da portrait che evoca l’idea di protractus. E ancora nel solco dell’esperimento col sé sono ricondotte le personalità poetiche di Giovanni Raboni e Andrea Inglese, seppur con esiti profondamente differenti se per il primo «il trasloco dentro l’immagine attuato dalla poesia» (p. 173) ha funzioni, almeno in parte, liberatorie, mentre per il secondo rappresenta la messa in scena di un incubo. Quando l’esperimento intrapreso chiama la poesia «ad agire da collettore/rivelatore» (p. 148) allora esso è esperimento sul noi che ha, invero, posizioni frequentemente critico-militanti che, come nel caso di Sanguineti e, in misura meno esemplare di Risi, sono portate a desacralizzare l’oggetto artistico svelandone le componenti repressive e mistificatorie. La ricognizione si conclude con la figura di un autore, Valentino Zeicher, che tende a ribellarsi da un perfetto inquadramento nell’una quanto nell’altra forma di sguardo-esperimento, situandosi a metà strada tra i modelli di esperienza col sé ed esperienza sul noi.

L’ultimo capitolo presenta Lo sguardo-accecamento che è sostanzialmente il prodotto della «separazione tra sguardo e occhi di cui parla a più riprese nei suoi scritti Yves Bonnefoy» (p. 199): tutti vedono le immagini, sovraprodotte dalla realtà contemporanea, ma quasi nessuno più le osserva. Segue poi, secondo una struttura riproposta in tutti i percorsi novecenteschi, l’analisi dei principali interpreti di questo filone: Valerio Magrelli, accostato, nel suo «percorso di accecamento per immersione autoscopica» (p. 208), all’esperienza di Francis Bacon; Elisa Biagini, della quale l’autore segue i due movimenti dello sguardo, il rovesciare gli occhi, verticale e introflesso, e lo svolgere la propria pelle, orizzontale ed estroflesso; Tommaso Ottonieri, il cui sguardo è «assimilato e digerito dal cinema» (p. 238) come emerge dalle considerazioni condotte, per lo più, sul libro del 2010 Cinema come poesia. Infine, a chiudere l’ultimo capitolo dell’opera è il paragrafo dedicato a Gabriele Frasca e al suo particolare sguardo in ascolto. Se lo sguardo è occupato da forze esterne che lo manipolano, non potendo riattivarlo con l’occhio accecato, occorrerà rivolgersi ad altri sensi, metterlo in ascolto «con il corpo chiamato a fungere da cassa armonica, così da amplificare il rumore degli occhi» (p. 248). Non stupisce, dunque, che lo sguardo-accecamento di Frasca, indagato soprattutto nel romanzo Il fermo volere, rivolga la visione al cinema e, in special modo, al fumetto.