6.1. Salinas e Clerici: Amor, mundo en peligro

di Alessandro Giammei

Dopo aver realizzato Frammenti di una sconfitta e Diario Bolognese di Sereni e Gentilini a metà del ’57, Riva si dedicò a lungo a questo secondo volume dei “Poeti Illustrati”. Uscito all’inizio dell’anno successivo e, al pari del precedente, «pubblicato a Milano da Vanni Scheiwiller» (come recita il colophon), Amor, mundo en peligro è il primo libro illustrato delle Editiones Dominicae a raggiungere, forse anche grazie alla natura non poi così privata della sua diffusione, un immediato prestigio internazionale. Compare infatti nel catalogo della mostra The artist and the book 1860-1960, tenutasi a Boston a fine decennio, e lo stampatore lo raccoglierà – insieme ad altri quattro tra i primissimi della serie – nella minima tiratura (sette esemplari) di Cinque poeti illustrati: una vera rarità bibliografica che celebra, nel ’64, la maturità del progetto editoriale.

Affidandosi a Fabrizio Clerici, allora già affermato pittore neo-barocco e post-metafisico, Riva sa di poter contare su un professionista dell’acquaforte e su un lettore raffinato. Appena compiuta la vetrata dedicata a Santa Caterina nella basilica senese di San Domenico e con alle spalle diversi libri illustrati realizzati con Mondadori, l’artista era, alla fine degli anni Cinquanta, in procinto di dedicarsi ad alcuni tra i maggiori cicli della sua carriera: quello del Principe per Laterza, quello, più tardo, per Il Milione introdotto da Moravia (e poi, in una riedizione, da Manganelli), e soprattutto quello monumentale per l’Orlando Furioso uscito, con un saggio di Bacchelli, in una preziosa edizione Electa ancora oggi oggetto di studio. Beniamino della società letteraria, profondamente ispirato dai classici e dagli scrittori suoi sodali, Clerici è scelto dallo stampatore veronese per la sua modernità sorniona, capace di rielaborare il Novecento maggiore senza angosce avanguardistiche. In Il mio dimestico torchio è infatti annoverato tra quegli illustratori che, nel panorama delle sue collaborazioni, «depongono tutt’altro che a favore di un tradizionalismo insensato e chiuso», nel segno di uno sperimentalismo tipografico estremamente consapevole della tradizione ma aperto a nuove soluzioni e insolite figurazioni, specie quando si tratta di sposare un’immagine a versi contemporanei.

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5. I poeti del dopo Montale

di

     

5.1. Giudici e Steffanoni: Le ore migliori

Le ore migliori. Due poesie di Giovanni Giudici e un’acquaforte firmata e numerata di Attilio Steffanoni è il terzo “Quaderno dei Poeti Illustrati” ed esce nel giugno 1967. Giudici è già il poeta de La vita in versi, il libro pubblicato nel 1965 da cui viene trascelta Le ore migliori. A seguire un inedito, L’età, come anticipazione di Autobiologia, il libro cui il poeta sta attendendo nell’anno cruciale del suo primo viaggio praghese e che uscirà nel 1969.

Più che un’illustrazione, l’acquaforte di Steffanoni (fig. 1) è un’interpretazione grafica de Le ore migliori: nella cappelluta ombra nera, divisa a tre quarti fra un disordinato interno domestico e l’esterno in cui un’utilitaria conduce al lavoro, s’indovina la figura di un uomo che è e non è lo stesso Giudici. È il poeta, quello che Mengaldo avrebbe definito «il più acuto e crudele poeta del capitalismo postbellico», ed è il suo personaggio o doppio, ovvero, per dirla con Zanzotto, quell’«uomo impiegatizio nella sua versione più tetra […], che, si nasconda nell’io nel tu o nel lui, è una caricatura del sé in quanto tipo, generalità. Un tipo […] tanto ovviamente ostile all’ordine del neocapitalismo quanto ovviamente succube dal punto di vista comportamentale». Quest’ambigua condotta sociale ha il suo esatto corrispettivo metrico nella gestione ironica delle forme istituzionali, cui è tributato l’ossequio menzognero di chi non muta le cose (siano esse i metri o la società) ma il proprio atteggiamento nei loro confronti. In questo senso si capisce perché il saggio La gestione ironica sia considerato dallo stesso Giudici «una proposta di comportamento globale».

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4.1. Botta e risposta (lettera da Asolo)

Sabato 21 luglio 1976 sul giornale veronese L’Arena Franco Riva firma un articolo intitolato Petrarca 1476 – Montale 1976 nel quale ripercorre la propria storia di stampatore di libri di pregio e, in concomitanza con l’uscita delle due edizioni che qui schediamo, dichiara la sua lunga «devozione» a Montale. Riva ricorda l’incontro con il poeta avvenuto presso il Corriere della Sera per via delle «prime tipografiche esperienze» e poi evoca, con una (perdonabile) affettazione di confidenza, le recenti conversazioni intrattenute sulla fauna ornitologica di Poiano, località dove ha stabilito il proprio torchio e dove risiedeva Felice Feliciano, scriptor nel quale si rispecchia. Il nome di Franco Riva non è certo immediatamente associabile a Montale, e questo scritto è una testimonianza preziosa per inquadrare il sodalizio tra lo stampatore e il poeta. L’orgoglio di appartenere a una linea d’arte umanistica, la passione filologica e insieme l’entusiasmo intellettuale di Riva sono importanti per intendere la consentaneità con Montale, che partecipa al progetto delle Editiones Dominicae in qualità di poeta (tre testi accompagnano sei incisioni di Renzo Sommaruga nel 1952 già per le Edizioni del Gatto, mentre due edizioni di Xenia escono nel 1968 e nel 1970) e poi, per i “Quaderni dei Poeti Illustrati”, in qualità di poeta-pittore: qui consideriamo i due libri illustrati che nascono dalla collaborazione tra il torchio manuale di Riva e un Montale che infatti è insieme autore e illustratore dei suoi testi.

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3.1. De Libero e Vespignani: Settembre tedesco

di Nicola Lucchi

La pubblicazione della poesia Ventidue settembre di Libero De Libero, accompagnata da un’acquaforte di Renzo Vespignani, consente a Franco Riva di affrontare tramite gli strumenti della letteratura e dell’arte una pagina tragica e complessa della recente storia italiana, l’occupazione nazista di Roma del 1943-1944. Il tema della lirica è l’assassinio di un giovane italiano, l’undicenne Claudio Bin, per mano di un soldato tedesco della Wehrmacht. Conscio della portata storica ed emotiva dell’edizione, Riva si ritira nello spazio stringato di un brevissimo colophon, privo di qualsiasi ironia, commento, o dettaglio superfluo, lasciando spazio alla voce dell’autore. In una lunga postilla è lo stesso De Libero a illustrare le circostanze che informarono la genesi della poesia e le ragioni della sua ristampa, un ammonimento affinché le tragedie di quegli anni non abbiano a ripetersi.

La lirica si discosta parzialmente dal ricorso a immagini simboliche, talora impenetrabili, che caratterizza una parte significativa della produzione poetica di De Libero. Questo allontanamento è tuttavia in linea con quel rinnovato desiderio di un diretto impegno civile maturato da artisti e intellettuali durante la seconda guerra mondiale, e spesso esplicitato nell’immediato dopoguerra. Il componimento è introdotto dall’incipit banale e burocratico del verbale con cui un agente di Pubblica Sicurezza registrò l’uccisione di Claudio Bin. Al distacco della prosa poliziesca fa seguito lo sfogo di De Libero, iperbolicamente pronto a cambiare il corso della natura per affermare il proprio dolore e l’insensatezza della morte di un giovane «ucciso col mitra perché rideva». La poesia accumula una serie di immagini poetiche piegate ora alle formule del lamento funebre, ora allo sfogo di rabbia; ora all’invettiva, ora alla consolazione della madre. Ad occupare l’intera composizione, con una presenza oppressiva e quasi fisica, è la figura minacciosa e martellante del «tedesco», una scelta lessicale impiegata per la sua doppia valenza di soggetto e aggettivo, ma in entrambi i casi sinonimo di un più prosaico assassino.

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A colloquio con la memoria, coi ricordi di quando era ancora solo un principiante del dilettantismo, Franco Riva, lo stampatore veronese a cui è dedicata questa galleria annotò nel 1973: «volevo cose singolari, in limitatissime copie, per me e per pochi». Non molte delle private press che hanno resuscitato i torchi a mano al crepuscolo della modernità europea raggiungevano simili vette di privatezza: a confronto con quelle di Franco Riva, estraneo anche alla più selettiva idea di ‘pubblico’ o di ‘mercato’, appaiono industriali persino le edizioni della vicina stamperia Valdonega, o di quelle di Scheiwiller e di Schwarz a Milano. Intitolò l’articolo, poi raccolto nel libro più ricco dedicato alla sua arte, Stampare di domenica, rimarcando la gratuità festiva, domenicale appunto, della sua più che mai singolare vicenda artigiana, che in una ventina d’anni aveva portato nel seminterrato di casa sua – vera officina domestica, coi fogli umidi sospesi sui fili e oltre quattro quintali di ferro tra ingranaggi e caratteri – gli onori del premio Bodoni per la grafica editoriale.

Al modello di Bodoni si era votato a suo tempo Hans Mardersteig, prima ancora di diventare, proprio a Verona, Giovanni, e di fondare la leggendaria Officina intitolata al grande stampatore. Il tedesco cantato da Herman Hesse, allievo di Kurt Wolff e protagonista delle più ardite e raffinate imprese tipografiche del Novecento italiano (dall’opera omnia di D’Annunzio per Mondadori a quella di Nietzsche per la neonata Adelphi, passando per i volumi dei “Cento Amici del Libro”), è stato un maestro prezioso per il giovane Riva, che già a trent’anni comprava il primo torchio e cominciava a sperimentare le noie di una paradossale allergia agli inchiostri. Malgrado tutto, con gli entusiasti contraccolpi che agitano la carriera di ogni energico autodidatta, il filologo e bibliotecario riesce in meno di un decennio e senza alcun tipo di finanziamento o profitto a raggiungere la più importante mostra internazionale di libri d’artista. I curatori americani selezionano ed espongono a Boston, nel 1960, un suo fascicolo di appena tre fogli piegati, dodici specchi di stampa in tutto, in cui a una lirica moderna è accostata un’acquaforte realizzata appositamente da un artista italiano: si tratta di uno dei primissimi numeri della sua collana più ambiziosa, “I Poeti Illustrati”, che proseguirà fino alla sua morte articolandosi in due serie affiancate e, a partire dal 1966, da una selezione di “Quaderni”.

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Ricostruire i percorsi artistici e biografici di una generazione cruciale per la cultura italiana del Novecento a distanza di un secolo dalla nascita dei suoi principali animatori e protagonisti: questa la motivazione di fondo del Convegno Internazionale di studi L’Ermetismo e Firenze (Firenze, 27-31 ottobre 2014), che ha presentato – con circa ottanta interventi – un variegato quadro di lettura e discussione sulla poesia, il pensiero e la vita di Mario Luzi, Piero Bigongiari, Alessandro Parronchi, Vittorio Bodini e Vittorio Sereni.[1]

Durante lo svolgimento dei lavori ha suscitato grande interesse l’analisi del rapporto tra la dimensione poetica e il mondo delle altre arti, figurative in primis. È emersa, nel corso di molti interventi, l’assenza di una distinzione oppositiva o gerarchica tra il fenomeno della poesia e quelli della pittura, scultura e architettura, tutti accomunati, nella riflessione degli autori ermetici, dalla ricerca di eticità e verità nella bellezza dell’esistente. Tra le ragioni di questo atteggiamento è stata rilevata l’atmosfera in cui l’ermetismo si è sviluppato (la «dimora vitale» di una Firenze gravida di echi medievali e rinascimentali, di architetture misuratissime e di opere ispirate alla pienezza del contatto tra l’uomo e Dio), che ha certamente favorito nei singoli poeti e nel complesso dei loro scambi intellettuali l’attenzione alle ragioni culturali ed estetiche della forma che l’uomo progetta, produce e dunque abita. Soprattutto nei casi di Luzi, Bigongiari e Parronchi (geniale critico e storico d’arte oltre che poeta) è stato ineliminabile il riferimento congiunto alla poesia e all’arte tout court per entrare nel merito di questioni generali quali la rappresentabilità della natura e del mondo, il valore dell’arte come metafisica umana a confronto con l’azione disgregante del tempo, la discussione (anche eminentemente politica e sociale) intorno alla funzione e al valore etico degli spazi urbani. Sulla scorta di una simile, ricca dialettica, i nomi degli ermetici sono stati utilmente affiancati a quelli di grandi maestri dell’arte, da Brunelleschi a Michelangelo, da Paolo Uccello a Leonardo da Vinci, fino ai contemporanei Rosai, Venturino Venturi, Mario Marcucci e Pollock.

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«Quale rapporto intercorra tra la parola tipografica – quella poetica in particolare – e il gesto grafico del disegnatore, il colpo di pennello del pittore, il tratto di china del fumettista, il frame congelato del videoartista; in che modo questo rapporto si sia evoluto, modificato, arricchito nel tempo, […] sono questi, ci pare, i problemi fondamentali da cui partire per avviare una riflessione sul nesso arte-poesia […]». Così Riccardo Donati apre la Prefazione al volume Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione (Le Lettere, Firenze 2014), introducendoci nella trattazione, di ampio respiro, del rapporto tra poesia e arti della visione che è, nelle sue più differenti declinazioni, pur sempre una questione di designazione e assimilazione di codici differenti.

All’incrocio di arte della visione e arte dell’enunciazione si situa lo ‘sguardo’ del poeta che diviene parola-guida dei capitoli nei quali si analizzano le quattro differenti «forme del vedere arte in poesia» (p. 13) e i loro rappresentanti più significativi del Novecento italiano. Il lavoro di Donati instaura dialoghi, spesso inaspettati, tra poeti e autori non di rado distanti fra loro. È cioè sottesa a questa mappatura di sguardi novecenteschi la visione critica dello studioso che non teme di farsi ardita e fornire una chiave di lettura, tra le tante possibili, di una materia così eterogenea: ogni capitolo ha, dunque, la dichiarata natura di percorso, avventuroso ma costantemente guidato. Il pericolo del disorientamento è scongiurato dalle coordinate metodologiche e interpretative che Donati fornisce prima, per traghettarci, poi, lungo un viaggio che procede attraverso una scansione erudita e argomentativa in cui si chiamano in causa direttamente i testi offrendo, così, una ricognizione attenta e originale del panorama culturale considerato.

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