3.1. De Libero e Vespignani: Settembre tedesco

di Nicola Lucchi

La pubblicazione della poesia Ventidue settembre di Libero De Libero, accompagnata da un’acquaforte di Renzo Vespignani, consente a Franco Riva di affrontare tramite gli strumenti della letteratura e dell’arte una pagina tragica e complessa della recente storia italiana, l’occupazione nazista di Roma del 1943-1944. Il tema della lirica è l’assassinio di un giovane italiano, l’undicenne Claudio Bin, per mano di un soldato tedesco della Wehrmacht. Conscio della portata storica ed emotiva dell’edizione, Riva si ritira nello spazio stringato di un brevissimo colophon, privo di qualsiasi ironia, commento, o dettaglio superfluo, lasciando spazio alla voce dell’autore. In una lunga postilla è lo stesso De Libero a illustrare le circostanze che informarono la genesi della poesia e le ragioni della sua ristampa, un ammonimento affinché le tragedie di quegli anni non abbiano a ripetersi.

La lirica si discosta parzialmente dal ricorso a immagini simboliche, talora impenetrabili, che caratterizza una parte significativa della produzione poetica di De Libero. Questo allontanamento è tuttavia in linea con quel rinnovato desiderio di un diretto impegno civile maturato da artisti e intellettuali durante la seconda guerra mondiale, e spesso esplicitato nell’immediato dopoguerra. Il componimento è introdotto dall’incipit banale e burocratico del verbale con cui un agente di Pubblica Sicurezza registrò l’uccisione di Claudio Bin. Al distacco della prosa poliziesca fa seguito lo sfogo di De Libero, iperbolicamente pronto a cambiare il corso della natura per affermare il proprio dolore e l’insensatezza della morte di un giovane «ucciso col mitra perché rideva». La poesia accumula una serie di immagini poetiche piegate ora alle formule del lamento funebre, ora allo sfogo di rabbia; ora all’invettiva, ora alla consolazione della madre. Ad occupare l’intera composizione, con una presenza oppressiva e quasi fisica, è la figura minacciosa e martellante del «tedesco», una scelta lessicale impiegata per la sua doppia valenza di soggetto e aggettivo, ma in entrambi i casi sinonimo di un più prosaico assassino.

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Ludovico Ariosto, Orlando furioso: canto ventesimottavo; con quattro incisioni di Franco Gentilini, Pesaro, Edizioni della Pergola 1979

In queste brevi e icastiche affermazioni risiede gran parte della fortuna di Franco Gentilini, artista nato a Faenza nell’agosto del 1909 e trasferitosi a Roma negli anni Trenta del Novecento, noto per i suoi rapporti con molti letterati e altrettanto famoso per i numerosi ritratti femminili che realizzò durante la sua carriera. Romano per scelta, per attrazione – potremmo dire; un’attrazione irresistibile esercitata – come egli stesso ha raccontato – da alcune illustrazioni realizzate da Scipione per la «Fiera Letteraria» e che portò il giovane artista faentino a frequentare e divenire membro dell’elitario circolo di artisti e scrittori che si riuniva nella saletta del famoso caffè Aragno. Lì divenne amico di protagonisti della vita intellettuale romana di quegli anni: da Emilio Cecchi ad Ardengo Soffici, da Giuseppe Ungaretti a Bruno Barilli.

Sin dalla sua formazione, Gentilini mostrò dunque la sua propensione per la grafica e per il fruttuoso sodalizio tra arti visive e scrittura, che segnò tutta la sua esistenza e gli procurò l’appellativo di «pittore prediletto dai letterati». Ma il suo incontro con la letteratura non si limitò esclusivamente al contemporaneo (come ad esempio un’acquaforte per Frammenti di una sconfitta di Vittorio Sereni o i sei disegni per La formica argentina di Italo Calvino); egli mise alla prova la propria arte confrontandosi anche con opere cronologicamente distanti e disparate: dalla Metamorfosi di Kafka (1953) alla Commedia dantesca (1959).

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