«Sognare un amore vero è proprio un bel sogno». Motus incontra Fassbinder

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To approach Motus’ theatre research means to escape from the idea of theatre as it is traditionally conceived. It is certainly more appropriate to speak of a production which is close to performance, sensitive to the world of internet and the culture of the youth, capable of moving across the languages of literature, television and cinema. In this work we try to analyze the project named Quando l’amore è più freddo della morte, dedicated to Fassbinder’s films and composed of two pieces, Rumore rosa and Piccoli episodi di fascismo quotidiano. The first project is a closed one, linked to the renowned film The Bitter Tears of Petra von Kant and to Fassbinder’s female characters. The second one instead, based on the stage play and screenplay Pre-paradise sorry now, is open, wandering and nomadic, prone to changes influenced by the different places and people it comes across. Shifting from one means of expression to the other, Motus chose, in their tribute to Fassbinder, to stage two specular pieces, between social politics and melodrama, speculating on the dynamics of abuse and violence generated by human interactions. In this work we chose to analyze Motus’ dramatic rules, the predominance of visual appearance over the script, the formal content and stylistic choices, analyzing in depth the literary and film references to – and the interplay with – Fassbinder’s production.

1. L’estetica visuale di Motus

Muoversi al confine tra teatro, performance, cinema e installazioni artistiche, attraversando le frontiere digitali: è questa l’essenza alla base del processo creativo di Motus.

Motus: come e perché? Perché Motus, rispondo. È la parola che più mi si addice. Breve. Solitaria. Poche sillabe compresse. Continua dolcemente o con rabbia. Condensa il teatro che amo e che inseguo. Un teatro che lavora sulle onde. E non si accontenta mai di sé. Di tanto in tanto si quieta, poi è di nuovo in tempesta. Un mare mosso. Sempre uguale. Sempre diverso. Testardo.[1]

Quella di Motus, in effetti, è una ricerca teatrale in continua trasformazione, in costante movimento, tanto per l’approccio nomade dei progetti (che prevede una serie di spostamenti e residenze creative in spazi e luoghi differenti), quanto per l’incessante viaggio teatrale all’interno dei diversi percorsi artistici del contemporaneo.[2]

L’interazione creativa tra i diversi linguaggi e il rapporto tra teatro, cinema, arti visive e nuove tecnologie è ciò che rende le drammaturgie e le messe in scena della coppia riminese radicali all’interno della ricerca di nuove modalità espressive. Seguendo questa cifra stilistica Motus rompe con la tradizione testuale del teatro, considerando la parola soltanto uno dei mezzi attraverso cui veicolare un messaggio forte e complesso, in una fitta rete di scambi e riflessioni sul reale. Commistione, contaminazione e ricerca si fondono all’interno del linguaggio teatrale di Motus, che fa convergere in sé molte altre forme d’arte, con la volontà di rendere promiscui i diversi codici comunicati, sgretolando l’assetto tradizionale e promuovendo il mutevole.

Motus attraversa i più svariati territori della visione, avvicinandosi a nuove pratiche sceniche attigue all’universo performativo e ricercando costantemente una dialettica tra mondo reale e teatro.

Accogliendo ciò che già era stato teorizzato dalla Postavanguardia e dal Teatro Immagine, in Motus il visuale diviene il linguaggio preferito per la costruzione drammaturgica.

Lo spettacolo viene recuperato come luogo di condensazione di segni linguistici che, pur non appartenendo alla forma teatro, consentono, comunque, di ricondurre quelle esperienze ad una nozione codificata di teatro. La scrittura scenica, in questo quadro, ha la funzione di fornire una sorta di vera e propria grammatica visuale del linguaggio.[3]

I diversi dispositivi della visione, che prendono spunto dalle arti figurative come dal cinema, si pongono in rapporto col testo e con la scena stessa, che si colloca come luogo privilegiato dell’immagine.

Superando il limite della parola, Motus, in linea con la sostanza primaria della performance, sceglie di giocare con tutti i possibili elementi espressivi, ponendo al centro dell’evento artistico la comunicazione. La dimensione della performance dunque contagia e travalica i limiti del tradizionale evento spettacolare dilatandone i confini. Proprio l’etimo della parola performance da to perform, ovvero fornire una prestazione (è questa la traduzione più fedele del verbo), infatti, suggerisce il fare, o meglio l’agire come fulcro dell’azione performativa. Tale azione è per il teatro di Motus un’arma, talvolta agita attraverso l’ausilio del suono e del video e spesso consumata ossessivamente tramite il movimento corporeo martellante, percorso da nevrosi.

Un altro aspetto che avvicina Motus al limes della performance è la scelta di luoghi non convenzionali nei quali far agire e con i quali far interagire i propri lavori. L’intento di destrutturare la tradizionale fruizione dell’evento teatrale si completa con la volontà di rendere la visione, fuori da uno spazio ufficialmente connotato, un momento di ancor più forte condivisione e intimità collettiva, connesso peraltro con l’antica dimensione del mito. Prediligere luoghi tradizionalmente non legati all’evento teatrale consente per lo più di instaurare con la realtà sociale relazioni, scambi e interazioni più profonde. Uscire dall’edificio teatrale significa aprirsi alla dimensione urbana e metropolitana, a un insieme di richiami individuali e collettivi necessari per indagare e interrogarsi sulle identità contemporanee. Tale decisione determina la cifra stilistica di Motus e la volontà di attingere in tal modo alla cultura pop e postmoderna, al fumetto, al videogioco in un miscuglio di frammentazione e contaminazione che appartiene al teatro sperimentale degli ultimi decenni.

Nell’estetica di Motus risulta, inoltre, fondante la presenza dei mezzi e del linguaggio multimediale che permette di moltiplicare i livelli del visuale. Video wall, telecamere e schermi consentono di creare un codice universale che oltrepassa e supera i limiti della lingua italiana, per trasmettere tramite flash visivi messaggi capaci di colpire fortemente l’attenzione dello spettatore. I dispositivi digitali consentono così di moltiplicare i punti di vista, rendendo lo schermo uno specchio della scena o in altri casi una sua estensione.

L’avvento delle nuove tecnologie e il continuo flusso di immagini alle quali la società odierna è sottoposta ha prodotto una virtualizzazione della realtà e la sua conseguente frammentazione in microscopici e onnipresenti pixel divenuti ormai un fruscio di sottofondo che confonde e suggestiona. In tal modo l’atto del vedere è al centro delle pratiche conoscitive dell’individuo che si ritrova investito da una molteplicità di visioni, luoghi e punti di vista.[4]

Dinanzi a un tale sovraccarico di suoni, immagini e informazioni, il teatro monodimensionale lascia il posto, come nel caso di Motus, a una scena carica di percezioni e azioni simultanee, ma parzialmente mutuate dal linguaggio visuale del cinema, della televisione e delle arti visive. Si tratta, quindi, di una linea di ricerca che sfrutta tutte le possibilità fornite dall’evoluzione tecnologica, accogliendo suggestioni provenienti da ambiti disciplinari e linguistici compositi. Nascono così lavori teatrali che traggono ispirazione da Beckett, Bacon, Cocteau, Baudrillard, per arrivare poi a Pasolini e Fassbinder. Quest’ultimo è al centro di un progetto intitolato Quando l’amore è più freddo della morte che ha dato vita a due spettacoli: Rumore rosa e Piccoli episodi di fascismo quotidiano. L’itinerario creativo teatrale di Motus nell’universo del celebre regista tedesco sarà oggetto della nostra analisi nelle prossime pagine, per l’enigmatica e affascinante declinazione in scena di pathos e furore, ebbrezza di corpi e scintillio intermediale.

2. In viaggio verso Fassbinder: Quando l’amore è più freddo della morte

Dopo Pasolini, l’ultimo e disperato Pasolini di Petrolio e Salò, abbiamo deciso di dover continuare, con la stessa urgenza, a ri-percorrere un passato che si fa sempre più recente, basta solo un piccolo sguardo indietro, verso quel rimosso della storia che in Europa continua a venir pacificamente edulcorato, ancor più dopo la caduta del Muro. [...] In tutta l’opera di Fassbinder si percepiscono gli echi dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, che risuonano nelle macerie del muro di Berlino e si propagano con il fragore delle Torri gemelle: il crollo che tutti abbiamo visto in tempo reale. Alla televisione. E questo fragore è al centro di tutto il lavoro su Fassbinder.[5]

Affascinato dall’immaginario cinematografico stratificato e complesso di Fassbinder, il gruppo riminese sceglie di intraprendere un viaggio che, approdando a due diverse messinscene, scandaglia i due volti speculari della produzione fassbinderiana. Con Rumore rosa, infatti, Motus si avvicina alla dimensione melodrammatica del regista tedesco, mentre con Piccoli episodi di fascismo quotidiano affronta la sfera più propriamente politica cara a Fassbinder.

Il cinema dell’artista tedesco diviene così un riferimento essenziale per indagare i rapporti servo-padrone, i meccanismi di prevaricazione e condizionamento presenti nella società contemporanea. Sottomissione e dominio nel rapporto a due, in particolare, sono al centro della riflessione di Motus tanto nel primo quanto nel secondo lavoro del progetto dedicato a Fassbinder.

Simuliamo, con pezzi e poveri frammenti, un interno dalla banale normalità, fatto di oggetti, cose, assolutamente riconoscibili, e le facciamo tremare… andiamo a ricercare i segni, le tracce del fascismo ancora predominante proprio nell’infimo, nel quotidiano, perché «… è nelle abitudini del comune vivere domestico che si annidano i germi che alimentano le ideologie autoritarie...» (Wilhelm Reich, Psicologia di massa del fascismo, Einaudi, Torino, 2002), fra la polvere nascosta sotto i tappeti, dietro i crocifissi e i merletti, nei rapporti di coppia, in quelli tra padri e figli, fra datore di lavoro e dipendenti e… fra registi e attori.[6]

Già nella fase produttiva dell’Antiteater[7] proprio il regista tedesco, infatti, decide di raccontare come i meccanismi di abuso sociale siano molto simili a ricatti affettivi presenti nei rapporti sentimentali. In ogni relazione per Fassbinder è in gioco una battaglia di potere, tra chi lo detiene e chi invece lo subisce, e il bisogno d’amore è pertanto destinato a trasformarsi spesso nella necessità di assoggettarsi al volere dell’altro. «Il problema – per Fassbinder ‒ è che c’è sempre una classe che vuole educarne un’altra, un uomo la sua donna, un uomo un altro uomo: sempre questo rapporto di educazione, questo rapporto servo-padrone, molto da guru. Un rapporto che è quasi fascista».[8] La produzione fassbinderiana cara al lavoro di Motus è proprio quella che individua quanto le problematiche sociali e storiche dello sfruttamento e dell’oppressione, appartenenti al sistema capitalistico, siano presenti in realtà anche nella quotidianità del rapporto amoroso.

Il cieco fascino della violenza sadica è ciò che muove ogni rapporto analizzato in scena da Motus anche, come nel caso di Rumore rosa, attraverso il filtro della dimensione melodrammatica mutuata dal cinema di Douglas Sirk, apprezzato e studiato tanto da Fassbinder quanto da Motus. In proposito lo stesso Fassbinder afferma: «Qualsiasi storia di vita che abbia a che fare con qualcosa di simile a una relazione è un melodramma e perciò credo che i film melodrammatici siano film corretti».[9] In tal modo i tradizionali stati d’animo del genere melodrammatico, dall’angoscia alla delusione, derivati non soltanto dalla narrazione e dall’analisi di un difficile rapporto d’amore ma anche da una disamina degli squilibri sociali ed economici presenti in ogni relazione personale, sono il punto di vista isolato scelto da Motus per il progetto all’interno della riflessione fassbinderiana. Procedendo per dettagli, frammenti e particolari, Motus attraverso Fassbinder prova a cogliere il senso di un’epoca passata che ha trascinato nell’oggi l’eco di un disastro che si perpetra rievocandone paure, fallimenti, incubi collettivi. L’immaginario della catastrofe[10] sopravvive nascosto tra le pieghe di un’apparente normalità, edulcorato dal tempo ormai trascorso e da una memoria sgombra da fastidiosi ricordi.

Soltanto attraverso un’attenta analisi della realtà, tanto per Fassbinder quanto per Motus, si può indagare quella circolarità vittima-carnefice che incatena spesso i rapporti personali e sentimentali e che diviene ancor più centrale e urgente nella riflessione della messinscena di Rumore rosa. Chi si fa oggetto della sopraffazione, infatti, è artefice di essa esattamente quanto chi la impone e la condizione di inferiorità esibita e manifesta è spesso strumento stesso per il mantenimento di una determinata struttura sociale. Tale analisi condotta da Fassbinder lungo tutta la sua produzione cinematografica è essenziale nella scelta del gruppo riminese:

Consideriamo questi due lavori come speculari, come due facce di una stessa medaglia, anche dal punto di vista estetico: il bianco e il pulito di Rumore rosa sono contrapposti alla polvere e alle macerie di Piccoli episodi..., il melò è contrapposto all’approfondimento sociologico. Sono doppi, così come doppie erano l’anima e l’arte di Fassbinder.[11]

Confrontarsi con il cinema di Fassbinder significa dunque per Motus portare sulla scena, mutuandone le atmosfere, insane simbiosi e sentimenti che si tramutano in obblighi e vessazioni. Al centro dell’attenzione del gruppo romagnolo c’è la necessità di mostrare come il germe delle ideologie autoritarie nasca e si annidi in micro realtà.

3. Se il paradiso non esiste: Piccoli episodi di fascismo quotidiano (2005)

Aperto, nomade, itinerante, costantemente mutevole, così Motus ha voluto che fosse il primo tassello del progetto dedicato al cinema di Fassbinder. Tratto dall’atipico testo teatrale-cinematografico Pre-paradise sorry now scritto dal regista tedesco nel 1969, lo spettacolo ha come protagonisti Ian e Myra, una coppia di giovani borghesi affascinati dal nazismo e da qualsiasi forma di intolleranza e autoritarismo. Lui dominante, lei succube: entrambi posseggono una doppia vita che li rende normali impiegati di giorno, ma criminali di notte. Abbagliati dalle teorie dalla razza pura, tra le mura dell’appartamento di Ian i due compiono riti sadomasochisti e per le vie periferiche della città consumano violenze, torture e omicidi di giovani vittime. Nello scrivere questo testo Fassbinder si rifà a una vicenda realmente accaduta, ripercorrendola in maniera puntuale fino alla comparsa di David Smith, nella pièce chiamato Jimmy, un parente dei due protagonisti obbligato, per ‘apprendere’ e perpetrare il lavoro, ad assistere ad uno dei tanti omicidi. Tanto nella realtà quanto nel testo del regista tedesco sarà proprio Jimmy poi a denunciare immediatamente i due assassini e a farli arrestare.

Prima del paradiso, sorry, non dimenticare, sorry, qualcuno deve soccombere, sorry, la felicità, banalmente ha come prezzo l’infelicità di un terzo, che magari non conta molto, o è arrivato da poco, o non si sa difendere, sorry, cose di poco conto. Quanti Ian e Myra esistono oggi? Dietro i giardinetti ben curati e i gerani sui davanzali... che magari non uccidono con asce e coltelli, ma con sguardi e parole non dette [...].[12]

Ian Brady e Myra Hindley (chiamata Hessie dal compagno per rievocare Rudolph Hess, segretario di Hitler) sono due serial killer inglesi, i Moors, arrestati nel 1966 per aver compiuto numerosi omicidi e sui quali Fassbinder tre anni dopo sceglierà di scrivere un copione ibrido, tra teatro e cinema, che racconta tutte le vicende della loro storia di assassini. Il testo di Fassbinder si presenta aperto a molteplici scelte interpretative e registiche poiché possiede una struttura complessa e cadenzata da ripetizioni, con l’opportunità di poter fare interagire in scena da un minimo di cinque a un massimo di trenta attori. Anche per questo Motus sceglie di conservarne soltanto frammenti, macerie di una partitura testuale che diviene essa stessa l’emblema di una fase storica costellata da crolli, tanto etici che ideologici. La scelta di un testo ibrido, a metà fra teatro e cinema, si rivela dunque non casuale. Proprio in merito a ciò Daniela Nicolò afferma:

Non abbiamo mai guardato al teatro con le sue modalità di narrazione, di messa in scena e di costruzione scenografica dei lavori. Ci siamo sempre rivolti altrove, al lato del teatro, verso le arti visive, molto verso il cinema.[13]

Dal cinema Motus mutua la potenza espressiva di una tecnica peculiare come quella del montaggio, e così il testo nasce dalla sovrapposizione di segmenti, passi, dialoghi e scene cinematografiche che hanno suscitato particolari suggestioni.

Non lavoriamo mai a partire da un copione classicamente inteso; frammenti testuali passano per la prova del palco, per poi riemergere trasformati sulla scena grazie a un nostro intervento in sede di montaggio. [...] Possiamo dire che il testo arriva dopo alla costruzione scenica del lavoro. Fino all’ultimo esistono solo tracce...[14]

Nell’elaborazione testuale per Motus è, dunque, di fondamentale importanza il rapporto e il contributo dell’attore. Il processo di costruzione testuale non possiede mai uno sviluppo lineare, fondandosi invece sempre su tracce e indizi che l’attore lascia sulla scena e che lo spettatore ricostruirà secondo una sua personale lettura.

Gli attori sono sempre stati il tramite attraverso il quale veicolare citazioni di carattere poetico, filosofico, mai dialoghi in senso stretto. In alcuni casi, nonostante un lavoro più interno al testo narrato, abbiamo continuato a utilizzare gli attori come narratori esterni o didascalie, sottraendoli al carattere.[15]

È in definitiva l’elemento umano, cioè l’attore, a farsi filtro di tutto il materiale testuale e, più in generale, contenutistico che fa da base alla performance; in esso si realizza l’unicità della rielaborazione teatrale di Motus. Il processo di evoluzione dello spettacolo non termina però nel momento della sua messa in scena, le singole repliche o per meglio dire i singoli ‘episodi’ sono frammenti unici e irripetibili che si dispiegano e intersecano fra loro ogni volta che lo spettacolo va in scena. Il terzo personaggio in scena, ovvero Jimmy, il voyeur, viene scelto di spettacolo in spettacolo proprio nel luogo in cui la messinscena viene ospitata, a simboleggiare quanto spesso ‘chiunque’ possa trovarsi ad assistere a terribili eventi.

Questo progetto è l’ultimo tentativo di resistenza oggi qui, e non a caso, sino ad ora, è stato ospitato solo da luoghi anomali, che a loro modo “resistono”, rischiando, tentando di attuare programmazioni non omologate. È dunque evidente come i Piccoli episodi nascano intrisi di sconfortante malessere: non ci interessa giungere ad uno spettacolo, - non è tempo per intrattenimenti - preferiamo lavorare sul filo del baratro, spostandoci con leggerezza, sempre pronti alla fuga (e alla guerriglia).[16]

La scena, pensata e realizzata anch’essa per spazi non convenzionalmente teatrali, riproduce un interno casalingo composto da due stanze: in fondo, la camera da letto dei due protagonisti su cui incombe una grande finestra chiusa – unico spiraglio sul ‘fuori’ – e ulteriormente separata dal resto dell’abitazione attraverso una vetrata smerigliata che lascia intravedere solo parzialmente ciò che si cela nella zona più intima della casa.

Al centro della scena lo spazio del soggiorno, dall’aspetto piuttosto trasandato, è separato dalla platea tramite pareti di plexiglass sospese da fili invisibili e coperte da un sottile strato di polvere. Su di esse vengono proiettate immagini in bianco e nero di bombardamenti della seconda guerra mondiale alternate a video di violenze commesse dai due protagonisti. Tali immagini, simbolo di un’epoca che ha trascinato con sé frammenti di un odio mai sepolto, sono lo specchio che riflette il conflitto interiore e personale di Ian e Myra, la battaglia quotidiana che i due combattono dentro se stessi, ciò che entrambi tentano di dissimulare con le parole, la rappresentazione iconica della violenza cieca che guida le loro vite.

Sono tre le barriere che isolano i due assassini dal resto del mondo, tre le chiusure con le quali si allontanano da qualsiasi sospetto. Quasi come in una teca, sottovetro, la coppia appare prima nella sua dimensione esteriore, tra le pareti del soggiorno che è qualcosa da cui il mondo esterno è separato, ma nel quale allo stesso tempo riesce a guardare dentro, riflettendosi in esso. In seguito agisce all’interno della camera da letto, luogo di pulsioni sessuali, dove scoppia la perversione e il delirio. Lì l’occhio dello spettatore non può arrivare del tutto, le immagini appaiono leggermente sfocate, come se un filtro le distanziasse, accentuando il desiderio dello spettatore di osservare. Il pubblico, come già accennato, tuttavia è molto vicino alla scena, in alcuni casi condivide con essa il palco, più da testimone che da semplice spettatore di un rituale di violenza che conduce quasi all’assuefazione. Sono pochi gli elementi d’arredo presenti nel tradizionale salotto borghese di Ian e Myra, che appare cupo, asfittico, in stato d’abbandono, capace di nascondere proprio tra gli oggetti della quotidianità sottili strati di polvere, ma anche asce, coltelli e armi di ogni genere.

Lo spettacolo appare diviso in due parti e la drammaturgia possiede una circolarità quasi cinematografica, che permette ai frammenti iniziali della vicenda di ritornare su se stessi. Nella prima parte il pubblico scopre la vicenda, impara a conoscere progressivamente le vite di Ian e Myra, in bilico tra un’apparente normalità e alcune tracce di alienazione e squilibrio. Dopo aver tracciato nelle prime due scene i profili dei protagonisti, nella terza scena Motus comincia a svelare, attraverso un crescendo di parole e immagini sceniche fortemente simboliche, la lucida follia dei due protagonisti.

Ian si trova in salotto e si rivolge a Myra dicendo: «Sai Hessie mi deprime la gentilezza che dobbiamo esternare. Insomma non mi va di essere cortese con tutti capisci? È tutto qui».[17] Dopodiché prende a martellate violentemente il muro di casa tentando di appendere un quadro, mentre sulle pareti di plexiglass scorrono immagini della seconda guerra mondiale. Dietro di esse Ian deforma la sua bocca tramite un elastico, forzando un sorriso inquietante e beffardo. Intanto Myra si nasconde e cade sul letto, lasciando visibili solo le sue gambe, dal ginocchio in giù. Dopo qualche secondo Ian le mostra alcune loro foto, momenti di intimità fatti di violenza e Myra si ferisce la mano spaccando un bicchiere mentre lui esce di scena. Al suo rientro Ian indossa una tuta, accende un registratore che riproduce le urla della sua ultima vittima e con poche parole tenta di giustificare l’ennesimo omicidio. Myra, parlandogli in terza persona, lo asseconda affermando: «Lei sa sempre ciò che fa, penso che sia proprio così».[18] La donna si accuccia poi in un angolo della casa e la scena si chiude con il ripetersi del gesto scenico visto in precedenza: questa volta è Myra a deformare il proprio viso in un sorriso esasperato e posticcio usando un elastico tra le labbra, per poi abbandonarsi tuttavia a un pianto disperato.

Costruendo l’azione scenica a climax, Motus mira a completare il senso della parola scenica tramite l’uso di immagini e gesti; è solo grazie a essi che la rabbia, l’odio e la violenza si manifestano in maniera evidente. Se le parole riescono a essere portatrici dell’elemento razionale, alle immagini è consegnato il compito di rendere omogenea la materia discontinua dello spettacolo, in una sovrapposizione di elementi espressivi che colpisce a più riprese lo spettatore. L’azione attoriale allora si costruisce insieme al dispiegarsi dell’immagine stessa rivelando ciò che la scena tace e nasconde. Oltre a ciò l’uso del video estende e allarga il visibile, divenendo strumento drammaturgico capace di comporre un iperspazio al di là e dentro la scena.

Nella seconda parte dello spettacolo, svelato l’orrore e le violenze compiute quotidianamente dai due protagonisti, le stesse dinamiche sceniche agite nella prima parte degenerano e si esasperano fino al parossismo. Lo spettatore rivede quindi sotto il filtro di una follia ormai esplicita i due protagonisti che, arrivando quasi a scambiarsi i ruoli, ripetono l’uno i gesti e le parole dell’altro.

Emblematica del meccanismo di ‘inversione’ utilizzato drammaturgicamente in questa fase dello spettacolo è la scena che si apre con una sorta di guerra infantile: Ian usa un faro come se fosse una mitragliatrice, impugna un fucile e Myra simula una gravidanza. Al termine i due, dopo essersi rifugiati in camera da letto, escono incappucciati con i copricapi del Ku Klux Klan ballando un valzer insensato. Questa volta è la parola a completare il senso dell’immagine scenica, esattamente in modo inverso rispetto a prima. Allo stesso tempo la pièce trova sviluppo nell’epilogo della vicenda, palesando il possibile coinvolgimento di Jimmy.

IAN: È venuto il momento di diffondere il verbo. Sei del mio parere?
MYRA: Bisogna che la grande opera sia portata avanti. Che le vittime vengano sacrificate. Ce ne saranno grate.
IAN: Propongo di attenersi ai legami di sangue. Tu conosci mio cugino Jimmy vero?[19]

I due protagonisti interpretati da Dany Greggio e Nicoletta Fabbri indossano abiti eleganti e anonimi, ostentando compostezza, calma e un apparente distacco. Il tono pacato della voce e la lentezza dei gesti trasudano una freddezza capace di tramutarsi immediatamente in violenza e follia cieca. L’interpretazione, volutamente artificiosa, rende evidente la ferocia e la gelida alienazione nella quale i due protagonisti sopravvivono. Solo il corpo, nella folle e ossessiva ritualità dei gesti, mostra una nevrosi che è già violenza: feticci fascisti, brutalità domestiche e il valzer con i copricapi del Ku Klux Klan ne simboleggiano alcuni snodi visuali.

La ‘ripetizione’ è un ulteriore meccanismo drammaturgico utilizzato per rendere la componente degenerativa della coppia omicida: gesti apparentemente banali (appendere un soprabito, mettere un chiodo al muro o scrollare via la polvere dai vestiti) assumono, nella ripetitività, un colore inquietante e asfittico. Tali dinamiche drammaturgiche applicate a testo, inserti sonori e azioni sceniche mirano tutte a rendere metaforicamente l’atemporalità di un odio sempre uguale che travalica epoche storiche lontane per ripresentarsi stretto alle radici della natura umana. Parole e immagini sono rubate a un passato che ritorna, per essere incanalate in un’indagine estetico-performativa che brucia la storia di partenza attraverso azioni e spartiti visivi martellanti attraversati da tasselli del testo fassbinderiano.

Ian e Myra possono essere chiunque di noi – dichiara Daniela Nicolò. Sono due personaggi-pretesto da cui siamo partiti per cercare di capire, attraverso una descrizione scientifica dei fatti, le dinamiche della violenza. Ai frammenti di testo di Fassbinder abbiamo aggiunto il nostro lavoro di ricerca bibliografica su due serial killer e infine la partitura audio-video che rimanda a un fascismo globale: dalle pareti di casa al campo di battaglia di una delle tante guerre attuali.[20]

L’ambiente sonoro costantemente presente durante tutta la messinscena si sovrappone al testo, riproducendo suoni ipnotici, sgradevoli e assordanti. A essi si alterna la presenza di una voce off che nell’incipit dello spettacolo ci descrive il passato dei due protagonisti e li racconta come un narratore onnisciente, svelandone i segreti, mettendo sotto la lente d’ingrandimento il caso di Ian e Myra e ponendosi contemporaneamente come un’altra parete tra scena e pubblico. Voce off e rumori fuori campo si alternano come frammenti anch’essi di una realtà in decomposizione, eco di uno sfacelo mai concluso. L’incessante raffica di rumori che investe e stordisce lo spettatore si alterna con alcune battute razziste di Katzelmacher, film realizzato da Fassbinder nel 1969, stesso anno in cui scrisse Pre-paradise sorry now.

Se ne sta lì seduto e non pensa a niente… bisognerebbe castrarlo… ci si trova proprio bene da noi. Non ancora per molto. Lui fa il gallo e noi glielo tagliamo, così smetterà di scopare. Non pensa che a quello. E poi puzza come un maiale. Peter dice che non si lava mai. È normale nel suo paese non si lavano […].[21]

Se nel film di Fassbinder era l’immigrazione turca e greca a turbare la Germania perbenista e borghese, nel lavoro di Motus c’è sempre un ‘indegno da buttare fuori’, ‘un inferiore’ da eliminare, da tramutare in passatempo divertente che possa allontanare, anche se per pochi istanti, i due personaggi principali dall’apatia e dallo squallore della quotidianità in cui vivono. Come i protagonisti di Katzelmacher, anche Ian e Myra vivono un rapporto continuamente attraversato da latenti insoddisfazioni, malumori, asti e gelosie. Tanto il gruppo protagonista della pellicola del regista tedesco quanto la coppia dei due assassini trova nello ‘straniero’ e nell’‘estraneo’ i capri espiatori sui quali scaricare profonde e inconsapevoli frustrazioni.

Il gruppo riminese condivide con Fassbinder la volontà di raccontare il fascismo come un modus vivendi dall’impressionante banalità, capace di travalicare epoche e momenti storici, per divenire, lontano da qualsiasi ideologia, l’emblema di un vuoto profondissimo e crudele, privo di qualsiasi istanza vitale. Lo stesso Fassbinder afferma in una delle sue interviste: «Volevamo mostrare che il nazionalsocialismo non è stato un incidente ma un logico sviluppo della borghesia tedesca, un comportamento che non è a tutt’oggi mutato [...]».[22]

Uccidere per il puro gusto di farlo è dunque il frutto dell’inerzia e della gelida disperazione appartenente all’orizzonte del ceto medio. Persino il linguaggio scelto dal regista tedesco è essenziale, sfiora una banalità che rischia quasi di risultare artificiale, con un’ambientazione ridotta al minimo. Lo stesso gelido cinismo appartiene al modo di comunicare di Ian e Myra in Piccoli episodi, poche parole spesso ripetute si alternano alla narrazione della voce off che consente allo spettatore di comprendere meglio le caratteristiche della coppia e le loro terribili abitudini assassine. A parlare spesso sono anche una vecchia canzone fascista che Ian canticchia in salotto, le voci delle vittime massacrate le cui torture sono visibili in alcuni video e alcune righe che l’uomo legge seduto in poltrona tratte da La Distruzione23 di Dante Virgili.

Guardo verso la finestra, evitare di avvicinarsi, un desiderio improvviso, frequente, intenso ora, voglia di gettarsi nel vuoto, uccidersi, farla finita finalmente, non ridete nella sofferenza c’è un’idea, ora so di avere il diritto di uccidere come ho il diritto di accendere il lume o aprire la finestra nella mia camera… ora so di avere il diritto di uccidere.[24]

Ian e Myra, incapaci di sopportare la vita, si avvicinano continuamente alla morte osservandola da vicino, sfidandola con violenza esattamente come fanno i protagonisti de La terza generazione, film tra i più geniali di Fassbinder, scritto nel 1979 e ripreso da Motus come ulteriore citazione tratta dall’universo cinematografico del regista tedesco. La pellicola, ambientata nella Germania federale del 1978, racconta la vicenda di un gruppo di giovani terroristi di estrazione borghese che sequestra l’industriale Peter Lutz, il quale però, all’oscuro del gruppo, ne finanzia le attività. Il movimento insurrezionalista serve, infatti, a lanciare sul mercato uno strumento elettronico che, permettendo di rilevare le persone a distanza, consentirebbe alla polizia di individuare cellule terroristiche.

Attraverso la vicenda Fassbinder svuota le azioni eversive dalla loro profondità ideologica partendo dal presupposto che tali attività nascono dalla stessa mente che mira a usarle per poi distruggerle, non approntando un discorso politico né raccontando le esperienze individuali di ciascun componente del gruppo terroristico. Come in Piccoli episodi di fascismo quotidiano anche ne La terza generazione non c’è un’analisi dei comportamenti umani dei protagonisti, in scena rimangono figure che appaiono quasi telecomandate, incatenate in una staticità del pensiero e del movimento che ne evidenzia l’impotenza e la follia tramutate in violenza, in una logica banalità del male che non possiede ragione fondata, se non nella rabbia e nella frustrazione.

Di Pre-paradise sorry now e della produzione cinematografica di Fassbinder nel lavoro di Motus permane la riflessione sui temi dell’intolleranza e del potere alla base delle violenze post-naziste e fasciste. Sopravvive lo spettro di un’anomalia che, nata dalla follia del singolo individuo, può tramutarsi in un’insidia collettiva. Ciò che resta all’arte è la libertà di raccontare e produrre una forma di resistenza da strappare all’oblio. «Ciò che non siamo in grado di cambiare, dobbiamo almeno descriverlo» afferma Motus, mutuando alcune parole di Rainer Werner Fassbinder divenute manifesto del fare teatro del gruppo riminese.

4. “No, questa non è casa Von Kant” ovvero Rumore rosa (2006)

Se si ha l’amore in corpo, non serve giocare a flipper. L’amore esige una tensione tale che non c’è più bisogno di rivaleggiare con una macchina, con la quale del resto non si può più perdere. C’è una donna immobile sotto la pioggia, segno che il suo amante l’ha lasciata. Lei non ce l’ha fatta, ecco il punto, a legarlo a sé. L’amore costa fatica, è proprio vero. Si è liberi soltanto nelle limitazioni.[25]

Così Fassbinder provava a definire i sentimenti nel marzo del 1971, e nello stesso anno scriveva il dramma teatrale Le lacrime amare di Petra Von Kant, trasposto per lo schermo nel 1972. Al centro della vicenda e della riflessione c’è l’universo femminile, in una storia di dipendenza e potere, in cui l’amore è oscurato dallo spettro della schiavitù sentimentale e dal vuoto della solitudine e dell’abbandono.

Alla celebre pellicola del regista tedesco si è ispirato inizialmente il secondo progetto dei Motus, Rumore rosa, scritto e pensato tuttavia dopo una lunga analisi e una densa rilettura di molti lavori di Fassbinder. C’è la disperazione e l’impotenza di Veronika Voss, l’innocenza e l’ambiguità di Maria Braun, il narcisismo masochistico di Elvira di Un anno con tredici lune nei tre personaggi femminili interpretati da Silvia Calderoni, Emanuela Villagrossi e Nicoletta Fabbri, volti che possono ricordare Petra, Marlene e Karim moltiplicandosi istantaneamente in tre età della vita e in altrettanti aspetti della personalità di ogni donna. Ognuna è l’altra, è dentro l’altra.

Rispetto all’Ospite dove i riferimenti cinematografici pasoliniani erano espliciti, qui non c’è un legame diretto con un film in particolare di Fassbinder. Infatti, dopo che è venuta a mancare la possibilità di fare un remake delle Lacrime amare di Petra Von Kant abbiamo cambiato radicalmente rotta e abbiamo raccolto in modo trasversale degli spunti da diversi film di Fassbinder.[26]

Lo spazio scenico è connotato da una rigida freddezza, evidente tanto nelle forme spigolose degli oggetti quanto nei materiali utilizzati: due giradischi in plastica, un vecchio telefono anch’esso in plastica, aste microfoniche e un ventilatore in metallo sono gli strumenti di una comunicazione mancata che abitano un quadrato bianco di materiale lucido che ne riflette e sfoca le forme. Al centro della scena un enorme schermo sul quale, come in un vero story-board, si scrivono le storie a immagini, nascono le scene e si delineano i tre ambienti, esterni e interni, nei quali le tre protagoniste agiscono. Il progetto video di Filippo Letizi prevede la realizzazione di disegni in bianco e nero, veri e propri fumetti che si sviluppano durante la messinscena, tratteggiando interni dal sapore anni Sessanta e paesaggi urbani. La dimensione iconografica in tal modo si fonde con la scrittura scenica divenendo partitura visiva: le immagini riflettono i dolori e i tormenti delle tre figure femminili, duplicando e potenziando metaforicamente l’effetto specchiante che il quadrato bianco agisce su corpi e oggetti presenti in scena. Le immagini digitali dello story-board hanno poi una precisa funzione drammaturgica: sono loro, ovvero gli spazi e i luoghi da esse evocate, ad attivare i personaggi in scena e, di conseguenza, a scandire l’evoluzione della pièce.

Non è uno sfondo scenografico e nemmeno un’animazione classica, è di fatto uno story-board di soli ambienti, animati da piccoli movimenti, all’interno dei quali si collocano i personaggi reali. Com’è nostro costume, abbiamo scritto lo spettacolo come una sceneggiatura cinematografica, ma in questo caso si è aggiunta la dimensione visiva dello story-board, infatti questo passaggio continuo tra gli interni (in cui si trovano Petra e Marlene) e gli esterni (la città dove si aggira Karin) è stato un supporto drammaturgico importante sia nel risultato finale che nel processo di costruzione.[27]

Ne Le lacrime amare di Petra Von Kant l’ambiente è circoscritto e claustrofobico, la casa-atelièr della protagonista, infatti, è capace di mutare insieme agli stati d’animo di Petra, divenendo alternatamente prigione e alcova durante tutta la lacerante vicenda. Talvolta, tanto nella pellicola quanto nello spettacolo di Motus, frammenti iconografici suggeriscono lo stato d’animo interiore, divenendone testimoni. Nel film di Fassbinder l’uso della profondità di campo e la disposizione dei piani spesso definiscono le relazioni tra i protagonisti, nella stessa maniera con cui la matita del fumettista Filippo Letizi, che costruisce e commenta graficamente lo spettacolo, lascia consapevolmente sullo schermo-tela spazi vuoti in grado di dilatare e amplificare la solitudine e l’attesa vana delle tre donne.

Nell’atmosfera di un melò glaciale la trama del celebre capolavoro fassbinderiano è andata in frantumi, dispersa in una sperimentazione che è anche sonora. Durante tutta la messinscena il graffiare di un disco rotto avvolge la vicenda; a esso si sovrappone il rumore dei vertiginosi tacchi di Silvia Calderoni, lo squillo di un telefono, le parole vomitate da una logorroica e svampita Nicoletta Fabbri e il tonfo di corpi che si lasciano precipitare, tra abbandono e autolesionismo. Permangono del film di Fassbinder le note dei Platters, alternate alle parole e alle melodie di Era d’estate di Sergio Endrigo e Tu no di Piero Ciampi, ascoltate soprattutto da una disperata Marlene.

Lo spettacolo inizia esattamente dalla conclusione del film, disperse e sole le tre figure femminili non si incontrano mai, sono vite sospese che galleggiano nella solitudine e nel dolore. Petra e Marlene, quest’ultima sempre muta come nel film di Fassbinder, vivono recluse nelle loro rispettive case, Karin vaga per la città con la sua valigia. La dissoluzione esistenziale delle tre protagoniste è resa al suo massimo livello espressivo grazie all’uso piuttosto limitato della parola che amplifica la frammentazione drammaturgica e interpretativa. Schegge di dialoghi della pellicola tra Petra e Karin incisi su un vinile risuonano durante lo spettacolo, si inframmezzano ad azioni ripetute e martellanti e ad immagini evocative di un compleanno in cui le candeline sono spente dal soffio di un ventilatore e di un’attesa, vana, davanti a un telefono.

C’è stato un grande lavoro preliminare di improvvisazione, fatto insieme alle attrici. Non avevamo nessun testo di partenza, solo vecchie canzoni d’amore, perché questa volta volevamo lavorare anche sul canto. Abbiamo costruito lo spettacolo associando ciascun personaggio ad alcune situazioni fondamentali: la solitudine; l’attesa di una telefonata (con un importante riferimento a Cocteau); una donna sola con la valigia che vaga per la città. I testi sono scaturiti soprattutto da queste improvvisazioni e da alcune rielaborazioni fassbinderiane (soprattutto da Un anno con tredici lune, tra i più cupi melodrammi del regista tedesco, sulla solitudine amorosa di un transessuale), mescolandosi e compattandosi con parti scritte da me. È importante sottolineare che nel nostro “motus operandi” il testo non è mai definitivamente compiuto, ma rimane un work in progress che noi ci riserviamo di modificare e integrare prima di ciascuna replica […].[28]

In tal modo Silvia Calderoni con la sua fisicità androgina porta sul palcoscenico una Marlene fragile e catatonica, che ferisce se stessa per cacciare via il dolore, in un’interpretazione silenziosa e disperata capace di indagare, attraverso il movimento, il rapporto tra dolore fisico e interiore, incarnando così la tensione poetica dell’intera messinscena.

Il sapiente uso del corpo della performer difatti esprime con forza la disperazione silente di Marlene, in una via crucis scandita da cadute, colpi e ferite, in un abbandono all’urto e alla disperazione. La negazione della parola che il suo personaggio porta sul palco si condensa in una delle scene principali della spettacolo: Marlene entra in scena coperta solo da un paio di slip, delle calze e un paio di scarpe col tacco, sullo schermo si delinea l’interno di un bagno, mentre lei si ferisce la lingua mordendosi per poi sprofondare la testa in un secchio d’acqua in cui il sangue può dissolversi muto.

Sfrontata, ma decisamente più comica appare Nicoletta Fabbri nel ruolo di Karin, capace di mitragliare parole goffe e irriverenti, alleggerendo, al contrario del film, l’atmosfera cupa della messinscena. I suoi discorsi sono rivolti a microfoni che non potranno trasportare la sua voce a nessun destinatario e allo stesso modo il tentativo di zittire l’eco della sua esistenza perennemente ‘sulla strada’ si perde in una serie di gesti ridicolmente inutili e privi di destinazione.

La vacuità e la rapidità dei suoi discorsi si contrappongono in maniera evidente all’immobilismo di Petra, incatenata nel ricordo e interpretata da Emanuela Villagrossi con uno stile volutamente artificioso ed enfatico. La sua presenza in scena è accompagnata costantemente da un battito sonoro metallico, eco dei rumori che l’accompagnano nella pellicola di Fassbinder, ovvero l’incedere dei tacchi di Marlene o il battere dei tasti della sua vecchia macchina da scrivere. Anche lei, come Karin, affida le sue parole esclusivamente ad un telefono, altro mezzo tecnologico assunto come mediatore di una comunicazione monca e perennemente ‘in assenza’.

Sono anime femminili perdute e smarrite le tre protagoniste di Rumore rosa imprigionate nella bidimensionalità del tratto di una matita capace di tessere l’unico legame esistente tra loro. L’immagine diviene dunque nel lavoro di Motus il prezioso ed esclusivo elemento di continuità fra tre vite sospese, come il rumore, eco di un dolore che non riesce a tacere e che le accompagna durante tutta la pièce.

Il “rumore rosa” è un termine tecnico per definire quelle frequenze artificiali che i tecnici del suono utilizzano per evidenziare la curva di equalizzazione ottimale in un ambiente che ospita una esecuzione musicale. Richiama quindi sia la costruzione artificiale di un mondo sonoro, sia l'artificiosità della messa in scena contemporanea, dove si manifesta la frattura insanabile fra l’immaginazione melodrammatica delle origini e la crisi odierna dei sentimenti e degli stereotipi teatrali. Una cesura che Motus porta impressa con un tatuaggio indelebile.[29]

Nel rispetto della grammatica fassbinderiana c’è spazio soltanto per un amore che è disperata e vana ricerca prima di tutto di se stessi, in un gioco di forze e manipolazioni che nasconde tra le pieghe di un sentimento vitale delle inevitabili conseguenze patologiche. Il rapporto amoroso secondo Motus somiglia quindi ad una partita o ad un incontro di boxe nel quale comunque qualcuno avrà la meglio: ciò che resta di esso, le sue macerie, sono ciò che Motus, attraverso Fassbinder, indagano sulla scena.

Sognare un amore vero è proprio un bel sogno, ma le stanze hanno sempre quattro pareti, le strade sono quasi tutte asfaltate e per respirare c’è bisogno dell’ossigeno. Già - la macchina è il frutto perfetto della mente. Io ho deciso di ricominciare a giocare a flipper, e lascio vincere l’aggeggio, che importa, alla fine sono io che vinco.[30]

1 F. Bonami, Exit. Nuove geografie della creatività italiana, Milano, Mondadori, 2002, p. 202.

2 Per ulteriori approfondimenti sulla ricerca teatrale di Motus si rimanda a: G. Savoca (a cura di), Arte estrema. Dal Teatro di performance degli anni Settanta alla Body Art estrema degli anni Novanta, Roma, Castelvecchi, 1999; G. Di Marca, Tra memoria e presente. Breve storia del teatro di ricerca nel racconto dei protagonisti, Roma, Artemide edizioni, 1998; E. Casagrande, D. Nicolò, Crash into me. Orpheus Glance, Torino, Infinito Ltd Edizioni, 2000; R. Molinari, C. Ventrucci, Certi prototipi di Teatro. Storie, poetiche e sogni di quattro gruppi teatrali, Milano, Ubulibri, 2000; S. Rojo, Transitos y desplazamentos teatrales: de America Latina a Italia, Santiago Cile, Cuarto Proprio, 2002; T. Fratus (a cura di), Lo spazio aperto. Il teatro ad uso delle giovani generazioni, Spoleto, Editoria & Spettacolo, 2002; G. Costa (a cura di), Sguardi dentro e fuori dall’arte, Fondazione Romaeuropa, Roma, Editoria & Spettacolo, 2002; F. Bonomi (a cura di), Exit. Nuove geografie della creatività italiana, Milano, Mondadori, 2002; L. Gemini, L’incertezza creativa. I percorsi sociali e comunicativi delle performance artistiche, Milano, Franco Angeli, 2003; A. Balzola, A. Monteverdi, Le arti multimediali digitali. Storia, tecniche, linguaggi, etiche ed estetiche delle arti del nuovo millennio, Milano, Garzanti, 2004; G. Santini, Lo spettatore appassionato. Appunti dal teatro del presente, Pisa, ETS, 2004; E. Casagrande, D. Nicolò, Io vivo nelle cose. Appunti di viaggio da “Rooms” a Pasolini, Milano, Ubulibri, 2006; Altre Velocità (a cura di), UN COLPO. Disegni e parole dal teatro di Fanny & Alexander, Motus, Chiara Guidi/Societas Raffaello Sanzio, Teatrino Clandestino, Ravenna, Longo Editore, 2010; K. Ippaso, Le voci di Santiago dall’Italia al Cile lungo la rotta del teatro, Spoleto, Editoria & Spettacolo, 2009; M. Petruzziello, Video Killed the Theatre star, Roma, Bulzoni, 2009; F. Arcuri, I. Godino, Prospettiva. Materiali intorno alla rappresentazione della realtà in età contemporanea, Corazzano, Titivillus Editore, 2011; M. Scopelliti, Actoris Studium Album #2. Eredità di Stanislavskij e attori del secolo grottesco, in A. Attisani (a cura di), Aria di famiglia. Judith Malina e i teatri resistenti, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2012.

3 L. Mango, La scrittura scenica. Un codice e le sue pratiche nel teatro del Novecento, Roma, Bulzoni, 2003, pp. 388-389.

4 Cfr. V. Valentini, Mondi, corpi, materie, Milano, Bruno Mondadori, 2007 e S. Chinzari, F. Ruffini, Nuova Scena Italiana. Il teatro dell’ultima generazione, Roma, Castelvecchi, 2000.

5 Motus, Quando l’amore è più freddo della morte, www.motusonline.com (ultima consultazione 2 marzo 2013).

6 E. Casagrande, D. Nicolò, Piccoli episodi di fascismo quotidiano. Le buone pratiche 2: Banca delle idee, 19 novembre 2005, disponibile su www.trax.it.

7 Dopo la fine dell’esperienza con l’avanguardia teatrale bavarese dell’Action Theater, Fassbinder fonda il nuovo gruppo dell’Antiteater (1968) che unisce numerosi giovani attori e collaboratori come Irm Hermann, Harry Baer, Perr Raben e tanti altri. In questi anni Fassbinder cura la regia di dodici opere teatrali, scrivendone quattro e perfezionando così la sua scrittura drammaturgica.

8 J. Grant, Entretien avec R. W. Fassbinder, «Cinéma 74», 193, citato in G. Traina, Ascesi all’inferno. Un anno con tredici lune di Fassbinder, «ARCO Journal», e-journal del Dipartimento di Arti e Comunicazioni dell’Università di Palermo, p. 55.

9 N. Sparrow, I let the Audience Feel and Think. An Interview with R.W. Fassbinder, «Cineaste», VIII, 2, autunno 1977.

10 Cfr. M. Belpoliti, Crolli, Torino, Einaudi, 2005 e M. Augè, Rovine e Macerie. Il senso del tempo, Torino, Bollati Boringhieri, 2004.

11 C. Gelmi, Quei piccoli fascismi sentimentali, «Corriere del Trentino», 27 luglio 2006.

12 Motus, Quando l’amore è più freddo della morte, cit..

13 E. Casagrande, D. Nicolò, Motus 991_001, Rimini, Nda Press, 2010, p.120.

14 Ivi, p.123.

15 Ivi, p.121.

16 Ibidem.

17 E. Casagrande, D. Nicolò, Piccoli episodi di fascismo quotidiano, 2005, p. 2. Si ringrazia Motus per aver messo a disposizione il copione dello spettacolo.

18 Ivi, p. 3.

19 Ibidem.

20 L. Grossi, Un fascismo piccolo piccolo, «Corriere della Sera», 3 novembre 2005.

21 Ivi, p. 2.

22 D. Ferrario, Rainer Werner Fassbinder, Milano, Il Castoro, 2008, p. 78.

23 La distruzione è un romanzo dello scrittore italiano Dante Virgili. È la storia di un ex interprete delle SS che, nel secondo dopoguerra, vive con nostalgia la caduta del regime, sognando stermini di massa e progettando azioni criminali. Il testo, edito da Mondadori nel 1970, è stato ristampato nel 2003 per Pequod Edizioni.

24 E. Casagrande, D. Nicolò, Piccoli episodi di fascismo quotidiano, cit., p. 2.

25 R.W. Fassbinder, I film liberano la testa, Milano, Ubulibri, 2005, p. 21.

26 A. Balzola, Tracce di Fassbinder nel Motus operandi. Conversazione con Danielà Nicolò sull’ultimo spettacolo dei Motus Rumore rosa, ispirato al cinema di R.W. Fassbinder, www.trax.it, 5 marzo 2007.

27 Ibidem.

28 Ibidem.

29 Ibidem.

30 R.W. Fassbinder, I film liberano la testa, cit., p. 21.