5.9. Monica Vitti: un corpo imprevisto

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Stella brillante di alterne intermittenze, capace di orbitare dall’algido bianco e nero dei film antonioniani alle sgargianti cromie della commedia, Monica Vitti irradia nello scenario del cinema italiano luci e significati differenti, che aprono a riflessioni continue. Parto dunque da lei e dai film dalla cosiddetta tetralogia dei sentimenti (e in particolare mi soffermerò su L’eclisse, 1962) anzi tutto perché questo corpus offre inesauste occasioni di produrre pensiero (cfr. Cuccu 1997, p. 11), ed anche perché, a mio parere, queste prime interpretazioni di Vitti si offrono come performance profetiche e politiche, testimoniando, in un certo senso sotto pelle, il lavorio e il rovello interiore che ha portato molte donne, per vie oblique, negli anni immediatamente successivi, alla pratica del femminismo.

Intendo il termine ‘politica’ in una accezione precisa, che ha a che fare non con partiti, elezioni, logica dello scambio, ma con l’autenticità delle relazioni fra donne e con la capacità di affermare e insieme accogliere la differenza, l’altro da sé. Intendo politica nel suo senso primo, che non significa meramente cercare soluzioni ma porre gli interrogativi

su cui le donne devono pronunciarsi per partire da certezze proprie. Questa è la via per costruire una cultura diversa, che non sia un’appendice dell’altra [ovvero una appendice della cultura maschile]. Un’identità vera crea rapporti nuovi, una sua cultura per affermarsi: è già politica (M. Chinese, C. Lonzi, M. Lonzi, A. Jaquinta 1977).

In altre parole, vuol dire guardare al potenziale rivoluzionario del pensiero femminista, fare i conti con la sua radicalità, che sta altrove rispetto alle battaglie della militanza. Mi riferisco in particolare alle elaborazioni del gruppo di Rivolta Femminile, fondato nei primi anni ’70 da Carla Lonzi, che pone, scandalosamente, i corpi al centro del discorso politico. A portarne il segno spiazzante sugli schermi italiani è, secondo me, la Monica Vitti della tetralogia dei sentimenti; è lei a incarnare il Soggetto imprevisto di cui scrive Lonzi nel celebre Sputiamo su Hegel. È un soggetto che nasce da un doppio movimento: dalla decostruzione puntuale del «momento più alto raggiunto dall’uomo (con l’arte, la religione, la filosofia, esattamente in senso hegeliano)» (Lonzi 1978, p. 40); e dalla riflessione autocoscienziale che mette primariamente a tema la sessualità, luogo sorgivo della colonizzazione maschile che, se pure a caro prezzo, può tramutarsi in uno spazio di libertà per le donne, attraverso lo smascheramento del mito della complementarità della coppia. Dall’interrogarsi su di sé, sul godimento femminile e sulle sue infinite rifrazioni sociali ed esistenziali nasce la «donna clitoridea», che ha coscienza della propria e autonoma sessualità e che osa pensare l’impensato, abbandonando le sponde sicure ma anguste della femminilità consentita, e scommettendo, senza alcuna certezza di riuscita, su inauditi modi di esistenza. Questa soggettività nuova non ha niente a che fare con la donna emancipata, che invero conferma, con una rammodernata disponibilità, l’ordine patriarcale, rendendosi ancor più disponibile al desiderio maschile e rimuovendo il proprio.

Al contrario, il Soggetto imprevisto, a partire da sé e dalla propria esperienza, mette al centro i rapporti umani, la difficoltà e sovente l’impossibilità delle relazioni, ne sonda e ne esige l’autenticità. è sul terreno del rapporto di coppia, appunto, che le donne chiamano gli uomini, giacché autonomia non coincide con rifiuto. E lì, nello spazio misterioso e impervio delle relazioni, cercano i fondamenti di una loro cultura autonoma, non schematicamente contrapposta a quella maschile (difatti, come è noto, Sputiamo su Hegel mira soprattutto a scardinare la necessità della dialettica servo/padrone), ma semplicemente posta da un’altra parte, nel buio della Storia, nell’insensata gratuità di quei gesti «fatti nell’aria, gesti fatti d’aria come quelli degli equilibristi» (Lonzi 1978, p. 767), gesti nei quali si sono spese, nel tempo lungo dei secoli, le esistenze femminili.

La vicinanza con il cinema di Antonioni e Vitti mi pare che emerga con forza, a partire proprio dalle relazioni e dalla loro segreta midolla, dall’enigma di individualità incapaci di comunicare e comunicarsi. Con questa stessa materia fluttuante, a tratti bruciante e spigolosa come il ghiaccio, si misurano le personagge della tetralogia (e di lì a poco saranno le donne dei gruppi di autocoscienza a misurarvisi).

Prima di addentrarmi, brevemente, nell’analisi della sequenza iniziale di L’eclisse, vorrei sottolineare una questione che, seppure segnata dai caratteri dell’evidenza, viene sovente rimossa o sminuita. Mi riferisco al contributo di Vitti ai film della tetralogia, film che propriamente sono nati dallo sguardo di Antonioni e insieme dal corpo e dalla soggettività di Vitti. Gli studi hanno fatalmente valorizzato il primo tralasciando la seconda, tenendo nell’ombra la presenza dell’attrice e finanche relegandola all’insignificanza di un oggetto inerte, perduto nella sua immanenza. Fra chi ha saputo guardare diversamente, vorrei citare Oriana Fallaci e un suo articolo pubblicato su «L’Europeo» nel 1961, proprio mentre si stava girando L’eclisse:

Il fatto che lavorino insieme e questo lavoro nasca dalla loro vita in comune mantiene salda un’intesa che non è amore né collaborazione ma complicità. […] Se è vero che Antonioni scrive con la macchina da presa, è anche vero che Monica gli fornisce ogni giorno il materiale da scrivere (Fallaci 2017, p. 157).

E vorrei ricordare anche Sette sottane, la autobiografia involontaria, come recita il sottotitolo, di Monica Vitti, dove l’attrice scrive di come è nata L’avventura, di quanto le personagge ‘inventate’ da Antonioni avessero a che fare con la sua vita, con quello di sé stessa che gli raccontava, nella cornice di una narrazione intima, sospesa fra seduzione e fascinazione: «Michelangelo mi faceva molte domande ed io mi divertivo a rispondere. Capivo di stupirlo. Era incuriosito da quello che facevo e dicevo. Forse venivo guardata con attenzione per la prima volta» (Vitti 1993, p. 179).

Senza dubbio quello di Antonioni è un cinema «declinato sulla forma filmica dell’attenzione» (Cuccu 1973, p. 184), calibrato su un esercizio di sguardo che sa cogliere i movimenti esterni, i sintomi visibili della soggettività nuova di cui ho scritto poco sopra, registrando i moti di Monica Vitti, del suo corpo così peculiare e diverso, capace di incarnare la differenza femminile in azione sullo schermo. A partire dai tratti del volto, da quel naso lungo e sottile, e dalla silhouette, ondeggiante e spigolosa, Vitti appare subito come una figura diversa, mutante, quasi indecifrabile nel panorama del cinema italiano di quegli anni [fig. 1]. Lei stessa, ancora in Sette sottane, ricorda il suo essere palesemente differente dalle altre attrici. Il suo è un corpo fuori dai canoni, fuori misura: «troppo magra, troppo alta, troppo bionda» (Vitti 1993, p. 188). Un corpo marcato dall’eccesso.

Questo vago e splendente senso di dismisura, prodotto almeno in parte dal corpo in sé, si ispessisce nella performance attoriale di Vitti. Il suo è un agire fatto di minuzie, di ‘sfumature’, di gesti impenetrabili, vuoti. In L’eclisse, cosa fa Vittoria lungo tutto il racconto? A ben vedere, pensando ancora a Lonzi, i suoi sono «gesti fatti d’aria, come quelli degli equilibristi», gesti che appaiono senza senso. Da qui vorrei proporre una lettura del celebre incipit di L’eclisse, concentrando l’attenzione sulle azioni della personaggia, sul suo dispiegarsi e forzare i bordi dello schermo.

La sequenza del congedo e del definitivo allontanamento di Vittoria da Riccardo (Francisco Rabal) è composta da tre sottosequenze: nella prima si consuma l’oscuro chiarimento nella casa di lui [fig. 2]; nella seconda si dipana la passeggiata della donna prima (e poi della coppia) nella livida mattina dell’Eur; e nella terza si compie l’addio definitivo sulla soglia della casa di lei. La sequenza ha una durata di 16 minuti e 40 ed è composta da 70 inquadrature. A marcarne l’andamento è l’attività della macchina da presa: poco importa quello che si dicono i personaggi, giacché tutto è già accaduto e tutto è già stato detto nella notte precedente. Le parole sono smozzicate, suonano cupamente sibilline. Ciò che si vede sullo schermo, ciò che più di tutto si palesa, è la perfetta e armoniosa composizione ordita dallo sguardo di Antonioni. Dentro quello sguardo si muove la protagonista, ed è a lei, a quello che fa, che vorrei guardare. E dunque: cosa fa Vittoria in questo magnifico incipit e, invero, nell’intero film? Lei è il «personaggio-guida» (Cuccu 1997, p. 35), quello al quale l’autore affida il senso più riposto del racconto. E cosa fa, in definitiva? Fa poco, pochissimo, quasi niente. Si misura con lo spazio della casa, si appoggia alle pareti, sembra saggiarne la sostanza, la solidità; tocca e sposta gli oggetti, costruisce nature morte, o meglio composizioni di oggetti inerti, apre le tende, spegne e accende la luce [figg. 3-4]. Si muove con piccoli passi che disegnano nello spazio domestico traiettorie desuete e ritornanti, che promettono il suo modo di muoversi nello spazio, anche in quello aperto ed ampio della città, destinato ad accogliere il suo nomadismo, il suo vagare [fig. 5], guardare, il suo spostarsi senza meta (cfr. Bruno 2012, pp. 87-91). Riccardo cerca di ricondurla ad uno schema di presunta ragionevolezza: le chiede se abbia un altro, le chiede il perché di quell’addio per lui inspiegato e straziante. Ma Vittoria rifugge le convenzioni relazionali e si sottrae ai cliché della passionalità, del tradimento, attraverso il silenzio e attraverso l’inesausto movimento – che è un muoversi fuori luogo, opaco, ripiegato su se stesso – del suo corpo. La personaggia amplifica e insieme disperde il pathos dell’abbandono in una miriade di sguardi, di gesti, di piccoli passi osservati impassibilmente dalla camera, che moltiplica e sfalda il tempo, venendo meno alle consuetudini dell’efficacia drammatica. L’irrequietudine conduce la donna a lasciare Riccardo, a mandare a monte il matrimonio – previsto, imminente e caldeggiato dalla madre di lei – dal momento che si scopre scontenta, pervasa da spinosi dubbi e insoddisfatta del rapporto con l’uomo [fig. 6]. Non ha nessuno che la aspetti, e non ha alcun progetto concreto per sé, per la sua vita: dopo la rottura con Riccardo comincia, di fatto, a perdere tempo. O meglio a lavorare sul tempo, a ‘prendersi’ il tempo. I suoi spostamenti e le sue azioni si dilatano, perseguono fini imperscrutabili, e si sostanziano di un fare minuto, che scivola nella contemplazione: Vittoria si muove nello spazio del film e nel mondo, di fatto, perdendo tempo. L’equivalenza fra tempo e denaro, impersonata da Piero (Alain Delon), il giovane broker col quale intreccia una ondivaga relazione d’amore, le è estranea, al pari della convenzionalità dei rapporti di coppia che continuano a deluderla, a immalinconirla. Vittoria non riesce a pacificarsi, a trovare il suo posto in un mondo che non le corrisponde, regolato come è dal denaro e dalla sua oscura potenza, pervaso da relazioni inautentiche, che sperperano la gioia dell’incontro. Da qui, da questa mancata corrispondenza si origina la sua personale ricerca, che assume i tratti di una tenace interrogazione e che la avvicina al profilo spiazzante del Soggetto Imprevisto.

In questo senso il corpo di Vitti – così diverso, così enigmatico, così fuori luogo – è già ed è ancora un corpo politico.

 

 

Bibliografia

G. Bruno, Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema [2002], Milano-Torino, Bruno Mondadori, 2012.

M. Chinese, C. Lonzi, M. Lonzi, A. Jaquinta, è già politica, Milano, Scritti di Rivolta Femminile, 1977.

L. Cuccu, La visione come problema. Forme e svolgimento del cinema di Antonioni, Roma, Bulzoni, 1973.

L. Cuccu, Antonioni. Il discorso dello sguardo. Da Blow up a Identificazione di una donna, Pisa, Edizioni ETS, 1997.

O. Fallaci, ‘Antonioni e “L’eclisse” dei sentimenti’, «L’Europeo», 6 agosto 1961, ora in Eadem, L’Italia della dolce vita, Milano, Rizzoli, 2017.

C. Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, Milano, Scritti di Rivolta Femminile, 1970.

C. Lonzi, Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Milano, Scritti di Rivolta Femminile, 1978.

M. Vitti, Sette sottane. Un’autobiografia involontaria, Sperling & Kupfer, Milano, 1993.