4.8. La filmmaker dallo schermo alla pagina: Lorenza Mazzetti tra cinema e letteratura

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Summer, ultimo romanzo della scrittrice scozzese Ali Smith, pubblicato nel 2020 e uscito nell’estate del 2021 anche in traduzione italiana per i tipi di SUR, chiude il quartetto romanzesco Seasonal, in cui l’autrice ha cercato di indagare l’iper – o ultra – contemporaneo, tuttavia avvalendosi, in ogni volume, della mediazione intermediale di un’artista del Novecento. Questa operazione, che potremmo definire quasi ‘curatoriale’ nell’intento di predisporre un canone artistico alternativo per la storia delle arti visive del Novecento, ha consentito di portare di fronte a un pubblico più ampio di lettrici e lettori figure che, al momento, si trovano ancora per lo più confinate nell’avanguardia e nello sperimentale, categorie ermeneutiche di per sé estremamente fruttifere, ma purtroppo ancora relegate in una posizione marginale all’interno del dibattito critico e accademico. Se in Autumn (2016), romanzo inaugurale dell’esperimento narrativo di Smith, era stata Pauline Boty, pittrice della Pop Art inglese e attrice cinematografica, a essere fatta oggetto di riscoperta, i successivi Winter (2017) e Spring (2019) includono riferimenti intermediali a Barbara Hepworth, forse la più importante scultrice inglese nella storia dell’arte, e Tacita Dean, artista poliedrica nota soprattutto per i film sperimentali in 16mm.

Con Summer Ali Smith chiude non solo il quartetto narrativo legato a questioni attuali quali la Brexit, i migranti, il cambiamento climatico, la pandemia, ma anche questa delicata operazione di mediazione culturale al femminile con una figura particolarmente interessante per riflettere su una serie di elementi che riguardano lo studio delle donne nelle arti e nell’audiovisivo. Per Summer, infatti, Smith ha scelto di gettare luce su Lorenza Mazzetti, cineasta e scrittrice italiana emigrata a Londra ancora giovanissima e tra le principali animatrici del Free Cinema inglese, un movimento sorto negli anni Cinquanta a partire dalla collaborazione della filmmaker con Lindsay Anderson, Karel Reisz e Tony Richardson, firmatari con lei di quello che sarebbe diventato il Manifesto del Free Cinema Movement, che recita così:

 

These films were not made together; nor with the idea of showing them together. But when they came together, we felt they had an attitude in common. Implicit in this attitude is a believe in freedom, in the importance of people and in the significance of everyday.

As film-makers we believe that:

No film can be too personal.

The images speak.

Sound amplifies and comments.

Size is irrelevant. Perfection is not an aim.

An attitude means a style.

A style means an attitude.

 

Il testo del manifesto è contenuto all’interno di Diario londinese, romanzo di Mazzetti pubblicato da Sellerio nel 2014, in cui l’autrice-voce narrante ripercorre proprio gli anni del suo apprendistato cinematografico londinese e della creazione dei principali film che la registra realizzerà in vita: K (1954), corto sperimentale che adatta La Metamorfosi di Kafka, e Together (1956), mediometraggio che segue la vita di due sordomuti nei quartieri più poveri di Londra. Pur non essendo cospicua, la produzione filmica di Mazzetti è stata particolarmente innovativa, così come incisiva è stata anche la sua produzione letteraria – costituita dai romanzi, pubblicati negli anni Sessanta e recentemente riediti, Il cielo cade (1961), Con rabbia (1962), Mi può prestare la sua pistola per favore? (1969) – ispirata in larga parte alle tragiche vicende autobiografiche che l’hanno vista testimone – e miracolosamente sopravvissuta – di un atroce massacro nazista.

L’incontro fra le immagini e la scrittura di Lorenza Mazzetti con quella di Ali Smith ci può aiutare a introdurre un possibile filone di indagine interno agli Women’s Studies ancora non molto battuto, ovvero la rappresentazione transmediale della figura della filmmaker, sia essa frutto di una rielaborazione finzionale a partire da un’attestazione storica, di un’autofinzione o di pura invenzione romanzesca. Che cosa significa rappresentare in forma letteraria una filmmaker? Quali sono le strategie di rappresentazione di un processo come quello della creazione filmica? Quali motivi caratterizzano la specificità della filmmaker come soggetto della rappresentazione attraverso i media? Tenteremo di illustrare brevemente alcune caratteristiche della scrittura della e sulla filmmaker, senza alcuna pretesa di esaustività, ma con lo scopo di riflettere sulla possibilità di rintracciare alcune costanti rappresentative sia sul piano delle forme che su quello della tematizzazione.

Una prima questione riguarda la dimensione dei generi della scrittura, di cui Diario Londinese e Summer offrono un’esemplificazione significativa. Da un lato, esistono cioè le scritture delle registe, che possiamo apparentare sicuramente alle divagrafie – indagate da Maria Rizzarelli (2017; 2021) e oggetto di un’attenzione critica crescente (Cardone et. al. 2017) –, benché forse meno diffuse rispetto a queste ultime. All’interno di questa prospettiva il caso di Diario londinese è particolarmente interessante, dal momento che proviene da un’autrice già affermatasi dal punto di vista letterario: il risultato è quello di un testo che si inserisce all’interno di una continuità, tematica e stilistica, nella produzione narrativa di Mazzetti, e che pertanto è stato recepito, anche da un punto di vista editoriale, come un prodotto eminentemente letterario, come dimostra il suo collocamento all’interno della storica ‘collana blu’, alias ‘La memoria’, nata nel 1979 per i tipi di Sellerio, sotto la consulenza di Sciascia, in cui vige la «predilezione per autori, testi o fatti da strappare all’oblio».

Dall’altro si pongono invece le scritture finzionali in cui le filmmaker figurano come personaggi attivi nella storia o che possono essere convocati sulla scena da altrettanti personaggi, instaurando quindi un interscambio continuo tra dimensioni ontologiche differenti in cui la relazione intermediale risulta fondamentale nel convogliare tanto il ritratto della filmmaker e della sua vita quanto le immagini in movimento dei suoi film. Il romanzo di Ali Smith rientra nel secondo caso, secondo una disposizione del materiale narrativo resa ulteriormente complessa dalla presenza di una cornice extradiegetica che introduce e interrompe le varie parti del romanzo, e dal fatto che il personaggio e il cinema di Lorenza Mazzetti partecipano tanto di tale cornice quanto del mondo finzionale più propriamente detto.

Nel caso di Diario londinese la comunione con le scritture e le strategie divagrafiche si evidenzia soprattutto nell’uso dell’impianto autobiografico quale impalcatura discorsiva sulla quale costruire la narrazione. Il racconto muove infatti secondo un ordine cronologico, dalla partenza con un gruppo di studenti di filosofia dell’Università di Firenze e l’arrivo in una Londra scontrosa e difficile, sino alla soddisfazione e al successo al Festival di Cannes – dove con il suo film Together l’Inghilterra ottiene il Palmares dell’Avanguardia – salvo poi chiudersi con un rientro a Firenze che segna l’inizio del suo percorso psicanalitico e la decisione di elaborare la propria esperienza traumatica – l’uccisione degli zii adottivi di origine ebraica e delle cugine per mano di un commando nazista di fronte a lei e alla sorella gemella – con la scrittura di Il cielo cade. È possibile ritrovare nel romanzo quella serie di topoi che Rizzarelli ha già rinvenuto a proposito della divagrafia: «la narrazione di una parabola ascendente che conduce dalla miseria, dall’anonimato o dalle frustrazioni dell’infanzia al successo e alla fama della vita adulta; la dialettica contrapposizione fra il presente e il passato; il ritorno al punto di partenza geografico, memoriale, affettivo da cui tutto ha avuto inizio» (Rizzarelli 2021, p. 7). Tuttavia, nel caso di Mazzetti – e forse questo è un punto da sondare anche per la rappresentazione di altre figure di filmmaker sperimentali – alla specificità del patto autofinzionale e delle sue implicazioni sul piano relazionale con il proprio pubblico – qui letto anche nel motivo del colloquio con lo psicanalista – si aggiungono anche tratti che appartengono al genere del romanzo di formazione e del modo picaresco. Gran parte del testo, infatti, ruota attorno alle estreme difficoltà economiche cui Lorenza va incontro allorché viene allontanata dal gruppo di studenti/lavoratori fiorentini e si ritrova a vagare per le strade di Londra, sopravvivendo grazie a saltuari lavori da cameriera e in alloggi spesso di fortuna. Le esperienze vissute per strada, che passano da incontri ora fortunati ora invece traumatici, segnati anche dalla violenza maschile che si abbatte su una giovane donna ai margini della società, si rivelano essenziali per l’educazione allo sguardo di Lorenza, capace di cogliere con immediatezza la tragicità del quotidiano attraverso un filtro letterario onnipresente, quello di Kafka. L’esordio cinematografico con K prende avvio dal furto di una macchina da presa dai laboratori dello University College: in un mondo, come quello cinematografico, anche sperimentale, in cui la presenza femminile è decisamente minoritaria dal punto di vista registico, Lorenza riesce tuttavia a trovare intorno a sé una rete di supporto che la aiuta sia in termini artistici che economici, e che tuttavia condivide con lei la scelta di stare ai margini, perché è proprio ai bordi della società che bisogna dare finalmente volto.

In Summer Lorenza Mazzetti è al centro delle pagine della cornice extradiegetica, ed è presente anche come riferimento intertestuale all’interno della storia principale secondo una modalità rappresentativa che potremmo definire quasi in termini di ‘drammatizzazione’. Nel caso della cornice la voce narrante, un ‘io’ che possiamo identificare con una proiezione narrativa dell’autrice implicita, inserisce la figura della cineasta all’interno di una riflessione fulminea sulla condizione della società contemporanea. Nei tre brani che costituiscono la cornice, e che sono posti a incipit di ciascuna sezione in cui è suddiviso il romanzo, la narratrice racconta, rispettivamente, due brevi scene tratte da K e da Together, per poi concentrarsi più estensivamente sulla vita di Mazzetti nell’ultima cornice. La formazione cinematografica della filmmaker viene ri-narrata a partire proprio dalla lettura fatta da Smith di Dario londinese, citato esplicitamente insieme a Il cielo cade e Con rabbia (tutti tradotti in inglese) nel corpo del testo, del quale non solo vengono riassunti gli aspetti contenutistici – l’arrivo in Inghilterra, i lavori saltuari, l’ammissione alla Slade, le pellicole cinematografiche, il rapporto traumatico con il passato – ma di cui si riprende anche l’immediatezza stilistica nell’uso, comune al romanzo di Mazzetti, del presente come tempo verbale della narrazione.

L’immediatezza temporale, unita alla propensione per la focalizzazione interna e a una sintassi breve e incisiva, costituisce il dispositivo mimetico che attraversa, sconfinando da un medium all’altro, quella che, a seconda del medium sul quale vogliamo porre l’accento, costituisce la camera-stylo o la stylo-camera con cui si compone la scrittura per immagini di Mazzetti, perfettamente interpretata anche da Smith in Summer: come i film della cineasta, nelle loro inquadrature spesso sghembe o nei movimenti di camera nervosi e strattonati, ci mostrano un mondo inquietante ridotto agli elementi essenziali, così il flusso narrativo di Mazzetti si muove per lampi e inquadrature, capaci di cogliere uno stato d’animo sempre in fieri e in movimento pur nella fissità della parola che immortala una situazione, una scena.

Il rapporto tra parola e immagine, che per Mazzetti potremmo intendere quasi all’insegna di quella «concrescenza genetica» individuata da Michele Cometa a proposito del «doppio talento» (2005 e 2014) – categoria perfettamente applicabile a Mazzetti, che anzi la supera, essendo stata, oltreché cineasta e scrittrice, anche pittrice e teatrante –, ci porta a considerare un secondo e ultimo aspetto, ovvero in che modo la rappresentazione della filmmaker viene mediata attraverso le immagini, siano queste relative ai suoi film o alla sua persona, e siano esse narrate o esibite visivamente all’interno del corpo del testo. Anche in questo caso Diario londinese e Summer si presentano come casi di studio di estremo interesse, dal momento che intessono, se posti l’uno a fianco dell’altro, un dialogo tra la prospettiva di chi sta al di qua della camera da presa e di chi invece fruisce delle immagini in termini spettatoriali.

Entrambi i romanzi presentano, infatti, un apparato iconografico che si snoda a livello sia paratestuale che intratestuale: in Diario londinese la copertina riporta un quadro della stessa Mazzetti in cui ritrae sé stessa insieme ai fondatori del Free Cinema (Karel Reisz, Lindsay Anderson e Tony Richardson) [fig. 1], e il testo è intervallato da altrettanti suoi quadri, insieme a ritratti fotografici di lei e dei compagni d’avventura [fig. 2], oltreché a due fotogrammi filmici [fig. 3] e la locandina della prima proiezione di K. In Summer, come per gli altri romanzi del ciclo Seasonal, l’interno della quarta di copertina è occupato da un’opera dell’artista rievocata nel testo, in questo caso un autoritratto pittorico di Mazzetti del 2010 [fig. 4]. La componente visuale pare quindi collegarsi in primis alla costruzione biografico-finzionale della vita artistica della filmmaker, oscillando tra vocazione documentale e archivistica da un lato, e rielaborazione memoriale, sempre in senso finzionale, dall’altro. In quest’ottica, la massiccia presenza dei ritratti pittorici eseguiti da Mazzetti, nel romanzo suo e di Smith, ben sintetizza il processo creativo e trasfigurativo della memoria personale e collettiva.

Ma il ritratto della filmmaker passa anche, e soprattutto, attraverso le immagini dei film che ha girato, immagini in movimento la cui messa in forma fissa, sia essa mediante il fotogramma o la descrizione verbale, tradisce una tensione che sottende una fluidità, una mobilità della stessa artista sperimentale, incapace di poter essere ‘immortalata’, ‘bloccata’ in una configurazione stabile e rassicurante. Tanto in Diario londinese quanto in Summer il tempo interiore dell’immagine in movimento viene reso attraverso una particolare forma di ékphrasis in cui, alla descrizione più o meno accurata della scena, si somma un dispiegamento del processo interpretativo che avviene nel momento stesso del farsi dell’immagine, attraverso il ricorso alla focalizzazione interna. Possiamo provare a mettere a confronto due passaggi di entrambi i romanzi relativi al primo film girato da Mazzetti, K.

In Diario londinese l’attenzione dell’io narrante si concentra sulla fase di ideazione del corto, meno su quella delle riprese o delle relative proiezioni. La rappresentazione di cosa si vedrà nel film è affidata a un dialogo tra Lorenza e Michael, un compagno di corso che lei cerca di convincere a vestire i panni di Gregor Samsa:

Spiego a Michael la storia del film che voglio fare, tratto da una novella di Franz Kafka, La metamorfosi. Michael non conosce Kafka e vuole sapere di più. «Dammi il testo che io voglio leggere e imparare a memoria». «Ma no, non devi imparare nulla a memoria». «Ma come, non c’è un testo?». «No, devi solo tentare di scendere dal letto e non ci riesci, perché si mettono in moto tutte le tue zampine». «Come? Zampine?». «Guarda, lui immagina di avere delle zampine». «E come va a finire?». «Non importa che io ti dica come va a finire». «Ma io voglio saperlo!». «Vedi, i suoi genitori lo chiudono in uno stanzino, insomma un ripostiglio, perché si vergognano di lui. L’importante è che resti chiuso e non si faccia vedere dagli ospiti paganti, infatti la famiglia del protagonista, che si chiama Gregor, vive del denaro ricavato affittando le stanze». «Sì, ma come va a finire?». «Non te lo dico». «No, voglio saperlo». «Beh, lui muore e viene buttato nell’immondizia». Michael resta a bocca aperta. «Ma non capisci», dico io, «l’autore non vuole dire ciò che dice, ma esattamente il contrario. Infatti l’effetto sul pubblico è quello che conta: Gregor, reietto per gli altri, con la sua morte diventa in realtà l’accusatore. Come Gesù, d’altronde. Michael, ci sono persone malate nell’anima che non trovano l’energia per vivere. Io per esempio» (Mazzetti 2014, pp. 47-48).

Il momento più propriamente ecfrastico – il particolare modo in cui il protagonista si muove nello spazio una volta avvenuta la metamorfosi – viene inserito all’interno di un dialogo che, in virtù dell’uso dello scambio diretto tra i personaggi e della speculazione di senso che essi tentano nel corso della conversazione, mette letteralmente in movimento l’immagine mentale che di lì a poco si concretizzerà sulla pellicola. Seppur in misura differente, questo stesso procedimento è ravvisabile nella particolare scena di K sulla quale si sofferma la voce narrante di Ali Smith:

It’s an image of a man carrying two suitcases. He’s a slight man, a young man, a distracted and tentative kind of a man, dapper in a hat and jacket, light on his feet but at the same time burdened; it’s clear he’d be burdened even if he wasn’t carrying two suitcases. He is grave, slim, preoccupied, terribly keen, and he is silhouetted against the sky because he’s balanced on a very narrow brick ledge which runs round the edge of a high building, along the length of which he’s doing a joyous and frantic dance with the beaten-up rooftops of London behind him; no: more precisely, those roofs are way below him. How can be he going so fast and not fall off the edge of the building? How can what he’s doing be so wild and still so graceful, so urgent and blithe both at once? How can he be swinging those cases around in the air like that and still keep his balance? How can he be moving at such speed next to the sheer drop? Why is he risking everything? There’d be no point in showing you a still or a photo of this. It’s very much a moving image (p. 6).

La dimensione dialogica, esplicitata in quel «showing you» che interpella direttamente chi legge, è qui amplificata dal rincorrersi di domande che sondano il senso della scena, secondo una logica dello scavo in profondità che è possibile intravedere anche nell’uso di anafore e variazioni sullo stesso tema («slight man, young man, distracted man», etc.), ma senza che mai si addivenga a un risultato verificabile e certo.

Come per il Gregor di K agile e in equilibrio precario mentre saltella sui tetti di Londra, leggero come il balzo del Cavalcanti boccacciano ricordato nelle Lezioni americane di Italo Calvino, ma anche profondamente malinconico come Charlot o Buster Keaton, così anche per Lorenza Mazzetti – e forse, azzardiamo, per la rappresentazione della filmmaker sperimentale – possiamo ipotizzare l’immagine di una figura a mezz’aria, colta in un salto: irrequieta, al confine tra cielo e terra, tra parola e visione, tra stasi e movimento, che rimette in discussione i confini e i margini delle arti e dei generi, ed è forse questa una lezione di metodo che possiamo provare a praticare nel momento in cui noi stesse ci accostiamo a quelle immagini, a quelle parole.

 

Bibliografia

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L. Mazzetti, Il cielo cade [1961], Palermo, Sellerio, 2018.

L. Mazzetti, Diario londinese, Palermo, Sellerio, 2014.

L. Mazzetti, Con rabbia [1963], Milano, La nave di Teseo.

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Ali Smith, Spring, London, Hamish Hamilton, 2019.

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