1. Dalla ninfa gradiva alla casa della ‘prigioniera’
A partire dalle pagine della Recherche proustiana, Albertine Simonet è divenuta il personaggio femminile più osservato e, al contempo, più sfuggente della modernità letteraria europea. Accessibile a chi legge solamente attraverso il punto di vista del Narratore, senza che ci sia mai la possibilità di assumere la prospettiva di lei, Albertine è fatta oggetto di una scopia ossessiva che tuttavia non riesce a penetrare l’enigma e l’alterità di cui la giovane donna si fa portatrice (Dubois 1997; Jenny 2005). Il desiderio sessuale e la gelosia patologica del Narratore trasformano lo sguardo di lui in uno strumento di controllo concentrazionario, intervenendo in modo significativo sull’organizzazione dello spazio dal quale dipende, in larga parte, l’immagine esteriore che il Narratore – e di conseguenza chi legge – è in grado di cogliere di Albertine.
La metamorfosi più significativa della giovane donna, che nel corso dell’intera Recherche viene insistentemente descritta come mutevole, molteplice e inafferrabile, si avverte nel confronto fra i ritratti ricorrenti all’interno dei due volumi che maggiormente mettono al centro la sua fantasmatica presenza: À l’ombre des jeunes filles en fleur e La prisonnière. Nel secondo tomo della Recherche la prima apparizione compiuta di un’Albertine ragazzina, mentre si trova con le compagne della piccola banda di Balbec, si cristallizzerà in una visione imperitura, vero e proprio leitmotiv che accompagnerà il Narratore anche negli anni successivi. La «fille aux yeux brillantes, rieurs, aux grosses joues mates, sous un “polo” noir, enfoncé sur sa tête, qui poussait une bicyclette avec un dandinement de hanches si dégingandé» (Proust 1920, p. 86) pare un’incarnazione moderna di forza, agilità e spavalderia, in contrasto con l’atteggiamento, l’abbigliamento, ma anche la spazialità che contraddistingue le ragazze al di fuori della piccola banda. Benché a più riprese le giovani in fiore vengano accostate – e confuse fra loro – dal Narratore alle silhouette di vergini elleniche, alle passanti di baudelairiana memoria o a manifestazioni floreali dei giardini botanici, a poco a poco il profilo di Albertine comincia a distinguersi dalle altre, a uscire da un più generico bassorilievo proprio per la sua particolare vitalità, per la rudezza del linguaggio spesso gergale, per la luminosità degli occhi e di un profilo sempre accostato allo sfondo del mare. La mobilità di Albertine, che costituisce anche la principale fonte di desiderio del Narratore, è dunque intrinsecamente legata a una spazialità aperta – il paesaggio di Balbec, le notti di plenilunio, la velocità della bicicletta, la solitudine del gesto del golf – e a un movimento serpentino e imprevedibile, ben sintetizzato nel paragone con l’apparizione «de la danseuse dont sont transmutées les couleurs, la forme, le caractère, selon les jeux innombrablement variés d’un projecteur lumineux» (Ivi, p. 221) – chiaro riferimento a Loïe Fuller, la ballerina dalla veste svolazzante che incantò i fratelli Lumière.