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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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A partire dalle pagine della Recherche proustiana, Albertine è divenuta personaggio femminile sfuggente quasi per antonomasia. Eppure la sua inafferrabilità viaggia in parallelo al tentativo di impossibile addomesticamento perpetrato dal suo apparente demiurgo: accessibile a chi legge solamente attraverso il punto di vista del narratore, senza che ci sia la possibilità di assumere, in alcun momento, la prospettiva di lei, Albertine si trasforma da colei che viaggia in bicicletta sulla spiaggia alla ‘prigioniera’ confinata nella casa del protagonista e, in particolare, nella camera da letto a lei deputata. Eppure, nelle rielaborazioni più o meno consapevoli delle sue sorti da parte di alcune autrici e artiste contemporanee, proprio la dimensione domestica viene rielaborata alla luce di una nuova possibilità di affermare il soggetto femminile, secondo una tensione perennemente ambigua tra confinamento e liminalità cercata. Così in Proussade (1967) Pia Epremian rielabora la propria tesi su Proust in un film sperimentale girato in un appartamento, in cui il volto ieratico di una giovanissima Patrizia Vicinelli pare sintetizzare l’isolamento, ma anche la spregiudicatezza, di un’Albertine finalmente resa anche soggetto della visione; nella plaquette poetica The Albertine Workout (2014) Anne Carson, in un esperimento letterario a cavallo tra indagine forense e analisi quantitativa, ci riporta l’immagine di un’Albertine che si fa pianta domestica quasi a mo’ di strategia biologica di sopravvivenza; infine, nella serie fotografica a colori di Francesca Woodman, lettrice vorace di Proust, ambientata nel proprio appartamento newyorkese (1979-1980) possiamo immaginare il fantasma di Albertine che anima strategie iconografiche di fuga e superamento delle soglie (porte, specchi, pareti) leggibili nella geometria del corpo femminile.

Albertine Simonet, from Proust’s Recherche, is the elusive female character par excellence. Yet her elusiveness runs parallel to an impossible domestication perpetrated by the narrator: she transforms from the one who travels by bicycle on the beach to the ‘prisoner’ confined to the protagonist’s house and, in particular, to the bedroom assigned to her. However, in the more or less conscious revision of its fate by some contemporary female authors and artists, the domestic dimension is refashioned in the light of a new possibility of affirming the female subject, according to a perennially ambiguous tension between confinement and liminality. In Proussade (1967) Pia Epremian reworks her thesis on Proust in an experimental film shot in an apartment, in which the hieratic face of a very young Patrizia Vicinelli seems to synthesize the isolation, but also the unscrupulousness, of Albertine, who finally becomes the gazing subject; in The Albertine Workout (2014), a plaquette by Anne Carson, Albertine becomes a domestic plant who struggles to survive; finally, in Francesca Woodman’s color photographic series set in her New York apartment (1979-1980), we can imagine Albertine’s ghost hiding herself in the geometry of the female body.

1. Dalla ninfa gradiva alla casa della ‘prigioniera’

A partire dalle pagine della Recherche proustiana, Albertine Simonet è divenuta il personaggio femminile più osservato e, al contempo, più sfuggente della modernità letteraria europea. Accessibile a chi legge solamente attraverso il punto di vista del Narratore, senza che ci sia mai la possibilità di assumere la prospettiva di lei, Albertine è fatta oggetto di una scopia ossessiva che tuttavia non riesce a penetrare l’enigma e l’alterità di cui la giovane donna si fa portatrice (Dubois 1997; Jenny 2005). Il desiderio sessuale e la gelosia patologica del Narratore trasformano lo sguardo di lui in uno strumento di controllo concentrazionario, intervenendo in modo significativo sull’organizzazione dello spazio dal quale dipende, in larga parte, l’immagine esteriore che il Narratore – e di conseguenza chi legge – è in grado di cogliere di Albertine.

La metamorfosi più significativa della giovane donna, che nel corso dell’intera Recherche viene insistentemente descritta come mutevole, molteplice e inafferrabile, si avverte nel confronto fra i ritratti ricorrenti all’interno dei due volumi che maggiormente mettono al centro la sua fantasmatica presenza: À l’ombre des jeunes filles en fleur e La prisonnière. Nel secondo tomo della Recherche la prima apparizione compiuta di un’Albertine ragazzina, mentre si trova con le compagne della piccola banda di Balbec, si cristallizzerà in una visione imperitura, vero e proprio leitmotiv che accompagnerà il Narratore anche negli anni successivi. La «fille aux yeux brillantes, rieurs, aux grosses joues mates, sous un “polo” noir, enfoncé sur sa tête, qui poussait une bicyclette avec un dandinement de hanches si dégingandé» (Proust 1920, p. 86) pare un’incarnazione moderna di forza, agilità e spavalderia, in contrasto con l’atteggiamento, l’abbigliamento, ma anche la spazialità che contraddistingue le ragazze al di fuori della piccola banda. Benché a più riprese le giovani in fiore vengano accostate – e confuse fra loro – dal Narratore alle silhouette di vergini elleniche, alle passanti di baudelairiana memoria o a manifestazioni floreali dei giardini botanici, a poco a poco il profilo di Albertine comincia a distinguersi dalle altre, a uscire da un più generico bassorilievo proprio per la sua particolare vitalità, per la rudezza del linguaggio spesso gergale, per la luminosità degli occhi e di un profilo sempre accostato allo sfondo del mare. La mobilità di Albertine, che costituisce anche la principale fonte di desiderio del Narratore, è dunque intrinsecamente legata a una spazialità aperta – il paesaggio di Balbec, le notti di plenilunio, la velocità della bicicletta, la solitudine del gesto del golf – e a un movimento serpentino e imprevedibile, ben sintetizzato nel paragone con l’apparizione «de la danseuse dont sont transmutées les couleurs, la forme, le caractère, selon les jeux innombrablement variés d’un projecteur lumineux» (Ivi, p. 221) – chiaro riferimento a Loïe Fuller, la ballerina dalla veste svolazzante che incantò i fratelli Lumière.

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In un anno segnato da varie iniziative culturali destinate al ricordo di Marilyn in occasione del sessantennale della sua morte, ri-leggere il testo di Anne Carson Norma Jeane Baker of Troy (pubblicato in traduzione italiana da Crocetti nel 2021) costituisce un’occasione per tornare a riflettere sulle molteplici rifrazioni transmediali del mito della stella più luminosa di Hollywood. Il presente contributo, soffermandosi sulle potenzialità semantiche che si sprigionano dall’accostamento di Norma Jeane alla protagonista della tragedia di Euripide, su cui si fonda la pièce di Carson, mette in evidenza la persistenza del motivo del doppio e delle sue implicazioni fantasmatiche presenti nella ricezione dell’icona della star, nella letteratura come nella fotografia.  

In a year marked by various cultural events dedicated to the memory of Marilyn on the occasion of the sixtieth anniversary of her death, re-reading the text by Anne Carson, Norma Jeane Baker of Troy (published in Italian translation by Crocetti in 2021), is an opportunity to return to reflect on the multiple transmedia refractions of the myth of the brightest star in Hollywood. This contribution, dwelling on the semantic potential that is released by Norma Jeane’s approach to the protagonist of Euripide’s tragedy, on which Carson’s play is based, highlights the persistence of the motif of the double and its phantasmic implications present in the reception of the star, in literature as in photography.

 

Il titolo della edizione italiana della pièce di Anne Carson, Era una nuvola (Norma Jeane Baker of Troy. A version of Euripide’s Helen, New York, New Directions, 2019), scelto dalla stessa autrice come ricorda il curatore Patrizio Ceccagnoli nel saggio introduttivo,[1] costituisce già una evocativa chiave di lettura dell’operazione di riscrittura dell’Elena di Euripide e di sovrapposizione del mito antico con quello più moderno di Marilyn. Il testo di Carson, scritto su commissione per inaugurare lo spazio newyorkese dello Shed, affidato poi alla regia di Katie Mitchell e interpretato dall’attore Ben Whishaw e dalla cantante lirica Renée Fleming, si pone infatti sulla scia di una costante pratica di disambientazione contemporanea della classicità che la poeta, drammaturga, saggista, traduttrice e docente di greco antico di origine canadese porta avanti da tempo.

 

La ‘versione dell’Elena’ che Carson propone è concepita come un monologo (un «melologo» nell’accezione dell’autrice, nel senso di una combinazione di melòs e lògos, di canto e discorso) in cui la protagonista, Norma Jeane Baker, rivive le vicende dell’eroina euripidea in un pastiche fondato sulla moltiplicazione dei sensi attribuiti allo sdoppiamento e alla natura fantasmatica dell’immagine di Elena. Come è noto, la ‘versione’ di Euripide demistifica l’epos della narrazione della guerra di Troia, svelando al naufrago Menelao e a tutto il pubblico di ieri e di oggi che la donna che ha rincorso per mare e per terra, conducendo tanti validi eroi a impegnarsi in un conflitto lungo ed estenuante, non è niente più che un simulacro creato dalla dea Era «con un pezzo di cielo»,[2] un’immagine eterea raddoppiata della donna amata, mentre la vera Elena è stata condotta da Ermes in Egitto e tenuta prigioniera nella regia di Proteo. Carson riprende e amplifica il topos del miraggio e della copia, così come il gioco degli equivoci e dei mascheramenti su cui si fonda la drammaturgia della tragedia, e lo eleva a sistema, ne fa cioè il dispositivo cardine della sua riscrittura che agisce nella costruzione dei caratteri, del plot, del luogo in cui si svolge la vicenda, come della stessa struttura.

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Scriveva George Steiner nei primi anni Ottanta che, se dal 1790 alla fine dell’Ottocento era stato il tempo di Antigone, all’inizio del Novecento Edipo avrebbe preso il posto della figlia come protagonista delle riproposizioni del ciclo dei Labdacidi.[1] Una simile tesi, discutibile già quando fu formulata, oggi appare ancora più difficile da sostenere, tale è stata la fortuna della principessa tebana nella seconda metà del secolo XX e oltre: furiosa, indignata, antagonista, pietosa, Antigone ha rivestito un ruolo di primissimo piano sulla scena e sullo schermo contemporanei, così come nella scrittura, e non solo in Europa, ma anche in inediti contesti postcoloniali. A questo successo letterario-artistico si è accompagnata una non meno vasta discussione filologica, etica, politica e giuridica, cosicché si può affermare che, sebbene costretta dalle circostanze alla tomba e al suicidio, Antigone gode in questo inizio di nuovo millennio di ottima salute.[2]

È nel contesto di tale ricchissima rete di riscritture e riletture che si inserisce la terza monografia che Sotera Fornaro, docente di Letteratura greca all’Università di Sassari, ha dedicato al personaggio, dopo Antigone. Storia di un mito, una ragionata guida alla ricezione della figlia di Edipo nella cultura occidentale (Carocci, 2012), e L’ora di Antigone dal nazismo agli anni di piombo (Narr, 2012), studio sulle riprese della figura nella cultura tedesca fra gli anni Trenta e gli anni Settanta, accompagnato dalla traduzione di testi inediti in Italia. A conferma di una passione intellettuale pronta a cogliere di Antigone in primo luogo la capacità di suscitare domande scomode e persino inquietanti all’interno del confuso scenario politico del presente, Antigone ai tempi del terrorismo. Letteratura, teatro, cinema (Pensa Multimedia, Lecce-Brescia, 2016) mette la sorella di Polinice più specificatamente a contatto con le questioni, fra di loro correlate, della sepoltura dei nemici e della lotta armata, ampliando cronologicamente e geograficamente l’area di indagine del libro precedente: non più solo la Germania, ma anche l’Europa, e poi gli Stati Uniti e il Canada, il Medio Oriente, l’Afghanistan.

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